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Full text of "Gli ideali di un economista"

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University  of  Toronto 


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LUIGI  EINAUDI 


nato  a  Carrù    (Cuneo)    il   24    Marzo    1874. 


Senatore  del   Regno,    Professore  di    scienza   delle   finanze 

nella  Università  di  torino  e  nella  Università  Bocconi  di  Milano 

Condirettore  della  RIFORMA  SOCIALE. 


PUBBLICAZIONI  PRINCIPALI. 

Un  principe  mercante,  Torino,  Bocca,   1900. 

Corso  di  scienza  delle  finanze,  Torino,  presso  l'au- 
tore,  1914. 

Il  problema  delle  abitazioni,   Milano,  Treves,   1920. 

//  problema  della  finanza  post-bellica,  Milano,  Treves, 
1921. 

Prediche,  Bari,  Laterza,   1921. 


QUADERNI    DELLA   VOCE 

RACCOLTI  DA  GIUSEPPE  PREZZOLIMI 


LUIGI   EINAUDI 


GLI  IDEALI 
DI  UN  ECONOMISTA 


PUBBLICAZIONE  DELLA    SOC.  AN.   ED.   "  LA  VOCE  ,, 
QUADERNO    50-51,    SERIE    QUARTA-FIRENZE   1921 


PROPRIETÀ  RISERVATA 


MB 

177 
Ess~ 


DI    QUESTO    LIBRO    SONO    STATE   STAMPATE   25    COPIE 

NUMERATE    SU     CARTA    A    MANO    CHE   SI    VENDONO    A 

LIRE    TRENTASEI    CIASCUNA 


INDICE 

Avvertenza Pag.     7 

I.  —  Scienza  e  scuola. 

Salvatore  Cognetti  de   Martiis »  n 

La  crisi  scolastica  e  la  superstizione  degli  orari  lunghi    .  »  23 
Scuola  educativa  0  scuola  caleidoscopio?  (A  proposito  del 

disegno  di  legge  Credaro) .  »  33 

II.  —  Politica,  Impero  Britannico 
e  Società  delle  Nazioni. 

Ostruzionismo,  chiusura,  ghigliottina  e  canguro.     ...»  45 

Il  valore  italiano  del  trattato  di  Losanna »  57 

L'abolizione  delle  capitolazioni  in  Turchia »  69 

Decadenza  inglese? *....»  77 

Le  due  vie  dell'  imperialismo »  83 

Che  cosa  è  l' Impero  Britannico »  91 

Apologia  di  Wilson »  113 

Democrazia,  collettivismo  e  guerra »  123 

Gli  ideali  dell'  incapacità »  135 

Germanofìli  ed  anglofili »  145 

La  teoria  inglese  dell'equilibrio  europeo »  155 

L' idea  dello  Stato  come  forza »  163 

Le  cause  dello  scisma  e  le  tendenze  verso  una  intesa  dei 

popoli  di  lingua  inglese .     .  »  171 

Il  ritorno  della  «  Fior  di  maggio  » »  179 


11  problema  finanziario  della  Società  delle  Nazioni  .     .     .  Pag.  187 

Federazione  europea  0  Società  delle  Nazioni?     ....  »  195 

Il  governo  delle  «  cose  » »  205 

La  Società  delle  Nazioni  e  il  governo  delle  cose    ...  »  219 

Popoli  dominatori  e  popoli  oppressi »  229 

Come  si  giunse  al  trattato  di  Versailles »  239 

III.  —  La  guerra  italiana. 

L'educazione  politica  del  Conte  di  Cavour »  253 

La  conquista  dei  confini  naturali    dalla  parte   d'occidente 

ed  i  suoi  insegnamenti »  265 

Per  le  porte  d'Italia.  Soldati  piemontesi!  Soldati  italiani!  »  275 

Che  cosa  significa  la  lotta  sul  Trentino »  281 

Achille  Necco »  291 

Cesare  Jarach .*....  »  303 

Ammonimenti »  309 

I  disfattisti  della  vittoria »  323 

Contro  la  svalutazione  della  vittoria »  331 

Verso  la  città  divina. »  341 

IV.  —  Regole  di  galateo. 

Torniamo  al  «  signor  !» »  349 


—  7 


AVVERTENZA. 


Questa  è  una  raccolta  di  articoli  d' indole  non  strettamente 
economica,  di  quegli  scritti  al  margine  della  scienza  in  particolar 
modo  coltivata,  che  ognuno  di  noi  di  tanto  in  tanto  sente  il  biso- 
gno di  mandare  per  il  mondo,  quasi  a  testimoniare  che  non  ci 
sentiamo  soltanto  economisti  o  geologi  o  chimici,  ma  viviamo  an- 
che la  vita  di  tutti,  e  specialmente  quella  della  nostra  nazione. 

La  raccolta  non  è  compiuta,  per  non  crescere  inutilmente  la 
mole  del  volume;  ma  è  forse  bastevole  ad  indicare  quali  siano  i 
miei  ideali  —  il  titolo  del  volume  non  è  di  mia  fattura,  ma  fu 
trovato  dall'amico  Prezzolini  ~-  quali  siano,  io  direi  più  sempli- 
cemente, le  mie  fissazioni  :  la  scuola  educativa,  V Inghilterra,  la 
formazione  dell'Italia  attraverso  alla  storia  piemontese,  la  neces- 
sità di  governi  supernazionali  limitati  per  ora  a  quelle  che  si  dicono 
"  cose  ,,.  Si  discorre  anche  della  guerra  e  vorrei  sperare  con  atteg- 
giamento logico  rispetto  alle  predilezioni  di  prima,  con  rispetto 
verso  i  nemici  e  con  sguardo  intento  alle  tradizioni  della  storia 
paesana. 

Torino,  fine  del  1920. 

LUIGI  EINAUDI. 


I. 

SCIENZA   E  SCUOLA 


SALVATORE  COGNETTI  DE  MARTIIS 

Salvatore  Cognetti  De  Martiis  era  nato  a  Bari  il  19 
gennaio  1844.  Dopo  aver  compiuto  gli  studi  universi- 
tari a  Pisa  dal  1861  al  1866  ed  aver  ivi  ottenuta  la  lau- 
rea in  giurisprudenza  fu  coi  volontari  garibaldini  nel 
Tirolo  nel  1866.  E  combattè  virilmente  per  la  causa 
dell' indipendenza  nazionale  a  Monte  Suello  ed  a  Con- 
dino. 

Dopo,  la  scienza  e  l'insegnamento  lo  attrassero,  né 
mai  più  li  abbandonò.  Nel  1867,  a  23  anni,  fu  nomi- 
nato direttore  delle  scuole  municipali  di  Bari  e  nell'anno 
seguente  professore  di  economia  politica  nell'Istituto 
tecnico  che  allora  si  era  fondato  nella  sua  città  nativa. 
Nel  1868  fu  chiamato  ad  insegnare  Economia  politica 
nell'Istituto  tecnico  provinciale  di  Mantova,  dove  ri- 
mase sino  al  1876.  A  Mantova  sposò  la  signora  che  fu 
l'angelo  consolatore  della  sua  vita  e  diresse  la  quoti- 
diana Gazzetta  di  Mantova,  nella  quale  difese  le 
dottrine  politiche  conservatrici  con  grande  calore  d'a- 
nimo e  con  bella  temperanza  di  forma.  Dalla  direzione 
della  Gazzetta  di  Mantova  passò  alla  redazione  della 
parte  economica  nella  Perseveranza,  nell'epoca  in  cui 
il  vecchio  giornale  moderato  lombardo  raccoglieva  in- 
tomo a  se  il  fiore  degli  ingegni  di  parte  sua.  Ma  nel 
frattempo,  essendosi  rese  vacanti  le  cattedre  di  Econo- 
mia politica  nelle   Università   di   Siena  e  di   Torino,    il 


12 


Cognetti  le  vinse  entrambe  in  pubblico  concorsa.  La 
sua  scelta  fu  per  Torino,  dove  rimase,  prima  in  qualità 
di  professore  straordinario  e  poi  di  ordinario,  dal  1°  gen- 
naio del  1878  e  dove  gli  fu  conferito  altresì  l'insegna- 
mento dell'Economia  e  Legislazione  industriale  nel  Mu- 
seo Industriale. 

Ed  a  Torino  fondava  nel  novembre  1893  quel  Labo- 
ratorio di  Economia  politica  che  fu  la  cura  precipua 
degli  ultimi  anni  della  sua  vita  e  che  egli  ebbe  la  sod- 
disfazione suprema  di  vedere  riconosciuto  con  decreto 
reale  come  Istituto  universitario  pochi  mesi  prima  della 
sua  morte.  La  quale  sopravvenne  improvvisa  dopo  una 
crudele  malattia  che  lo  avea  a  lungo  travagliato  crudel- 
mente durante  il  1900  e  dopo  parecchi- mesi  di  conva- 
lescenza, che  gli  amici  ed  i  discepoli  speravano  fosse 
davvero  ristoratrice,  passati  a  Roma  nell'inverno  de- 
corso. Alla  fine  di  Aprile,  impaziente  di  rivedere  la 
scuola  ed  il  Laboratorio  che  egli  tanto  amava,  ritornò 
a  Torino,  dove  tenne  la  sua  prelezione,  parlando  della 
Idea  economica  nel  Gioberti;  ed  i  colleghi  ed  i  disce- 
poli, che  erano  accorsi  numerosi  a  salutare  il  ritomo 
del  professore  amato,  si  lusingarono  che  per  lunghi 
anni  ancora  Salvatore  Cognetti  De  Martiis  potesse  im- 
partire dalla  cattedra  il  consueto  insegnamento.  Fu 
breve  speranza;  pochi  giorni  dopo  egli  era  ripreso  dal 
male,  solo  apparentemente  vinto;  e  dopo  una  opera- 
zione virilmente  sopportata,  dovette  soccombere  1*8 
Giugno. 

Salvatore  Cognetti  De  Martiis  accanto  a  molte  pub- 
blicazioni di  indole  svariata,  le  quali  attestano  la  sua 
costante  ed  indefessa  operosità,  lascia  alcune  opere 
principali  che  sono  lo  specchio  esatto  del  suo  pensiero 


—  13  — 

scientifico.  Voglio  accennare  alle  Forme  primitive 
nella  evoluzione  economica,  al  Socialismo  antico,  ed 
alle  Prefazioni  alla  quarta  serie  della  «  Biblioteca  del- 
l'Economista ». 

Nelle  Forme  primitive  egli  volle  studiare  i  primi 
inizi  della  vita  economica  nelle  società  primitive  sel- 
vagge e  barbare;  ed  anzi,  spingendosi  più  in  là  ancora, 
volle  rintracciare  nella  vita  delle  piante  e  degli  animali 
quei  fenomeni  a  cui  poteva  attribuirsi  un  movente  di 
procacciamento  economico.  Fu  un  tentativo  che  for- 
mò oggetto  di  critiche  e  di  lodi  vivaci  e  su  cui  forse 
non  è  giunto  ancora  il  momento  di  dare  un  giudizio 
definitivo.  È  certo  però  che  l'A.  portò  nella  sua  ricerca 
quello  spirito  di  viva  ed  attenta  osservazione  e  di  acuta 
comparazione  dei  fatti  osservati,  che  furono  le  carat- 
teristiche più  notevoli   del  suo   ingegno. 

Nel  Socialismo  antico  (1889)  egli  parve  abbandonare 
per  un  momento  il  metodo  biologico  e  sociologico  delle 
Forme  primitive  per  addentrarsi  nello  studio  di  taluni 
fatti  interessanti  e  quasi  ignoti  del  mondo  antico.  An- 
cora oggi  dopo  gli  studi  poderosi  di  altri  indagatori, 
quel  volume  insigne  rimane  l'unico  nel  quale  sia  con- 
tenuto uno  studio  completo  delle  idee  e  degli  speri- 
menti socialisti  nell'antichità.  Perchè  il  Cognetti  non  si 
limitò  alla  Grecia  ed  a  Roma,  ma,  aiutato  dalla  sua 
singolare  cultura  linguistica  e  filologica,  seppe  trarre 
dalle  leggende  e  dai  libri  sacri  della  Persia,  dell'India 
e  della  Cina  materiali  preziosi  per  gittare  una  luce  vi- 
vissima sulla  storia   del   socialismo   presso   quei   popoli. 

La  storia  del  socialismo  lo  attrasse  un'altra  volta 
quando  egli,  alcuni  anni  dopo  (1891),  pubblicò,  a  guisa 
di   prefazione   al  volume   di   George   «  Progresso   e   Po- 


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verta  »,  un  lungo  studio  su  «  lì  socialismo  negli  Stati 
Uniti  a1' America  ».  Anche  in  questo  volume  rifulgono 
le  sue  doti  di  osservatore  accurato  ed  acuto  e  la  sua 
attitudine  a  collocare  le  idee  in  giusto  risalto  nell'am- 
biente storico  in  cui  esse   erano  nate. 

L'ultima  opera  di  lunga  lena,  a  cui  il  Cognetti  pose 
mano  nell'ultimo  decennio   di  sua  vita,   fu  la  direzione 
della    quarta    serie     della     Biblioteca     dell'Economista. 
Egli  volle  attuare  in  questa  serie  il  suo  concetto  di  una 
scienza    economica   basata   sulla    osservazione    dei    fatti 
ed  atta  a  servire  di  utile  guida  agli  studiosi,  agli  uomini 
di  stato,  ad  industriali  e  commercianti  nello  studio  delle 
più    urgenti    questioni    del    giorno.    Come    già    nella    se- 
conda serie  il  Ferrara  avea  raccolta  una.  serie  imponente 
di    monografìe    speciali    intese    a    svolgere    partitamente 
le   applicazioni   della  scienza   esposta  nei   suoi   principii 
dalla    prima   serie,    così    il    Cognetti    volle    nella    quarta 
serie    raccogliere    numerose    monografìe    sulle    questioni 
commerciali,    doganali,    operaie,     monetarie,    bancarie, 
sui   rapporti  tra   capitale   e  lavoro,   sulle   crisi   ecc.,    che 
valessero   a  dare  un   idea  dei  problemi  principali   della 
vita    economica    contemporanea.    Ed    arricchì    i    volumi 
da  lui  pubblicati  con  una  introduzione  generale  su  Le 
variazioni  nella   vita   economica  e   nella  coltura   econo- 
mica  e   con   prefazioni   speciali   su   /   due   sistemi   della 
politica  commerciale,  la  Struttura  e  vita  del  Commercio 
e  la  Mano  adopera  del  sistema  economica,   di  cui  l'ul- 
tima rimase  incompiuta.  Voleva  altresì  por  mano  ad  un 
Dizionario  di  Economia  Politica  che  sarebbe  stata   im- 
presa utilissima  ed  originale  per  l'Italia.   La  morte  pre- 
matura non   glie  lo  consentì;  ma  è  fortuna  che  la  con- 
valescenza gli   abbia  permesso  di  porre  termine   ad  un 


—  15  — 

altra  sua  opera  che  è  bella  testimonianza  della  sua 
singolare  e  multiforme  attività  mentale  :  la  traduzione 
in  versi  martelliani  di  tutte  le  venti  commedie  di  Plauto. 
Perchè  Salvatore  Cognetti  De  Martiis  amava  allietare 
le  lunghe  serate  invernali  con  lo  studio  amoroso  dei 
poeti  latini.  Dalla  lettura  di  Plauto  egli  trasse  argomento 
ad  uno  studio  sulle  Banche,  i  banchieri  e  gli  usurai  nelle 
Commedie  di  Plauto,  che  fu  pubblicato  in  questo  gior- 
nale nel  1891-92;  e  di  tutte  le  commedie  plautine  ci 
lascia  una  traduzione  elegante  ed  adorna  di  numerose 
note  filologiche  sul  testo,  che  sarebbe  a  desiderarsi  po- 
tesse venire  pubblicata   a  giovamento   degli   studiosi. 

Ma  l'opera  principale  dell'ultimo  decennio  di  vita 
di  Salvatore  Cognetti  De  Martiis  e  quella  per  cui  noi, 
che  fummo  suoi  discepoli  all'università  e  suoi  compagni 
di  lavoro  in  seguito,  ebbimo  campo  ad  ammirare  mag- 
giormente la  sua  grandissima  bontà  d'animo,  il  suo 
entusiasmo  per  le  cose  nobili  e  belle,  il  suo  amore 
impareggiabile  per  i  giovani,  fu  il  Laboratorio  di  Eco- 
nomia politica. 

Io  ricordo  ancora,  come  se  fosse  oggi,  quella  gior- 
nata del  novembre  1893  in  cui  il  Professore  racco- 
gli e  vai  intorno  a  se  una  decina  di  giovani,  —  alcuni 
laureati  e  la  più  parte  studenti  del  3.  e  del  4.  anno 
del  corso  di  leggi,  —  in  due  modeste  stanzette  dell'an- 
tico Laboratorio  di  Patologia  del  professore  Bizzozzero. 
In  quelle  due  stanze  vi  erano  un  tavolo  e  poche  sedie 
date  in  prestito  dal  Rettore,  uno  scaffale  a  vetri  regalato 
dal  Prof.  Cora  ed  un  mucchio  di  libri  e  di  statistiche 
che  il  Professore  avea  portato  da  casa  sua  a  costituire 
il  primo  nucleo  della  Biblioteca  del  Laboratorio.  Il 
Professore   Cognetti    ci   spiegò    quali   fossero    gli    intenti 


16 


del  nuovo  istituto,  lesse  un  abbozzo  di  statuto  e  ci  co- 
municò come  egli  avesse  ottenuto,  a  titolo  di  incorag- 
giamento, qualche  piccola  somma  da  alcuni  soci  pa- 
troni e  non  ricordo  più  se  cento  e  duecento  lire  di 
sussidio    annuo    dal    Consorzio    Universitario. 

La  situazione  non  era  brillante;  ma  la  costante 
fiducia  nell'avvenire  dimostrata  dal  Professore  alimen- 
tava l'ardore  degli  allievi.  In  quel  primo  inverno,  sic- 
come i  quattrini  mancavano,  quando  veniva  il  crepu- 
scolo tutti  eravamo  costretti  a  sloggiare,  e  spesso  per 
difetto  di  combustibile  non  ci  era  permesso  di  tenere 
accesa  l'unica  stufa  che  riscaldava  le  due  stanze;  di 
guisa  che  alla  mancanza  di  luce  si  aggiungeva  non  di 
rado    la   mancanza   di   una  temperatura  »  sufficiente. 

I    primi    anni    passarono    così    attraverso    a   difficoltà 
gravissime    che    avrebbero    fiaccata    qualunque    volontà 
meno  energica  e  meno  risoluta  di  quella  del  Cognetti. 
L'Istituto  Giuridico  avea  bensì  concesso  in  prestito  pa- 
recchie riviste   e  pubblicazioni   periodiche  attinenti   alla 
scienza    economica;    ma   d'altra    parte   non    giungevano 
aiuti.    Il   professore    avea   bensì    messo    a    contribuzione 
tutti    gli    amici    suoi,    concedendo    loro    in    cambio    dei 
sussidi   ricevuti   la  qualità   di    soci    patroni    del   Labora- 
torio;  ma  questa  fonte  di   entrate   minacciava   di   inari- 
dire, malgrado  che  egli  fosse  instancabile  nel  chiedere. 
Il  Ministero  dell' Istruzione  pubblica,  a  cui  si  era  chiesto 
un    sussidio,    rispondeva    brutalmente    che    non    poteva 
dar  nulla  perchè   si   trattava  di   una   istituzione    inutile. 
Nel    frattempo    gli    oneri    andavano    continuamente 
crescendo.   Le  due  stanze  erano  cresciute  a  tre,  poi  a 
quattro  e  finalmente  a  sei,  oltre  ad  una  grande  aula  per 
le    lezioni.    Le    pubblicazioni    ufficiali,    italiane    e    sitar 


!7 


mere,  chieste  ed  ottenute  in  dono  con  una  corrispon- 
denza attivissima  crescevano  senza  tregua  e  richiede- 
vano sempre  nuovi  scaffali;  gli  allievi  aumentavano  di 
numero  perchè  agli  antichi  fedeli  si  aggiungevano 
sempre  nuovi  studenti  che  nel  materiale  di  studio  rac- 
colti nel  Laboratorio  trovavano  i  mezzi  per  scrivere  le 
tesi  di  laurea  con  agevolezze  altrove  non  raggiungibili. 
Agli  studenti  dell'Università  si  aggiungevano  quelli  del 
Museo  industriale,  ai  quali  venivano  affidate  special- 
mente le  illustrazioni  grafiche  delle  statistiche  più  sva- 
riate, di  cui  alcune  ottennero  meritato  premio  alla 
esposizione    di   Torino   del    1898. 

Il  professore  Cognetti,  instancabile,  chiedeva  sem- 
pre, ed  alle  ripulse  rispondeva  con  nuove  richieste.  Un 
pò  per  volta  il  successo  arrise  alla  pertinace  iniziativa. 
11  Consorzio  universitario  crebbe  il  suo  sussidio  da  200 
a  500  lire,  la  Camera  di  Commercio  diede  prima  200 
e  poi  500  lire  all'anno.  Il  Ministero  dell'Istruzione,  die- 
tro proposta  del  compianto  rettore  Nani,  concesse 
altresì  un  sussidio  annuo  di  lire  500  e  si  assunse  l'onere 
dello  stipendio  da  assegnarsi  ad  un  custode,  divenuto 
oramai  necessario  a  mantenere  in  ordine  una  così  ricca 
suppellettile  scientifica.  Il  Ministero  dell' Agricoltura, 
Industria  e  Commercio,  incoraggiato  dall'on.  Frola, 
presidente  del  Museo  industriale  e  benemerito  estima- 
tore di  tutte  le  iniziative  feconde,  diede  pure  esso  500 
lire  e  si  assunse  il  pagamento  dello  stipendio  ad  un 
assistente.  Cosicché  negli  ultimissimi  anni  il  Laboratorio 
di  Economia  Politica  aveva  ottenuto  uno  stabile  assetto, 
confermato  finalmente  dal  decreto  reale  che  nell'anno 
corrente    lo     riconosceva     ufficialmente     come    istituto 


3    - 


scientifico     universitario     annesso     contemporaneamente 
all'Università   ed   al   Museo    Industriale   di   Torino. 

Un  augurio  ci  sia  permesso  di  fare  ed  è  che  l'istituto 
fondato  dal  Cognetti  sia  mantenuto  non  solo,  ma  fatto 
prosperare  da  chi  terrà  la  cattedra  economica  nell'A- 
teneo torinese.  Esso  può  dare  in  futuro  risultati  scien- 
tifici più  larghi  ancora  che  del  passato,  perchè  non 
sarà  più  necessario  quel  dispendio  di  energie  e  di 
tempo,  che  il  suo  fondatore  dovette  impiegare  per 
sostenerlo  e  dargli  incremento,  durante  la  lunga  serie 
degli  anni  in  cui  ogni  giorno  sembrava  imminente  la 
rovina  a  tutti  fuorché  a  lui,  che  conservava  sempre 
intatta  la  fede  nel. trionfo  finale  della  istituzione  da  lui 
tanto    amata. 

Egli  la  seppe  fare  amare  anche  dagli  altri,  dai  com- 
pagni di  lavoro  (come  amava  chiamarli)  che  ebbe 
numerosi  durante  l'ultimo  decennio;  e  vi  riuscì  perchè 
il  Laboratorio  non  era  ne  una  biblioteca  ne  una  setta. 
Non  era  una  biblioteca  perchè  i  libri  erano  accessibili 
a  tutti  ed  a  renderli  ancora  più  utili  giovava  la  cortesia 
del  direttore,  sempre  pronto  a  fornire  indicazioni  pre 
ziose  sui  modi  di  trovare  ciò  che  da  mani  spesso  ine- 
sperte si  sarebbe  cercato  invano.  Non  era  una  setta, 
perchè  il  direttore  non  imponeva  le  sue  idee  a  nessuno, 
lasciando  liberi  tutti  di  abbracciare  le  dottrine  che  a 
ciascuno   più   talentavano. 

lo  ricordo  le  adunanze  domenicali,  in  cui  si  legge- 
vano e  si  discutevano  i  lavori  compiuti  nel  Laboratorio. 
Vi  intervenivano  giovani,  di  cui  tutti  nutrivano,  con 
maggiore  o  minore  ardore,  una  qualche  fede  scientifica 
o   pratica. 

Erano    liberisti    che     sarebbero    stati     seccati    ove    si 


—  19  — 

fosse  imposto  un  credo  protezionista,  che  pur  da  altri 
era  difeso;  erano  socialisti  democratici  i  quali  deside- 
ravano liberamente  esporre  i  loro  concetti;  erano  dei 
socialisti  cattolici,  che  si  sarebbero  sentiti  a  disagio  in 
un  ambiente  ostile.  Eppure  tutti  convivevano  e  discu- 
tevano fraternamente  sotto  la  guida  del  direttore,  il 
quale  astringeva  i  frequentatori  del  Laboratorio  a  due 
soli  obblighi  :  usare  cortesia  di  forma  nel  dibattito  ed 
esporre  argomentazioni  serie,  tratte  da  uno  studio  accu- 
rato del  problema  discusso.  Egli  poi  riassumeva  la  di- 
scussione in  fine  con  una  imparzialità,  che  poteva  sem- 
brare indifferenza  da  presidente  di  corte  d'Assise,  ed 
era  invece  dettata  dall'amore  alla  istituzione  sua.  Di 
tale  carattere  di  neutralità  del  Laboratorio  egli  ave  a 
voluto  rendere  testimonianza  palese,  facendo  dipingere 
nelle  lunette  delle  varie  sale  i  ritratti  di  Aristotile,  Vico, 
Adamo  Smith,  Marx,  Schultz  e  Delitsch,  Mons.  Ket- 
teler,  Cobden,  Hamilton,  Cavour  ecc.  ossia  di  uomini 
appartenenti  alle  più  varie  gradazioni  del  pensiero 
scientifico. 

Forse  da  alcuni  si  potrà  criticare  codesta  imparzia- 
lità verso  le  scuole  più  opposte  per  il  motivo  che  lo 
scienziato  deve  insegnare  la  verità,  che  è  una  sola,  e 
combattere  l'errore.  Il  che  è  vero  nei  libri  e  nella  cat- 
tedra, dove  chi  scrive  o  parla  ha  il  dovere  di  esporre 
e  difendere  con  convinzione  le  idee  da  lui  ritenute 
giuste.  Ma  sarebbe  stato  pericoloso  per  la  vita  di  un 
istituto  come  il  Laboratorio,  il  quale  deve  fornire  i  ma- 
teriali di  studio  a  persone,  molte  delle  quali  hanno  già, 
a  torto  od  a  ragione,  un  proprio  modo  di  vedere  che 
può  essere  diverso  da  quello  degli  altri  e  del  direttore 
medesimo.    Se    il    Cognetti    avesse    voluto    far   trionfare, 


—  20  — 

ad  esempio,  il  suo  metodo  biologico  o  sociologico  nello 
studio  della  scienza  economica,  forse  il  suo  istituto 
sarebbe  stato  disertato  da  quelli  che  in  quelle  applica- 
zioni della  biologia  e  della  sociologia  non  credevano. 
È  in  grazia  del  suo  singolare  desiderio  di  arrecare 
giovamento  a  tutti  anche  a  quelli  di  cui  non  divideva 
il  pensiero,  che,  come  egli  era  grandemente  rispettato 
dagli  avversarii  della  politica  conservatrice  da  lui  ga- 
gliardamente difesa  sulla  Gazzetta  di  Mantova,  così 
ora  lo  segue  nella  tomba  il  memore  e  riconoscente 
affetto  di  coloro  che  lo  videro,  nel  Laboratorio  di  Eco- 
nomia politica,  largo  di  sussidii  scientifici,  e  di  aiuto 
affettuoso  nei  primi  ardui  passi  delle  carriere  scienti- 
fiche e  liberali  a  tutti  i  suoi  allievi,  senza  distinzione 
alcuna  di   convinzioni  politiche  e  scientifiche. 

(Torino,    30    giugno    1901,    Estratto    dal    Giornale 
degli  Economisti,    Luglio    1901). 


BIBLIOGRAFIA  (1) 

Delle  attinenze  fra  l'economìa  sociale  e  la  storia.   (Firenze,   1865). 

La   scienza  economica   nella   educazione  civile.    (Bari,    1867). 

L'economia  pubblica  è   l'istruzione  popolare.    (Bari,    1R68V 

Gli   studi  economici   in   Italia.    (Bari,    1869). 

L'economia  sociale  e  la   famiglia.    (Milano,    i86q). 

Conferenza  sul  lavoro,  sul  risparmio  e  sulla  previdenza.  (Man- 
tova.   16  giugno    1870). 

Abramo  Lincoln.  (Mantova,   1871). 

L'operaio  ai  tempi  di  Dante  ed  ai  tempi  nostri,  discorso.  (Man- 
tova,   30  luglio   1871). 

Vi  è  una  questione  sociale?  (Mantova,   1872). 

\    fatti    della    rivoluzione   napoletana    del    1820.    (Mantova.     1872V 


(1)  La    presente    bibliografia    fu    compilata    dall'ing.    E.    Magrini, 
assistente  del   Laboratorio  di   Economia   Politica   di  Torino. 


—  21 


il  riordinamento  della  circolazione  cartacea  durante  il  corso  for- 
zoso, lettere  al  conte  G.   Arrivabene.   (Mantova,    1873). 

Una  teorica  economica  della  espropriazione  forzata,  lettera  al 
prof.    A.   Errerà.    (Mantova,   1874). 

La  circolazione  della  ricchezza  negli  Stati  Uniti.  (Torino,  1874). 
Biblioteca  dell'  Economista,  serie  IV. 

Economisti  italiani  contemporanei,  Giovanni  Arrivabene,  Gior- 
nale degli  Economisti,  luglio  e  agosto  1875  (Padova). 

Bibliografia  su  «  The  Money  Problem  »  by  Amasa  Walker  (Inter- 
national publication  Office,  New- York,  1875),  Giornale  degli  Econo-, 
misti,   luglio   1875. 

Economisti  italiani  contemporanei,  Enrico  Cernuschi,  Giornale 
degli  Economisti,  luglio  e  agosto  1876  (Padovaj. 

Gli  Stati  Uniti  d'America  nel  1876,  giornale  La  Perseveranza, 
(Milano,   1877). 

La  rinnovazione  dei  trattati  di  commercio  —  La  questione  mot 
netaria.   —  Studi.    (Mantova,    1877). 

Forme  e  leggi  delle  perturbazioni  economiche,  Giornale  degli 
Economisti.   (Padova,  marzo  1878). 

Il  nuovo   patto  dell'unione   monetaria   latina.    (Torino,    1879). 

Le   forme   primitive   nella   evoluzione    economica.    (Torino,    1881) 

Commemorazione  del  conte  G.  Arrivabene  tenuta  il  15  gennaio 
1882  all'Accademia  Virgiliana  —  Atti  e  memorie  della  R.  Accade? 
mia  Virgiliana.   (Mantova,   1882). 

Commemorazione  di   Giovanni   Lanza.    (Torino,    1882). 

Commemorazione  di  Vittorio   Emanuele   11.    (Torino,    1883). 

L'Esposizione  di   Zurigo   —    Nuova   Antologia.    (Roma,    1883). 

Cenno  storico  sull'industria  italiana,  Enciclopedia  delle  arti  e 
industrie.  (Torino,    1875). 

L'economia  come  scienza  autonoma,  Giornale  degli  Economisti, 
1886,   pag.    166.   (Torino,    1886). 

Un'apologia  socialistica  del  libero  scambio,  Rivista  scientifico^ 
letteraria  di  Milano.    (Milano,    1887). 

Il  carattere  della  scienza  economica  secondo  il  sig.  Macleod, 
Giornale  degli  Economisti,   1887,   pag.   122  (LJologna). 

I  prigionieri  di  guerra  (Captivi)  di  M.  Plauto,  traduzione  in 
versi   martelliani.    (Trani,    1881). 

II  fondamento  storico  di  una  leggenda  italica,  Memorie  della 
R.  Accademia  delle  Scienze,  serie  II,   tomo  XXXVIII.   (Torino,    1888). 

Un  socialista  cinese  del  V  secolo  av.  C.  (Mih-Teih),  Memorie 
della  R.  Accademia  dei  Lincei,  voi.   Ili,   parte   ia.   (Roma,   1888). 

La  politica  economica  italiana  a  proposito  di  una  recente  pub- 
blicazione, Nuova  Antologia.   (Roma,    16   marzo   1888). 


—  22 


L'istituto  Pitagorico,  Memòrie  della  R,  Accademia  delle  Scienze, 
tomo  XXIV.    (Torino,    1889). 

Socialismo   antico,    indagini.    (Torino,    Bocca,    1800). 

Il  militare  fanfarone  di   Plauto,  versione  metrica.  (Torino,    1890). 

Tito  Maccio  Plauto,  commedie,  versione  metrica  con  prefazione 
di  G.   Carducci,  voi.   I.  (Torino,    1891). 

Il  socialismo  negli  Stati  Uniti  d'America,  studio,  Biblioteca 
dell'Economista,  serie   III,   voi.    IX.   (Torino,    1891). 

Banche,  banchieri  ed  usurai  nelle  commedie  di  Plauto,  Giornale 
degli  Economisti,  ottobre  1881,  pag.  287-309  e  dicembre  1892,  pa- 
gina   .^39-574- 

Il  sistema  di  mercede  a  scala  mobile  nella  inchiesta  inglese  sul 
lavoro,  Atti  della  R.  Accademia  delle  Scienze.  (Torino,  dicembre  1802V 

Tracce  probabili  d'una  leggenda  Indo-Europea  nel  «  Rudens  »  di 
Plauto,  Atti  della  R.  Accademia  delle  Scienze,  voi.  XXVTTT,  11  di- 
cembre   1892. 

Le  più  recenti  indagini  statistiche  negli  scioperi,  Memorie  della 
R.  Accademia  delle  Scienze.  (Torino,  maggio  e  giugno  1893,  serie 
III,  voi.  XLIV). 

Francesco  Ferrara  all'Università  di  Torino,  Giornale  degli  Eco- 
nomisti.   (Bologna,   dicembre    18Q3,   pag.   521). 

La  Gomena,  «Rudens»,  di  Tito  Maccio  Plauto,  versione  me- 
trica.   (Torino,    1894. 

Le  variazioni  nella  vita  economica  e  nella  coltura  economica, 
introduzione  generale  alla  quarta  serie  della  Biblioteca  dell'Econo- 
mista.  (Torino,    1894). 

Una  obbligazione  bancaria  per  la  IV  Crociata,  Atti  della  R.  Ac- 
cademia delle  Scienze,  voi.  XXX.   (Torino,    1895). 

Relazione  sulla  memoria  del  dott.  Pasquale  Tannacone  «  La  re- 
centi-- inchiesta  inglese  sul  lavoro»,  Atti  della  R.  Accademia  delle 
Scienze  di  Torino,  voi.    XXX,    24  febbraio   1895. 

I  due  sistemi  della  politica  commerciale,  parte  2a,  Biblioteca 
dell'Economista,   serie   IV,   voi.   T.   (Torino,    1896). 

Commemorazione    pei    caduti    d'Africa.    (Torino,    1896). 

I  due  sistemi  della  politica  commerciale,  parte  ia  e  3a,  Biblio- 
teca dell'Economista,  serie   IV,  voi.    I,   parte  2a.   (Torino,    1895). 

Prefazione  all'opera  di  Livio  Cibrario  «  Il  sentimento  della  vita 
economica    nella    Divina    Commedia».    (Torino,    1898). 

Domenico  Berti,  Annuario  del  R.  Museo  Industriale  Italiano. 
(Torino,    1897). 

Struttura  e  vita  del  commercio,  Biblioteca  dell'Economista,  se- 
rie  IV.   volume   II,   parte  ia.    (Torino,    1898). 

La  mano  d'opera  nel  sistema  economico  (incompleto),  Biblioteca 
dell'Economista,   serie    IV,   voi.   V,   parte   2a.    (Torino,    1899). 


LA  CRISI  SCOLASTICA 
E  LA  SUPERSTIZIONE  DEGLI  ORARI  LUNGHI 

Nelle  discussioni  che  sul  problema  dell'insegna- 
mento e  dei  professori  secondarli  si  stanno  facendo  in 
giornali  e  in  congressi  non  ho  veduto  abbastanza  trat- 
tato un  punto  che  mi  sembra  capitalissimo  e  che  po- 
trebbe illuminare  assai  la  soluzione  da  darsi  al  proble- 
ma. Debbo  premettere  che,  sebbene  l'argomentazione 
possa  avere  un  certo  sapore  professionale,  sebbene  cioè 
possa  credersi  che  chi  scrive  non  si  sia  saputo  sottrarre 
alle  sue  abitudini  mentali  di  studioso  di  scienze  econo- 
miche, in  realtà  è  l'esperienza  viva  della  scuola  che 
mi  fa  credere  di  essere  nel  vero.  Ho  insegnato  per  pa- 
recchi anni  nelle  scuole  secondane;  e  ritengo  che  l'in- 
segnamento ai  giovani  di  meno  di  17-18  anni  sia  non 
meno  utile  agli  insegnanti  che  agli  studenti;  io  almeno, 
vi  ho  imparato  parecchie  cose,  che  in  seguito  mi  sono 
state   giovevoli. 

Fra  l'altro  mi  sono  convinto  che  nelle  scuole  secon- 
darie si  fa  un  abuso  enorme  di  orario.  Certamente  è 
opportuno  che  i  giovani  siano  legati  ad  una  disciplina 
oraria  maggiore  che  nelle  scuole  superiori,  non  essendo 
ancora  sufficientemente  maturo  il  loro  giudizio  ed  es- 
sendo le  loro  volontà  facili  ad  essere  sviate  dalle  male 
compagnie,  dal  piacere  dell'aria  libera  e  delle  belle 
passeggiate  nei   giorni   di   sole;   ma  da  questa   constata- 


i-\ 


zione  agli  orarli  asfissianti  delle  nostre  scuole  secondarie 
ci  corre.  Tre  ore  nei  ginnasi  e  nelle  scuole  tecniche, 
quattro  ore  nei  licei  e  negli  istituti  dovrebbero  essere  il 
massimo  dell'orario  giornaliero  per  tutt'al  più  cinque 
giorni  della  settimana;  il  giovedì  dovrebbe  essere  libero 
de!  tutto  o  al  più  occupato  al  mattino;  e  in  questo  caso 
dovrebbero  aversi  almeno  due  pomeriggi  liberi.  Una 
delle  maggiori  e  più  pestifere  superstizioni  delle  scuole 
italiane  è  la  lunghezza  dell'orario.  Più  gli  scolari  sono 
costretti  a  rimanere  nelle  aule  scolastiche  e  meno  pro- 
fittano. Chi  non  sa  che,  al  mattino,  la  terza  ora  di  inse- 
gnamento è  inservibile?  che  l'insegnante  vede  occhi 
stanchi,  gambe  e  braccia  irrequiete,  disattenzione  ge- 
nerale? Peggio  nelle  ore  pomeridiane.  Vi  sono  degli 
Istituti  tecnici  dove,  in  certe  classi,  si  va  dalle  due  alle 
cinque  e  magari  alle  sei,  attraverso  un  caleidoscopio 
di  insegnanti,  i  quali  si  succedono  dinanzi  ad  una  sco- 
laresca sempre  più  disattenta  ed  irrequieta.  La  scuola 
educativa,  sana,  fortificante  dovrebbe  tenersi  solo  al 
mattino;  tre  ore  con  qualche  intervallo  di  riposo;  nel 
qua!  caso  anche  la  terza  ora  potrebbe  essere  profitte- 
vole. Il  pomeriggio  dovrebbe  essere  dedicato  dai  gio- 
vani ai  compiti,  allo  studio  indipendente,  in  parte  agli 
esercizi   fisici   ed   alle  passeggiate. 

Dicono  i  fautori  degli  orari  lunghi  :  i  giovani,  se  non 
si  fanno  studiare  in  classe,  non  fanno  niente.  Falsissima 
asserzione  per  i  giovani  valenti  e  studiosi,  a  cui  viene 
imposta  una  tortura  inutile;  e  falsa  eziandio  per  i  me- 
diocri e  gli  infingardi,  la  cui  occupazione  nella  scuola 
non  è  di  studiare  ma  di  ingannare  il  tempo  rimanendo 
passivi  ascoltatori  di  cose  a  cui  non  si  interessano.  Se 
l'orario   lungo   riuscisse   a   far  lavorare   i   mediocri   cella 


—  25  — 

testa,  potrebbe  ancora  essere  spiegato;  ma  poiché  esso 
serve  solo  a  farli  star  tranquilli  col  corpo  ed  a  lavorare, 
forse,  materialmente,  colla  mano  intenta  a  scrivere,  la 
sua  efficacia  educativa  è  nulla. 

Aggiungono   ancora  :    con   gli   orari   brevi,    con   tre   o 
quattro  ore  al  giorno  di  lezione  come  si  possono  esau- 
rire   i    programmi?    Altra    superstizione   quella   dei    pro- 
grammi;    e   forse     più     pestifera   di    quella     degli    orari 
lunghi.    Il    a  programma  »     è    figlio    di    una    concezione 
profondamente    sbagliata    di    ciò    che    debba    essere    la 
scuola    media.    Purtroppo    è    la    concezione    dominante 
nella  massa  dei   genitori,   i   quali  si   illudono   stravagan- 
temente  in   tal   modo   di   giovare   ai   loro    figli.    Credono 
infatti   i   genitori   che  la  scuola  media  debba  insegnare 
delle    cose    praticamente     utili    ai    loro    figli,     che    dalla 
scuola  i  loro  figli  debbano  uscire  atti  ad  esercitare  una 
professione,   un'arte,   un    negozio,    un   mestiere.    Questa 
sciagurata  persuasione   dei   genitori   è   la   causa  per   cui 
1  ragazzi  non  imparano  nulla  e  per  cui  la  scuola  si  riduce 
ad  una  fabbrica  di  diplomi  senza  valore  intrinseco.   Se 
la  scuola  infatti  deve  servire  a  qualcosa  di  utile  perchè 
non  insegna  ai  giovani  tutto  lo  scibile  umano?  perchè 
oltre  alFitaliano,  alla  storia,  al  latino,   alle  matematiche, 
alla    fisica,    alla    chimica,      alla    storia    naturale     non    si 
aggiungono  due  o  tre  lingue  viventi,   il  disegno,   l'eco- 
nomia,   il   diritto,    il   far  di   conti,   la   ragioneria;   perchè 
non  si   abolisce   la   filosofia     che  non   serve   a  nulla,    il 
greco,  che  nessuno  impara?  Perchè,  sovra  tutto,  i  pro- 
grammi di  ognuna  delle  materie  non  si  stendono  a  mano 
a  mano,    in   guisa  da   abbracciare   la   massima  quantità 
di  nozioni  utili?  Se  è  utile  conoscere  i  primi  principii, 
è    anche    utile    conoscere    le    applicazioni;    anzi,    quante 


26 


più  se  ne  conoscono,  tanto  più  si  sarà  agguerriti  per  la 
lotta  per  la  vita.  Messici  su  questa  via,  dobbiamo  per- 
correrla fino  in  fondo.  Ogni  professore  diventa  il  rap- 
presentante ed  il  difensore  di  una  disciplina,  che  egli 
vorrebbe  tutta  insegnare  ai  suoi  giovani,  disciplina  di 
cui  l'utilità  è  incontestabile,  del  cui  insegnamento 
monco  si  deplorano  gli  inconvenienti  nella  pratica,  nei 
concorsi  alle  carriere.  Ognuno  opina  che  il  proprio  ora- 
rio è  insufficiente;  che  le  tre  ore  settimanali  dedicate 
ad  una  materia  non  bastano,  ma  sono  necessarie  le 
quattro,   le  cinque,   magari  le   dieci. 

Come  non  vedere  che  tutto  ciò  è  grottesco?  Che  in 
tal  modo  si  falsa  compiutamente  il  carattere  della 
scuola?  La  quale  non  deve  essere  un  luogo  dove  si 
vanno  ad  apprendere  delle  nozioni.  Per  ciò  bastano 
i  libri  per  i  giovani  valenti,  le  enciclopedie  per  i  fretto- 
losi, i  ripetitori  per  gli  infingardi.  Non  c'è  nessuna  ne- 
cessità che  lo  Stato  spenda  diecine  di  milioni  per  sti- 
pendiare migliaia  di  professori,  allo  scopo  di  ottenere 
ciò  che  meglio  si  otterrebbe  mettendo  un  fonografo  in 
ogni  classe  con  un  bidello  per  imporre  silenzio.  Ne  si 
creda  che,  con  fonografi  o  con  professori,  la  scuola 
possa  riuscire  ad  insegnare  ai  giovani  la  professione 
od  il  mestiere  a  cui  aspirano.  La  scuola  non  è  fatta  per 
ciò.  In  nessun  paese  del  mondo  e  in  nessuna  epoca  gli 
uomini  hanno  imparato  nelle  scuole  medie  il  modo  di 
far  denari,  di  esercitare  un'arte  od  una  professione.  I 
genitori  che  pretendono  ciò,  vogliono  l'assurdo.  Le 
professioni  si  imparano  esercitandole.  Non  c'è  altra 
via.  Il  compito  della  scuola  è  tutto  diverso  :  formare 
l'intelletto  ed  il  carattere  del  giovane,  in  guisa  che 
possa  orizzontarsi  in   seguito  nella  vita   ed   affrontare   e 


—  11  — 

superare  le  difficoltà  che  gli  si  pareranno  incontro.  Per 
ciò  gli  si  insegnano,  ad  esempio,  le  matematiche;  non 
perchè  sappia  risolvere  quei  problemi  matematici  che 
nella  vita  sua  di  commerciante,  banchiere,  agente  di 
cambio,  industriale,  impiegato,  ingegnere,  geometra, 
agrimensore  gli  capiterà  di  dovere  esaminare.  A  ciò 
gli  basteranno  i  prontuarii,  le  formole  fatte,  che  gli 
saranno  assai  più  comode  delle  regole  teoriche.  Tutta- 
via le  matematiche  gli  sono  utilissime  a  scuola,  perchè 
servono  a  farlo  ragionare,  perchè  costringono  la  sua 
mente  a  fare  un  certo  lavorio  di  paragone,  di  analisi, 
a  vedere  la  correlazione  tra  quantità  e  concetti  diversi. 
Così  dicasi  del  latino,  così  di  qualunque  altra  scienza, 
anche  l'economia,  che  negli  Istituti  tecnici  si  insegna. 
ìì  Satino  non  viene  insegnato  perchè  si  impari  a  parlare 
o  scrivere  una  lingua  morta;  cosa  che  sarebbe  perfet- 
tamente inutile.  Ma  si  insegna  per  abituare  l'intelletto 
a  ben  pensare,  a  costruire  logicamente  un  periodo.  È 
un  esercizio  logico  anche  l'economia.  Se  si  volessero 
insegnare  quelle  nozioni  economiche  che  i  genitori 
possono  immaginare  siano  «  utili  »  non  basterebbero 
tre  anni  e  10  ore  la  settimana;  e  sarebbe  fatica  sprecata; 
perchè  non  v'è  necessità  di  imparare  a  memoria  tutti 
gli  istituti  ed  i  fatti  economici,  bastando,  all'uopo, 
sapere  che  ci  sono  dizionari  e  trattati  e  riviste  dove 
quelle  nozioni  sono  scritte.  L'insegnante  deve  insegnare 
a  ragionare,  a  vedere  dentro  ai  fatti  economici  la  par- 
venza esterna  e  la  realtà  vera,  deve  far  vedere  come 
nove  su  dieci  dei  ragionamenti  economici  correnti  nei 
giornali,  nei  discorsi  famigliari,  nei  comizi,  nei  parla- 
menti sono  dei  sofismi,  deve  addestrare  là  mente  a 
scoprire  la  verità  tra  mezzo   ai  molti  errori.   Formare  la 


16 


mente  ed  anche  il  carattere  del  giovane;  ecco  lo  scopo 
della  scuola  media.  A  raggiungere  il  quale  non  sono  ne- 
cessarii  ne  i  lunghi  orari i,  ne  le  prediche  interminabili» 
né  i  programmi  minutissimi.  Tanto  meglio  anzi  se  il 
programma  si  limiterà  alla  semplice  indicazione  della 
materia  da  insegnare.  L'insegnante  valoroso  sarà  più 
libero  nel  dare  ai  giovani  le  nozioni  che  egli  riterrà  più 
atte  ad  interessarlo,  a  risvegliare  ed  esercitare  la  sua 
intelligenza,  a  renderla  capace  di  risolvere  problemi  e 
superare  difficoltà. 

Che  ha  da  far  tutto  ciò  con  le  questioni  proprie  dei 
professori?  Molto  più  che  non  sembri  a  primo  aspetto. 

Perchè  invero  c'è  crisi  nell'insegnamento  seconda- 
rio? Perchè  i  professori  sono  mal  pagati  e  non  se  ne 
trovano  più  abbastanza  e  solo  gli  scarti  della  gioventù 
universitaria,  si  dedicano  ad  una  professione  così  mal 
remunerata.  E  sono  mal  pagati,  perchè,  essendo  mol- 
tissimi e  crescendone  sempre  il  fabbisogno,  la  spesa 
totale  aumenta  benché  gli  stipendi  unitari  siano  bassi. 
Facendo  un  esempio  schematico,  dato  che  in  un  paese 
ci  siano  100.000  studenti  divisi  in  2500  classi,  a  40  per 
classe,  numero  eccessivo  didatticamente,  ma  che  tal- 
volta viene  superato,  due  vie  si  possono  tenere  :  o  il 
sistema  degli  orarii  lunghi,  delle  molte  materie  e  dei 
programmi  particolareggiati;  od  il  sistema  degli  orarii 
brevi,  delle  poche  discipline  e  dei  programmi  ridotti 
al  titolo  della  materia.  L'uno  può  dirsi  il  metodo  della 
forma,  l'altro  della  sostanza,  il  primo  della  esteriorità 
infeconda,  del  funzionarismo,  il  secondo  della  scuola 
viva  ed  educatrice.  Io  dico  che  il  secondo  sistema  con- 
sente assai  meglio  di  risolvere  il  problema  dei  profes- 
sovi.  Supponiamo   infatti   che  lo   Stato  non   possa  impo- 


—  29  — 

stare  in  bilancio  più  di  10  milioni  di  lire  per  la  scuola 
media,  di  cui  si  tratta.  È  possibile  spenderle  in  due 
maniere,  che  si  potrebbero  ridurre  in  cifre  come  segue  : 

Orari  lunghi  Orari  brevi 

Numero  studenti 100.000  100.000 

Studenti  per  classe 40  40 

Numero    delle   classi 2.500  2.500 

Numero    medio   delle    ore    settima- 
nali  di    lezione    per   ogni    classe  26  16 
Numero  totale  delle  ore  settimanali 

di    lezione   per    tutte   le    classi    .  65.000  40.000 
Numero    medio    delle    ore    settima- 
nali   dì     lezione    per    ogni    pro- 
fessore       20  16 

Numero   dei   professori    necessari   .  3-250  2.500 

Stipendio    medio                           L.  3-076  4.000 
Soesa    totale    per    lo    Stato     L.    10.000.000                10.000.000 

Naturalmente  questo  è  un  puro  schema  grezzo,  che 
nella  realtà  dovrebbe  adattarsi  alle  infinite  esigenze 
della  scuola;  ma  giova  a  mettere  in  chiaro  come,  con 
la  stessa  spesa,  sia  possibile  :  1)  pagare  1000  lire  circa 
di  più  di  stipendio  ali*  anno  ad  ogni  professore  e  quindi 
farli  star  più  contenti;  2)  diminuire  il  numero  delle  loro 
ore  settimanali  di  lezione  da  20  a  16;  3)  ridurre  il  fabbi- 
sogno di  professori  da  3250  a  2500,  rendendone  più 
facile  e  nello  stesso  tempo  più  rigoroso  il  reclutamento; 
4)  diminuire  da  26  a  16  le  ore  di  insegnamento  settima- 
nale per  gli  studenti. 

Sui  vantaggi  del  quale  ultimo  risultato  ho  già  detto 
abbastanza;  ma  son  vantaggi  che  crescono  a  mille  doppi 
quando  alla  diminuzione  degli  orarii  per  gli  studenti  si 
accompagni  la  diminuzione  delle  ore  di  lezione  per  i 
professori.    Questi    sono    diventati,    cogli    stipendi    bassi 


—  30  — 

e  colla  necessità  di  guadagnar  da  vivere,  delle  mac- 
chine per  vender  fiato.  Da  ventanni  a  questa  parte  le 
ore  di  fiato  messe  sul  mercato  dai  professori  secondarli 
sono  andate  spaventosamente  aumentando.  Specie 
nelle  grandi  città,  dalle  10  a  12  ore  settimanali,  che 
erano  i  massimi  di  un  tempo,  si  è  giunti,  a  furia  di  orari 
normali  prolungati  e  di  classi  aggiunte,  alle  15,  alle  20, 
alle  25  e  anche  alle  30  e  più  ore  per  settimana.  Tutto 
ciò  può  sembrare  ragionevole  solo  ai  burocrati  che 
passano  7  od  8  ore  del  giorno  all'ufficio,  seduti  ad  emar- 
ginare pratiche.  A  costoro  può  sembrare  che  i  professori 
con  le  loro  20-30  ore  di  lezione  per  settimana  e  colle 
vacanze,  lunghe  e  brevi,  siano  dei  perditempo.  Chi 
guarda  invece  alla  realtà  dei  risultati  intellettuali  e  mo- 
rali della  scuola  deve  riconoscere  che  nessuna  jattura 
può  essere  più  grande  di  questa.  La  merce  «  fiato  » 
perde  in  qualità  tutto  ciò  che  guadagna  ini  quantità.  Chi 
ha  vissuto  nella  scuola  sa  che  non  si  può  vendere  im- 
punemente fiato  per  20  ore  alla  settimana,  tanto  meno 
per  30  ore.  La  scuola,  a  volerla  fare  sul  serio,  con  in- 
tenti educativi,  logora.  Appena  si  supera  un  certo  se- 
gno, è  inevitabile  che  l'insegnante  cerchi  di  perdere  il 
tempo,  pur  di  far  passare  le  ore.  Buona  parte  dell'ora- 
rio viene  perduto  in  minuti  di  attesa  e  di  uscita,  in  ap- 
pelli, in  interrogazioni  stracche,  in  compiti  da  farsi  in 
scuola,  ecc.,  ecc.  Nasce  una  complicità  dolorosa  ma 
fatale  tra  insegnanti  e  scolari  a  far  passare  il  tempo, 
pur  di  far  l'orario  prescritto  dai  regolamenti  e  di  esau- 
rire quelle  cose  senza  senso  che  sono  i  programmi.  La 
scuola  diventa  un  locale,  dove  sta  seduto  un  uomo  in- 
caricato di  tenere  a  bada  per  tante  ore  al  giorno  i  ra- 


—  31  — 

gazzi  dai  IO  ai  18  anni  di  età  ed  un  ufficio  il  quale  ri- 
lascia alla  fine  del  corso  dei  diplomi  stampati.  Scolari 
svogliati,  genitori  irritati  di  dover  pagare  le  tasse,  in- 
segnanti malcontenti;  ecco  il  quadro  della  scuola  se- 
condaria d'oggi  in  Italia.  Non  dico  che  la  colpa  di  tutto 
ciò  siano  gli  orari  lunghi;  ma  certo  gli  orari  lunghi  sono 
l'esponente  e  nello  stesso  tempo  un'aggravante  di  tutta 
una  falsa  concezione  della  missione  della  scuola  media 

(Dal   Corriere   della  Sera,   21    aprile    1913). 


SCUOLA  EDUCATIVA 
O  SCUOLA  CALEIDOSCOPIO? 

(A  proposito  del  disegno  di  legge  Credaro) 

Chi  legge  la  relazione  che  Fon.  Credaro  ha  premesso 
'.segno  di  legge  da  lui  proposto  per  le  scuole  medie 
deve  riconoscere  che  egli  —  oltre  essere  mosso  dal  ge- 
neroso proposito  di  elevare  le  sorti  materiali  e  morali 
degli  insegnanti  —  ha  visto  nitidamente  la  ragione  fon- 
damentale dei  mali  che  affliggono  oggi  l'istruzione  se- 
condaria. A  più  riprese  sono  messi  a  contrapposto  il 
ginnasio,  la  ottima  fra  le  scuole  italiane,  come  quella 
in  cui  v'è  unità  di  indirizzo,  con  un  professore  unico  che 
accompagna  i  ragazzi  attraverso  le  prime  tre  classi,  li 
segue  nel  loro  sviluppo  intellettuale  e  morale,  e  li  con- 
segna al  professore  delle  due  ultime  classi,  il  quale  ne 
prosegue  l'opera,  in  cui  gli  scolari  sentono  di  avere 
sopra  di  se  un  educatore,  sussidiato  da  taluni  insegnanti 
di  materie  speciali  come  la  matematica,  la  storia  natu- 
rale, il  francese  e  non  una  variopinta  teoria  di  profes- 
sori di  cose  diverse,  succ edentisi  ad  intervalli  di  ore  a 
cacciare  nella  testa  degli  ascoltanti  le  nozioni  prescritte 
dai  programma  —  e  gli  altri  istituti,  dai  licei  agli  isti- 
ed  alle  scuole  tecniche,  «  vere  caserme  »,  come  ef- 
:  emente  osserva  Fon.  Credaro,  «  attraverso  le  quali 
un  *  enorme  e  confusa  massa  di  scolari  passa  ogni  anno 


—  34  — 

davanti  a  trenta,  a  quaranta,  a  cinquanta  ed  anche  più 
insegnanti,  avendo  quasi  appena  il  tempo  di  farsi  ri- 
conoscere, quasi  mai  quello  di  farsi  ricordare  e  di  ri- 
cordare; scuole,  cui  di  necessità  viene  a  mancare  lo 
strumento  più  efficace  per  una  vera  educazione  morale 
ed  intellettuale,  il  contatto,  cioè,  continuo  e  personale 
fra  maestro  ed  alunno  nell'atto  in  cui  l'anima  ed  il  pen- 
siero si  formano;  scuole  che  si  reggono  piuttosto  colla 
disciplina  esteriore  che  con  quella  derivata  da  un'azione 
educatrice  diretta  di  chi  insegna  su  chi  impara  ». 

Le  quali  ottime  osservazioni  mettono  in  chiaro  la 
differenza  profonda  fra  ciò  che  dovrebbe  essere  la  scuo- 
la educatrice,  come  è  in  parte  ancora  il  ginnasio,  e 
la  scuola-caleidoscopio,  come  sono  i  licei  e  sovratutto 
le  scuole  tecniche  e  gli  istituti  tecnici. 

Nella  scuola  vera  i  giovani  dovrebbero  essere  edu- 
cati da  un  professore  che  si  potrebbe  chiamare  «  forma- 
tivo »,  simile  a  quello  che  nel  ginnasio  è  il  professore 
unico  di  italiano,  latino,  e  storia  e  geografia,  con  cui 
dovrebbero  acquistare  dimestichezza  morale  ed  intel- 
lettuale, ed  il  quale  dovrebbe  imparare  a  conoscere  in- 
timamente ognuno  dei  suoi  scolari  accompagnandoli 
per  tutto  un  periodo  del  corso  dei  loro  studi,  ginnasio 
inferiore,  superiore,  scuola  tecnica,  istituto  tecnico  in- 
feriore, superiore.  In  queste  scuole  gli  scolari  dovreb- 
bero essere  pochi,  non  più  di  venti;  e  gli  orari  dovreb- 
bero esser  brevi,  non  più  di  12-15  ore  la  settimana  pel 
professore  «  formativo  »  della  classe;  con  l'aggiunta,  al 
più,  di  6-3  ore  per  gli  insegnamenti  particolari  che  il 
professore  «  letterario  »  non  può  impartire;  e  che  è  op- 
portuno siano  forniti  da  insegnanti  specializzati..  Natu- 
ralmente il  tipo  della  scuola  con   insegnante  unico   do- 


—  35  — 

vrebbe  essere  strettamente  attuato  nel  ginnasio  e  nella 
scuola  tecnica,  mentre  per  le  scuole  superiori  sembra 
opportuno  far  luogo  ad  una  maggiore  specializzazione 
di  insegnamenti,  a  mano  a  mano  che  il  ragazzo  si  muta 
in  giovane  e  diviene  meglio  capace  di  lavorare  da  se 
colla  mente,  che  fu  già  addestrata  nelle  scuole  infe- 
riori. 

Il  progetto  Credaro  tende  ad  attuare  questo  concetto 
della  scuola  che  il  proponente  in  passato  ha  difeso  ed 
oggi  ancora  difende  ed  esalta?  È  ragionevole  il  dubbio. 
La  scuola  resterà,  così  come  è,  un  caleidoscopio  e  v*è 
gran  pericolo  che  il  male  ognor  più  si  aggravi  per  virtù 
delle  norme  che  il  disegno  di  legge  vuole  attuare. 

Infatti  : 

—  nessun  rimedio  è  portato  alla  lunghezza  eccessiva 
degli  orari,  che  vanno  da  21  a  25  ore  settimanali  nei 
ginnasi,  da  24  a  25  nel  liceo,  da  24  1/2  a  31  per  le  scuole 
tecniche,  da  29  a  31  nella  sezione  fisico-matematica  de- 
gli istituti  tecnici,  da  31  a  33  nelle  sezioni  di  agrimen- 
sura e  di  ragioneria,  da  25  a  30  per  la  sezione  di  agro- 
nomia. Sono  orari  incredibili,  asfissianti,  che  non  par- 
rebbero veri,  se  non  ne  facessero  fede  le  tabelle  an- 
nesse ai  regolamenti.  Come  è  possibile  che  la  scuola 
dia  qualche  frutto,  quando  per  5-6  e  talvolta  7  ore  al 
giorno  gli  studenti  si  vedono  passare  dinnanzi  agli  oc- 
chi, uno  dopo  l'altro,  tre  o  quattro  o  forse  più  profes- 
sori diversi,  ognuno  dei  quali  frettolosamente  vende 
una  fetta  di  scienza,  che  non  ha  nulla  a  che  fare  con 
la  fetta  che  fu  distribuita  l'ora  precedente,  che  forse 
contraddice  a  ciò  che  fu  detto  prima?  Dannoso  nelle 
scuole  medie  superiori,  infecondo  nelle  università,  il 
metodo  di  propinare  nozioni   disparate  ad   ore   è   sopra 


36 


tutto  contrario  ad  ogni  sana  norma  educativa  per  i  ra- 
gazzi di  11-13  anni  delle  scuole  tecniche  ed  è  forse  il 
motivo  principale  per  cui  queste  scuole,  affollatissime, 
perchè  rispondenti  ad  un  vero  bisogno  della  borghesia 
minuta  e  delle  classi  operaie,  danno  frutti  di  tanto  in- 
feriori  ai   ginnasi. 

L'orario  lungo  ed  il  caleidoscopio  dei  professori  con- 
vertono la  scuola  in  una  caserma,  come  ben  dice  il  mi- 
nistro, il  cui  unico  scopo  è  quello  di  tener  fermi  per  un 
certo  numero  di  ore  al  giorno  i  ragazzi,  irrequieti,  e  di 
rilasciare  alla  fine  dell'anno  un  diploma,  il  quale  non 
giova  neppure  più  a  persuadere  il  pubblico  che  il  di- 
plomato  abbia  a  scuola  imparato  qualcosa. 

—  al  malanno  degli  orari  lunghi  obbligatori  per  gli 
scolari,  che  il  disegno  di  legge  non  toglie,  questo  ag- 
giunge il  malanno  degli  orari  lunghi  obbligatori  per  i 
professori.  È  certo  che  la  grande  maggioranza  dei  pro- 
fessori oggi  invocava  e  desiderava  gli  orari  lunghi  e, 
quando  poteva,  giungeva  alle  24  ed  anche  alle  28  ore 
settimanali  :  ed  è  certo  che  oggi  infierisce,  male  ancor 
più  deleterio,  l'uso  delle  ripetizioni,  poco  decoroso  per 
gli  insegnanti  e  la  cui  utilità  per  gli  studenti  dipende 
soltanto  dal  fatto  che,  con  scolaresche  di  40  alunni, 
l'insegnante  non  può  interessarsi  di  ognuno  dei  giovani, 
studiarne  singolarmente  la  capacità  intellettuale,  aiutare 
in  special  modo  i  volonterosi  ma  timidi  o  lenti  ad  ap- 
prendere e  stimolare  gli  infingardi.  Gli  orari  lunghi,  le 
scolaresche  numerose  ed  il  caleidoscopio  degli  inse- 
gnanti sono  le  cause  per  cui  la  più  gran  parte  degli 
scolari  trae  scarso  profitto  dalla  scuola  e  sono  le  cause 
per  cui  gli  orari  diventano  ancor  più  lunghi,  per  scolari 
ed  insegnanti,  con  le  ripetizioni  fornite  a  casa. 


—  37  — 

Il  rimedio,  oltre  quelli  già  indicati,  ed  oltre  all'au- 
mento degli  stipendi,  a  cui  il  ministro  ha  provveduto  in 
misura  che  sembra  decorosa,  dato  il  livello  medio  della 
ricchezza  italiana,  doveva  consistere  nella  proibizione 
ai  professori  di  impartire  più  di  un  massimo  di  ore  di 
lezione.  A  me  sembra  che  18  ore  di  lezione  alla  set- 
timana sia  il  massimo  che  possa  fare  un  insegnante,  il 
quale  voglia  far  scuola  sul  serio,  e  quindi  prepararsi 
alla  lezione  e  correggere  i  compiti  coscienziosamente  ed 
attendere  ai  gabinetti  di  fìsica  o  chimica;  il  quale,  sopra 
tutto,  voglia  studiare.  Se  il  legislatore  voleva  davvero 
provvedere  al  bene  della  scuola  doveva  aumentare  gli 
stipendi,  come  fece;  ma  insieme  vietare  in  modo  asso- 
luto agli  insegnanti  di  far  lezione  oltre  le  18  ore  setti- 
manali in  istituti  sì  pubblici  che  privati;  non  solo,  ma 
doveva  proibire  assolutamente  di  dare  ripetizioni  pri- 
vate a  scolari  proprii  od  altrui.  Meglio  costringere  al- 
l'ozio assoluto  l'insegnante  protervo  nel  non  voler  pren- 
dere un  libro  in  mano,  che  costringerlo  o  permettergli 
di  sfibrarsi  in  un  lavoro  di  vociferazione,  che  può  essere 
giudicato  leggero  solo  da  chi  non  ha  l'abitudine  dell'in- 
segnamento. Aggiungo  anzi*che  la  legge  avrebbe  do- 
vuto contenere  sanzioni  severe  per  quegli  insegnanti 
che  violassero  il  divieto  di  dar  lezioni  o  ripetizioni 
oltre  le  18  ore  settimanali.  Meg?'~  l'ozio,  meglio  l'e- 
sercizio di  una  professione  accessoria,  che  un  lavoro, 
il  quale  talvolta  sminuisce  nella  estimazione  degli  sco- 
lari e  delle  famiglie,  e  che,  nell'ipotesi  migliore,  pro- 
duce scadimento  nella  qualità  delle  lezioni  componenti 
l'orario  normale. 

Il  disegno  di  legge  dell'on.  Credaro  va  contro  a  que- 
sti postulati  da  lui  medesimo  ancor  oggi  propugnati   ed 


36 


alle  esigenze  della  scuola  educativa,  quando,  invece  di 
vietare  il  prolungamento  dell'orario  e  di  porre  un  ter- 
mine al  danno  delle  ripetizioni  private,  di  queste  non 
parla,  e  rende  obbligatorio  il  prolungamento  dell'orario 
in  tutti  i  casi  fino  alle  18,  21  e  24  ore  ed,  a  volontà  del 
ministero,  anche  fino  alle  24  e  25  ore.  Esiger©  un  mi- 
nimo di  lavoro  in  relazione  agli  stipendi  cresciuti,  è 
cosa  ragionevole;  ma  sembra  dannoso  rendere  obbliga- 
torio un  prolungamento,  finora  volontario,  i  cui  risul- 
tati tutti  riconoscevano  dannosi  alla  scuola.  Adesso  vi 
era  nelle  scuole  secondarie  ancor  taluno  il  quale  rinun- 
ciava alle  ore  aggiunte  pur  di  aver  tempo  libero  allo 
studio  ed  al  cosidetto  ozio  intellettuale,  fecondissima 
tra  tutte  le  maniere  di  ozio.  V'era  ancora  qualche  spi- 
rito bizzarro  che  rinunciava  alle  150  lire  all'ora  pur  di 
aver  l'orario  breve  ed  essere  in  grado  di  fare  bene  le 
12  o  le  13  ore  settimanali.  Domani  non  più:  tutti  siano 
obbligati  a  far  ciò  che  oggi  molti  purtroppo  facevano 
per  arrotondare  lo  stipendio  :  trascorrere  in  classe  24 
ore  settimanali,  col  minimo  sforzo  possibile. 

Per  arrivare  alle  24  o  28  ore  volontarie  i  professori 
delle  grandi  città  usano  oggi  insistere  per  avere  ore  ag- 
giunte nello  stesso  istituto  od  in  istituti  diversi,  dando 
così  origine  al  guaio  delle  classi  aggiunte,  a  ragione 
deplorate  dal  ministro  con  parole  vivaci,  come  quelle 
che  accrescono  i  cattivi  effetti  del  caleidoscopio,  distri- 
buendo gli  insegnamenti  a  fette,  tra  gli  insegnanti  spinti 
dal  bisognò  economico  a  completare  l'orario  massimo 
consentito  dalla  legge  con  ore  spicciole  fornite  a  due 
o  tre  classi  di  istituti  diversi.  Domani,  quello  che  oggi 
è  un  malanno  particolare  delle  grandi  città,  diverrà  una 
sciagura  obbligatoria  anche  per  i  piccoli  centri.   Il  prò- 


—  39  — 

fessore  che  nel  liceo  ha  possibilità  di  fare  solo  12  o 
13  ore  della  sua  disciplina,  dovrà  andare  a  completare 
l'orario  fino  alle  18  ore  e  potrà  essere  obbligato  a  giun- 
gere fino  alle  24  ore  con  spezzati  d'orario  nel  ginnasio 
o  nella  scuola  tecnica.  Il  professore  di  filosofia,  a  cui 
non  basteranno  le  6  ore  del  liceo,  dovrà  andar  pere- 
grinando per  ginnasi,  scuole  tecniche,  istituti  tecnici, 
insegnando  qua  4  ore  di  storia,  là  5  ore  d'italiano,  al- 
trove 8  ore  di  latino.  E  ciò  sarà  possibilissimo;  poiché 
il  disegno  di  legge  autorizza  a  sopprimere  posti  d'orga- 
nico quando  ciò  sia  utile  al  completamento  d'orario  dei 
professori  che  hanno  sovrabbondanza  d'ore.  La  bella 
unità  didattica  del  ginnasio,  tanto  e  così  giustamente 
lodata  dall' on.  Credaro,  correrà  pericolo  di  naufragare; 
poiché  il  professore  di  la  ginnasio  che  ha  16  ore  d'orario 
proprio,  potrà  essere  costretto  a  completare  le  24  as- 
sumendo metà  delle  16  ore  della  2a  classe;  e  le  8  re- 
sidue saranno  date  al  professore  di  liceo  in  cerca  di 
completamento  d'orario.  La  confusione  odierna  cre- 
scerà :  alcuni  sballottati  tra  brani  e  residui  di  profes- 
sori ad  orario  incompleto;  professori  in  corsa  perpetua 
tra  una  classe  ed  un'altra,  tra  un  istituto  ed  un  altro, 
con  tutta  la  giornata  occupata  dalle  ore  di  lezione  e 
dagli  intervalli  inutilizzabili  tra  una  lezione  e  l'altra. 

Sento  la  replica  che  alle  querimonie  sovra  elencate 
viene  spontanea  sulle  labbra  del  lettore  :  la  vostra  scuo- 
la educativa,  con  orari  brevi,  con  classi  di  20  alunni, 
con  professori  a  cui  è  fatto  divieto  di  dar  lezioni  oltre 
le  !8  ore  settimanali  ed  a  cui  sono  comminate  pene  di- 
sciplinari gravissime,  se  osano  dare  una  ripetizione  in 
casa,  sia  pure  a  scolari  altrui  od  a  scolari  di  nessuno, 
questa  scuola  ideale  è  una  scuola  cara.  Chi  ne  pagherà 
le  spese? 


—  40  — 

Se  anche  l'obbiezione  fosse  vera,  io  dico  che  sarebbe 
enore  imporre  alle  175  mila  famiglie  italiane,  i  cjj  figli 
frequentano  le  scuole  medie,  un  aumento  di  tasse  di 
circa  8  milioni  di  lire  all'anno  per  fornir  loro  una  scuola 
meno  efficace  dell'attuale.  L'unica  ragion  d'essere  del- 
l' aumento  delle  tasse  è  il  proposito  di  fornire  ai  giovani 
ed  alle  loro  famiglie  una  scuola  migliore.  E  tale  non 
è  quella  che  si  allontana  dal  tipo  della  scuola  educa- 
tiva ed  accentua  ognora  più  i  caratteri  della  scuola-ca- 
serma,  della  scuola-caleidoscopio. 

Io  nego  che  la  scuola  educativa  costi  molto  di  più 
della  scuola-caserma.  Le  classi  di  20  alunni  richiedono 
orari  assai  più  brevi  delle  classi  di  40  alunni.  Se  due 
ore  di  vociferazione  concitata  da  parte  di.  un  insegnante 
di  passaggio  non  sono  sufficienti  a  far  capire  un  teore- 
ma ad  una  folla  di  40,  basta  un'ora  di  dimostrazione 
tranquilla  per  renderlo  comprensibile  a  20  alunni,  i 
quali  da  tempo  abbiano  acquistata  dimestichezza  col 
modo  di  pensare  e  di  discorrere  dell'insegnante.  Dun- 
que la  scuola  educativa  consente  gli  orari  brevi,  e  gli 
orari  brevi,  favorendo  un  notevole  risparmio  di  inse- 
gnanti, permettono  all'erario  di  pagarli  meglio,  senza 
onere  eccessivo  dei  contribuenti.  Tutto  si  concatena 
nella  riforma  della  scuola.  Perchè  non  scegliere  il  me- 
todo di  spendere  poco  ed  utilmente  piuttostochè  quello 
di  spendere  molto  e  senza  vantaggio? 

Se  anche  calcoli  esatti  dimostrassero  che  la  scuola 
educativa  costa  di  più  della  scuola-caleidoscopio,  chi  ci 
dice  che  all'uopo  non  possano  bastare  gli  8  milioni,  i 
quali  saranno  forniti  dalle  cresciute  tasse  scolasticke? 
È  vero  che  al  disegno  di  legge  Credaro  non  è  unito 
alcun  piano  finanziario  degli  effetti  della  proposta  ri- 
forma.   Noi  non  sappiamo  quanto  frutteranno  in  più  le 


—  41  — 

nuove  tasse,  quale  sarà  il  risparmio  dell'erario  per  il 
prolungamento  d'orario  imposto  ai  professori  e  compre- 
so nello  stipendio  cresciuto  e  quale  l'onere  dello  Stato 
per  l'aumento  degli  stipendi  ai  professori.  Analisi  som- 
marie compiute  dal  prof.  Medici  nell'Unità,  e  dal  pro- 
fessore Contessa  nella  Riforma  Sociale  concluderebbero 
che  l'erario  dello  Stato  verrebbe  dalla  proposta  rifor- 
ma a  lucrare  netti  da  3  a  4  milioni  di  lire  ali* anno.  Se 
questi  calcoli  sono  esatti  —  ed  il  metodo  con  cui  furono 
condotti  e  la  serietà  degli  indagatori  me  li  fanno  rite- 
nere tali  —  ci  troviamo  di  fronte  ad  un  fatto  che  ri- 
chiede un  profondo  esame  da  parte  del  ministro  e  del 
Parlamento. 

Io  credo  esatta  la  teoria  del  Credaro  che,  in  buona 
finanza,  il  maggior  costo  delle  scuole  debba  essere  pa- 
gato con  un  aumento  di  tasse  sui  frequentatori  delle 
scuole  stesse.  È  una  distinzione  elementare  della  scien- 
za delle  finanze  quella  fra  tasse  ed  imposte;  chiaman- 
dosi tasse  quelle  che  sono  volontariamente  pagate  da 
certe  persone  (per  esempio  alunni),  per  ottenere  un  ser- 
vizio di  vantaggio  particolare  per  essi  (per  esempio 
istruzione  secondaria);  ed  imposte  quelle  che  sono  ob- 
bligatoriamente pagate  da  tutti  i  cittadini  per  provve- 
dere ai  servizi  generali  che  tornano  di  vantaggio,  in 
modo  indivisibile,  a  tutti  i  membri  della  collettività  (per 
esempio  imposte  sui  redditi  o  sui  consumi  per  provve- 
dere ai  servizi  generali  della  difesa,  giustizia,  sicurezza, 
ecc.).  Sarebbe  scorretto  che  il  miglioramento  di  un  ser- 
vizio come  quello  scolastico,  il  quale  torna  di  vantaggio 
a  determinate  persone,  non  fosse  pagato  con  le  tasse 
di  coloro  che  volontariamente  si  iscrivono  alle  scuole, 
ma  con  le  imposte  di  coloro  che  per  obbligo  di  legge 
sono  privati  di  parte  del  loro  reddito  o  vedono  crescere 


—  42  — 

il  costo  dei  loro  consumi  per  far  fronte  alle  spese  gene- 
rali ed  indivisibili  dello  Stato. 

Perciò  io  credo  corretto  l'aumento  delle  tasse  sco- 
lastiche. Ma  se  è  vero  che  l'aumento  delle  tasse  non 
va  tutto  a  favore  della  scuola,  ma  lascia  parecchi  mi- 
lioni di  utile  all'erario,  verrebbero  per  un  altro  verso 
ad  essere  violati  i  sani  principi  finanziari.  Gli  scolari 
pagherebbero  invero  tasse  esuberanti  ai  fini  della  scuo- 
la; le  quali,  col  loro  sopravanzo,  verrebbero  ad  alleg- 
gerire il  peso  dei  contribuenti  per  i  servizi  generali.  Le 
spese  della  guerra,  della  marina,  della  giustizia,  del  de- 
bito pubblico,  dei  servizi  civili  devono  essere  soppor- 
tate da  tutti  i  contribuenti;  e  non  v'è  alcuna  ragione 
per  cui  i  padri  di  famiglia,  oltre  a  contribuire,  come 
tutti  gli  altri  contribuenti,  con  le  imposte,  a  tali  spese, 
siano  chiamati  a  dare  inoltre  un  contributo  speciale  sot- 
to colore  di  tasse  scolastiche.  I  vecchi  trattatisti  usa- 
vano chiamare  «  odiosa  »  ogni  imposta  gravante  su  una 
particolare  classe  di  contribuenti  ad  esclusione  degli  al- 
tri, che  pure  traggono  beneficio  della  spesa.  Si  provve- 
da dunque  ad  allestire  un  piano  finanziario  preciso  e 
rigoroso  della  proposta  riforma  delle  scuole  medie;  e, 
se  si  constati  che  il  piano  lascia  un  margine  a  favore 
dell* erario,  lo  si  faccia  scomparire,  o  diminuendo  i  pro- 
posti aumenti  di  tasse,  ovvero,  ciò  che  sarebbe  prefe- 
ribile, avviando  la  scuola  verso  il  tipo  della  scuola  edu- 
cativa. I  padri  di  famiglia  italiani  saranno  ben  lieti  di 
pagare  le  tasse  cresciute,  quando  si  darà  loro  affida- 
mento che  la  scuola  si  avvia  ad  essere  non  più  luogo 
di  mortificazione  e  di  corsa  al  diploma  bensì  fonte  di 
letizia  e  di  sapere. 

(Dal  Corriere  della  Sera,    18  maggio  913) 


II. 


POLITICA,  IMPERO  BRITANNICO 
E  SOCIETÀ  DELLE  NAZIONI 


OSTRUZIONISMO,  CHIUSURA, 
GHIGLIOTTINA    E  CANGURO 

L  ostruzionismo  delio  scorso  giugno  ha  lasciato  uno 
strascico  di  malcontento  tra  le  file  della  maggioranza 
e  un  vago  desiderio  di  modificare  il  regolamento  della 
Camera,  onde  le  minoranze  non  possano  trarne  pro- 
fitto per  impedire  il  funzionamento  degli  istituti  parla- 
mentari. Essendo  perciò  ridivenuti  interessanti  i  metodi 
antiostruzionistici,  sarebbe  stato  strano  che  non  si  ricor- 
dassero quelli  grazie  ai  quali  non  si  sente  più  parlare 
di  resistenza  defatigatoria  dell'opposizione  nella  Camera 
dei  Comuni  inglese. 

I!  primo  di  questi  metodi,  introdotto  nel  1887,  e  co- 
nosciuto, con  modalità  varie,  anche  in  altri  paesi,  è  il 
diritto  del  gabinetto,  quale  rappresentante  della  mag- 
gioranza, di  chiedere  in  qualsiasi  momento,  col  con- 
senso, quasi  sempre  concesso,  dello  Speaker  o  presi- 
dente della  Camera,  la  chiusura  delle  discussioni  e  la 
votazione  immediata  del  disegno  o  provvedimento  in 
discussione. 

Il  secondo  metodo  fu  introdotto,  dieci  anni  fa,  dal 
signor  Balfour,  quand'era  primo  ministro.  Il  signor 
Balfour,  politico  fine,  scrittore  acuto  di  cose  econo- 
miche  e  filosofiche,  era  noto  per  il  fastidio  aperto  e 
quasi    sprezzante   con    cui    ascoltava   le   interminabili    di- 


—  46  — 

scussioni  dei  suoi  colleghi;  e  si  comprende  come  egli, 
annoiato,  facesse  votare  la  cosidetta  ghigliottina,  con  la 
quale  la  Camera  stessa  delibera  che  la  discussione  di 
un  dato  disegno  di  legge  abbia  a  durare  non  più  di  un 
dato  numero  di  giorni,  sette,  dieci,  quindici;  giunti  alla 
scadenza  del  qual  termine,  all'ora  segnata,  siano  o  no 
finiti  i  discorsi,  si  procede  senz'altro  alla  votazione  del 
disegno  di  legge.  La  ghigliottina  può  anche  essere  a  se- 
zioni (guillotìne  by  compartments),  nel  qual  caso  si  fis- 
sano preventivamente  il  giorno  e  l'ora  in  cui  deve  rite- 
nersi finita  la  discussione  e  deve  procedersi  alla  vota- 
zione di  ogni  singolo  articolo  del  disegno  di  legge. 

Finalmente  vi  è  l'istituto  del  canguro,  il  quale  dà 
diritto  allo  Speaker  della  Camera  dei  Comuni  di  saltare, 
come  fa  il  canguro,  ossia  di  escludere  dalla  discussione 
e  votazione  tutti  quegli  emendamenti  e  ordini  del  giorno 
che  egli  discrezionalmente  ritenga  futili,  defatigatorii, 
non  pertinenti  all'argomento,  o  meno  importanti  di  altri. 

Ne  bisogna  dimenticare  che,  mentre  fino  al  1902  il 
tempo  disponibile  per  le  discussioni  era  dai  regola- 
menti (standing  orders)  assegnato  per  quattro  decimi  al 
governo  e  per  sei  decimi  ai  private  members,  ossia  ai 
semplici  deputati  non  provvisti  di  alcuno  stipendio  od 
assegno  sul  bilancio  dello  Stato,  in  quell'anno  la  distri- 
buzione fu  profondamente  mutata,  assegnandosi  i  nove 
decimi  ai  placemen  (membri  appartenenti  al  gabinetto 
o  provvisti  di  una  delle  numerose  cariche  ministeriali 
esistenti  in  Inghilterra,  anche  fuori  dei  posti  di  ministro 
propriamente  detti)  e  solo  un  decimo  ai  private  membres. 

Sarebbe  erroneo  affermare  che  un  siffatto  sistema 
di  riduzione  della  capacità  di  discorrere  dei  private 
members    sia    stato    mal    visto    dall'opinione    pubblica. 


—  47  — 

Tutt'altro.  Salvo  irrilevanti  eccezioni,  i  giornali  d'ogni 
partito  si  sono  adattati  alla  chiusura  per  volontà  del 
ministro,  alla  ghigliottina  ed  al  canguro;  e  si  direbbe 
quasi  siano  felici  di  potere  risparmiare  lo  spazio, 
prima  dedicato  ai  discorsi  parlamentari,  per  dedicarlo 
al  chricket,  al  foot-ball,  all'aviazione  ed  ai  vari  altri  ge- 
neri di  sport.  Pare  che  il  pubblico  si  interessi  sempre 
meno  della  Camera  dei  Comuni  e  si  compiaccia  di  ve- 
derne ghigliottinati  i  discorsi,  anche  nei  riassunti  dei 
giornali;  talché  lo  stesso  Times,  il  quale  un  tempo  era 
gelosissimo  del  vanto  di  non  tralasciare  mai  neppure 
una  parola  dei  discorsi  parlamentari,  in  questi  ultimi 
anni  ha  dato  segno  di  voler  rallentare  alquanto  la  rigi- 
dità delle  sue  venerabili  regole  a  questo  riguardo. 

I  partiti  hanno  subito  fatto  lor  prò  dei  metodi  in- 
trodotti dal  Balfour.  Il  governo  al  potere,  che  dicesi 
liberale,  ma  che  è  sovratutto  radicale  e  labourista,  ed 
è  protetto  da  quei  nazionalisti  irlandesi,  che  si  erano 
altre  volte  resi  famosi  per  accanite  manovre  ostruzio- 
nistiche, ha  fatto  suo  prò  della  chiusura,  della  ghigliotti- 
na e  del  canguro,  e  ripetutamente  se  né  servito  per  fiac- 
care l'opposizione  dei  conservatori;  né  questi  poterono 
ribellarsi,  essendo  stati  essi  gli  inventori  dell'elegante 
congegno.  Neppure  si  può  affermare  che  delle  armi 
antiostruzionistiche  si  sia  fatto  palese  abuso,  poiché  gio- 
varono solo  a  sollecitare  l'approvazione  di  provvedi- 
menti per  cui  era  certo  il  consenso  della  maggioranza 
della  Camera.  Ora,  si  osserva  dai  difensori  della  ghi- 
gliottina e  del  canguro,  il  governo  di  gabinetto  è  governo 
di  maggioranza.  Se  la  maggioranza  non  può  tradurre  in 
leggi  la  sua  volontà,  per  l'opposizione  ostruzionistica 
della   minoranza,   non   abbiamo   più   governo   rappresen- 


—  48  — 

tativo,  governo  di  maggioranza,  bensì  l'inerzia,  l'arresto 
del  governo,  ad  opera  di  una  minoranza  faziosa.  Se 
questa  crede  cattivi  i  provvedimenti  votati  dalla  mag- 
gioranza, ne  dimostri  al  paese  i  difetti,  trasformi  l'opi- 
nione dell'elettorato,  abroghi  la  legge  cattiva.  Ma 
finché  questa  maggioranza  esiste,  essa  ha  diritto  di  at- 
tuare in  leggi  i  voleri  del  popolo,  così  come  si  sono 
manifestati    negli    ultimi    comizi    elettorali. 

Questa  è  indubbiamente  la  teoria  dominante  in  In- 
ghilterra nel  momento  presente.  Dominante;  ma  non 
pacifica.  Poiché  se  in  parlamento  rarissime  voci  si  al- 
zano a  combattere  contro  la  ghigliottina  e  il  canguro, 
se  i  giornali  vi  sono  favorevoli,  se  l'opinione  pubblica 
vede  con  piacere  lo  stroncamento  delle  chiacchiere  dei 
politicanti,  non  mancano  qua  e  là  voci  di  solitari  osser- 
vatori, i  quali  mettono  in  chiaro  i  pericoli  dei  nuovi 
metodi.  Per  ora  le  critiche  si  leggono  solo  sui  libri  e 
sulle  gravi  riviste  trimestrali,  le  caratteristiche  riviste 
inglesi  che  sembrano  libri,  dove  si  leggono  articoli  che 
non  di  rado  passano  alla  storia  e  segnano  l'inizio  di  un 
movimento  di  idee  destinato  a  fruttificare  in  avvenire. 
Sarebbe  un  errore  disdegnare  queste  critiche,  solo 
perchè  scritte  su  libri  e  su  riviste  lette  da  un  pubblico 
ristretto;  troppe  volte  essendosi  veduto  in  Inghilterra 
che  la  forza  di  penetrazione  delle  idee  esposte  ai  pochi 
che  sanno  pensare  e  riflettere  è  maggiore  di  quella  delle 
impressioni  fugaci  che  vivono  sui  quotidiani  la  vita 
effimera  di  un  giorno. 

Su  una  di  queste  riviste  trimestrali,  anzi  su  una  rivi- 
sta nuova,  di  cui  finora  furono  pubblicati  solo  due  fasci- 
coli, la  The  Candid  Quarterly  Revieu)  of  Public  Affairs, 
ossia  sulla  Sincera,  rivista  trimestrale  di  affari  pubblici, 


49 


diretta  da   un  singolare   tipo  di  pubblicista,   il  signor  T. 
G.    Bowles,    noto    come   critico    ferocissimo    del   bilancio 
e   pei    una   famosa   sentenza  con    cui    egli   riuscì    a   farsi 
restituire   dal   Tesoro   una  somma   indebitamente   pagata 
a  titolo  di  imposta  sul  reddito,  si  leggono  parecchi  arti- 
coli,   anonimi,    come    tutti   quelli    di    questa   rivista   e    di 
parecchie   altre,   fra   le  più   reputate,   d'Inghilterra,    dove 
sono  esaminati  gli   effetti  ultimi  della  ghigliottina  e  del 
canguro.   Il  giudizio  che  vi  si  dà  di  questi   avvenimenti 
sta  tutto  nella  famosa  distinzione  che  il  Bastiat  faceva, 
a  proposito   dei   problemi   economici,    tra   quello   che   si 
vede  e  quello  che  non  si  vede.  Come  gli  effetti  visibili 
e  immediati  del  protezionismo,   del  corso  forzoso,  limiti 
legali    al   tasso   dell'interesse,    ecc.    ecc.,    sono   buoni,    e 
sono   dannosi   invece   gli   effetti  invisibili   e   lontani;   così 
sono  buoni  gli  effetti  visibili  e  immediati  della  ghigliot- 
tina e   del   canguro   —  bando    alle    chiacchiere   inutili   e 
facilità  di   governo   alla  maggioranza,   —  ma  sono  dan- 
nosi gli  effetti  invisibil  e  mediati.  È  vero  infatti,  notano 
gli  scrittori  della  rivista  citata,  che  l'essenza  della  costi- 
tuzione  stia  nel   governo   della  maggioranza?    No.    L'es- 
senza vera   sta  nel  potere   della  maggioranza   della   Ca- 
mera dei  Comuni  di  deliberare  in  seguito  a  discussione. 
Le  parole  scritte  in  corsivo  sono  quelle  che   esprimono 
la  vera  virtù  intima  e  profonda  del   sistema  rappresen- 
tativo. Tutti  i  governi  vivono  con  la  maggioranza;  anche 
i    governi    più    assoluti.     Persino    le     monarchie    antiche 
persiane    e    babilonesi    dovevano    governare    secondo    le 
idee  od  i  pregiudizi  dominanti  nella  maggioranza  della 
popolazione  in  quel  momento.  La  caratteristica  del  go- 
verno rappresentativo  quale  si  formò,  non  per  creazione 
ma  per  lenta  evoluzione,  in  Inghilterra,  sta  nella  potestà 


—  50  — 

della  maggioranza  della  Camera  dei  Comuni  di  delibe- 
rare e  quindi  di  governare,  dopoché  ai  singoli  membri 
della  Camera  sia  stata  garantita,  come  diceva  trecen- 
t'anni  fa  lo  Speaker  Lenthall,  «  ampia  ed  illimitata 
libertà   di   parola,    con   libera   e   compiuta    discussione  ». 

Le  nuove  norme  restrittive  quali  effetti  tendono  ad 
avere  su  questa  libertà  di  discussione,  che  è  la  condi- 
zione prima  e  indispensabile  affinchè  la  legge  votata 
possa  essere  ritenuta  «  ferma,  stabile  e  sacra?  ».  Dieci 
anni  oramai  sono  passati  e  già  si  possono  vedere  gli 
indizi  degli  effetti  remoti  dei  provvedimenti  che  alla 
superficie  appaiono  indirizzati  soltanto  a  togjiere  la 
possibilità  di  incomportabili  sopraffazioni  della  mino- 
ranza. 

Un  effetto  grave  è  la  tendenza  a  limitare  le  discus- 
sioni, escludendone  i  private  members  e  limitando  il 
diritto  di  parlare  alle  due  front  benches.  È  noto  che 
alla  Camera  dei  Comuni  i  dibattiti  sono  capeggiati  dalle 
due  front  benches,  ossia  dagli  uomini  maggiori  che 
stanno  seduti  sui  primi  banchi  ministeriali  e  di  opposi- 
zione. Vi  è  la  Ministerìal  Front  Bench,  il  banco  del 
Ministero,  che  novera  trentasei  membri;  e  la  Opposi- 
tion  Front  Bench,  composta  di  circa  venti  membri,  la 
quale  comprende  gli  uomini  scelti  d'eli* opposizione, 
quelli  che  vorrebbero  essi  andare  al  potere,  al  posto 
della  Ministerial  o  Treasury  Bench,  che  ora  vi  si  trova. 
Questi  56  sono  i  front  benchers;  gli  altri  deputati,  i 
membri  privati  sono  i  backrbenchers,  coloro  che  stanno 
sui  banchi  di  dietro;  macchine  da  votare,  agli  ordini 
dei  whips  o  fruste  dei  due  partiti,  qualcosa  di  simile  in 
grande  a  quello  che  dicesi  sia  in  piccolo  Ton.  De  Bellis 
per  la  maggioranza  giolittiana. 


—  51  — 

È.  curiosissimo  leggere  la  descrizione  della  sorpresa 
da  cui  è  colto  il  deputato  novellino  inglese,  quando, 
pieno  di  entusiasmo  per  i  suoi  ideali,  arriva  alla  Camera 
e  si  accorge  che  gli  è  quasi  impossibile  di  parlare.  Se 
egli  vuole  esporre  le  sue  idee  in  generale,  lo  può  fare 
solo  nella  discussione  sulla  risposta  al  discorso  della 
Corona;  ma  solo  per  miracolo  vi  riuscirà,  perchè,  prima 
che  arrivi  il  suo  turno,  lo  Speaker  avrà  chiusa  la  discus- 
sione. Se  egli  vuole  svolgere  un  ordine  del  giorno  sul 
discorso  stesso  della  Corona,  potrà  farlo  se  il  suo  nome 
esce  dell'urna  dove  sono  messi  i  nomi  di  tutti  i  670 
deputati  e  da  cui  è  estratto  il  nome  del  fortunato  che 
solo  ha  diritto  di  parlare.  Se,  durante  una  discussione, 
egli  si  alza  e  domanda  la  parola,  venti  volte  si  alzerà 
e  per  venti  volte  lo  Speaker  farà  mostra  di  non  accor- 
gersi di  lui.  Se  egli  vorrà  iscriversi  a  parlare,  bisognerà 
si  raccomandi  al  whip  del  suo  partito;  e  questi,  se  egli 
appartiene  al  partito  del  governo,  gli  farà  presente 
l'inopportunità  di  far  perdere  tempo  al  governo,  quando 
già  l'opposizione  glie  ne  fa  perdere  tanto.  Se  egli  è 
d'opposizione,  il  whip  gli  farà  notare  che  il  poco  tempo 
disponibile  ai  deputati  privati  è  meglio  lasciarlo  agli 
opposìtion  front  benchers,  ai  venti  capi  cioè  dell'oppo- 
sizione, i  quali  sanno  come  meglio  mettere  a  dura 
prova  il  ministero. 

In  breve,  i  deputati  che  non  hanno  la  fortuna  di  ap- 
partenere ai  56  privilegiati  front  benchers  non  sono  nulla. 
Se  alcuno  dei  reietti  riesce  nonostante,  a  furia  di  abilità 
e  di  conoscenza  dei  regolamenti,  a  prendere  la  parola 
ed  a  far  sentire  una  nota  personale,  diversa  da  quella 
iscritta  nei  programmi  rispettivi  del  partito  al  governo 
o  dell'opposizione,  con  rabbia  del  ministro  e  con  fasti- 


52 


dio  del  presidente  (to  the  rage  oj  the  Minister  and  the 
concern  oj  Mr.  Speaker),  la  sua  sorte  è  segnata.  Il  suo 
ivhip  lo  segna  sulla  lista  nera;  alle  prossime  elezioni 
non  sarà  più  portato  dal  partito  e  rimarrà  escluso  dalla 
Camera   dei   Comuni. 

In  conclusione,  la  soppressione  della  «  intiera  ed 
illimitata  libertà  di  discussione  »,  che  lo  Speaker 
Lenthall  trecentanni  fa  proclamava  essere  la  massima 
prerogativa  della  Camera  dei  Comuni,  tende  ad  instau- 
rare una  nuova  tirannia  :  non  più  quella  dei  Tudors  o 
degli  Stuardi,  bensì  quella  dei  capi  dei  due  partiti.  E 
notisi  che,  se  le  due  Front  Benches  fossero  scelte  libe- 
ramente dai  membri  dei  due  partiti,  il  male  sarebbe  an- 
cora sopportabile.  Il  male  maggiore  si  è  che  alla  loro 
volta  i  due  grandi  banchi,  governativo  e  d'opposizione, 
sono  nominati  di  fatto  dalle  organizzazioni  dei  partiti,  di 
cui  il  chief-whip,  ossia  il  capo  dei  whips  dei  due  par- 
titi, tiene  in  mano  le  fila.  Organizzazioni  di  partito  le 
quali  in  apparenza  sono  aperte,  dove  in  apparenza  vi 
è  libertà  di  discussione  dei  programmi  che  dovranno 
essere  presentati  agli  elettori  ed  attuati  dal  partito  vin- 
citore alla  Camera;  ma  che  in  realtà,  per  molte  circo- 
stanze, fra  cui  non  ultima  l'esistenza  di  un  fondo  elet- 
torale di  guerra,  costituito  in  parte  dalla  vendita  delle 
onorificenze  e  dei  titoli  di  nobiltà,  amministrato,  senza 
controllo,  dal  chief-whip  di  ogni  partito,  sono  dominate 
da  un  caucus  o  comitato  centrale,  il  quale  formula  il 
programma,  sceglie  i  candidati,  conduce  la  campagna 
elettorale,  fa  votare  alla  Camera  gli  eletti,  così  come 
vuole  il  ministero,  a  sua  volta  in  definitiva  scelto  dal 
comitato    irresponsabile    del    partito. 

Dire  quale  di  questi  fatti  sia  la  causa  e  quale  l'effetto, 
è    impossibile.    Sarebbe    esagerato    affermare    che    i    co- 


53 


mitati  centrali  dei  partiti,  deliberanti  in  segreto  ed  irre- 
sponsabili, siano  divenuti  dominanti  grazie  alla  soppres- 
sione della  libertà  illimitata  di  discussione;  poiché  i 
comitati  esistevano  prima  che  trionfassero  la  ghigliottina 
e  il  canguro.  D'altro  canto  è  certo  che  ghigliottina  e 
canguro  hanno  reso  irresistibile  il  potere,  già  grande, 
del  ministero,  ossia  del  comitato  del  partito,  che  seppe 
conquistare  la  maggioranza,  sgominando  le  ultime 
tracce  di  quegli  spriti  indipendenti  i  quali  sono  stati 
sempre  il  lievito  della  formazione  di  nuovi  partiti  o  della 
trasformazione  dei  vecchi.  Ciò  che  si  può  dire  è  che 
g|higiiottinia,  canguro,  soppressione  djejlla  facoltà  illi- 
mitata di  discutere,  soppressione  della  Camera  dei 
Lordi,  onnipotenza  della  Camera  dei  Comuni,  ossia 
onnipotenza  della  maggioranza  di  essa,  ossia  ancora 
del  ministero  e  finalmente  del  caucus  o  comitato  cen- 
trale del  partito  al  potere,  trasferimento  delle  preroga- 
tive regie  dal  Re  al  gabinetto  e  cioè  di  nuovo  al  potere 
dominante  nel  partito  governativo,  attribuzione  del  di- 
ritto di  presentare  i  candidati  alle  onorificenze  ed  ai 
titoli  di  nobiltà  al  chief-whip  del  partito  al  potere;  sono 
tutti  fatti  strettamente  legati  tra  di  loro,  i  quali  contri- 
buiscono a  trasformare  sotto  i  nostri  occhi  il  sistema  di 
governo  di  discussione,  in  cui  la  volontà  dalla  maggio- 
ranza riesce  a  trasformarsi  in  legge  solo  quando  sia  ben 
dimostrato  che  essa  è  una  vera  volontà,  ossia  una  deli- 
berazione maturata  e  ragionata  in  guisa  da  poter  resi- 
stere alle  più  vive,  ostinate,  minute,  feroci  critiche 
delle  minoranze,  nel  tipo  del  governo  del  piccolo 
gruppo  che  è  diventato,  con  metodi  buoni  o  cattivi, 
padrone  della  maggioranza  prò  tempore.  Il  primo  è  il 
tipo  del  governo  liberale,  il  secondo  del  governo  gia- 
cobino. 


54 


Queste  le  due  grandi  correnti  di  opinioni  che  in  In- 
ghilterra si  contrastano  il  campo  rispetto  ai  meriti  e  ai 
demeriti  dei  metodi  antiostruzionistici.  L'ambiente  ita- 
liano è  diverso;  e  quindi  il  contrasto  non  può  essere 
trasportato  tale  e  quale  nel  nostro  paese.  A  citare  solo 
una  differenza,  non  esistono  da  noi  i  partiti  organizzati, 
come  esistono  in  Inghilterra;  ed  appena  appena  se 
ne  scorgono  alcune  pallide  imitazioni  nei  partiti  socia- 
lista, clericale  e  nazionalista;  mentre  il  grosso  della 
deputazione  è  tenuto  a  segno  da  capi  personali,  fra  cui 
primeggia  uno  solo,  divenuto  padrone  incontrastato  del 
parlamento.  Il  che  sembra  essere  assai  peggiore  cosa 
di  quel  grosso  malanno  che  sono  divenuti  in  Inghilterra 
e  negli  Stati  Uniti  i  partiti  organizzati. 

Ma,  pure  attraverso  a  queste  differenze  profondis- 
sime di  ambiente,  alcune  deduzioni  aventi  un  valore 
generale  si  possono  ricavare   dall'esperienza  inglese  : 

essere  assai  dubbio  che  l'essenza  del  governo 
parlamentare  stia  nel  diritto  alla  maggioranza  di  votare 
le  leggi.  Una  maggioranza  che  si  offenda  al  pensiero 
di  una  lotta  senza  quartiere,  da  combattere  contro  la 
minoranza  prima  di  giungere  ad  attuare  i  suoi  voleri, 
è   l'araldo   della  tirannia; 

l'essenza  del  governo  parlamentare  sta  nella  li- 
bertà illimitata  di  discussione;  e  quindi  l'ostruzionismo 
non  è  offesa  agli  istituti  parlamentari,  ma  la  loro  pietra 
di  paragone.  Un  parlamento,  il  quale,  per  debellare 
l'ostruzionismo,  ricorre  ai  metodi  restrittivi  tipo  inglese, 
dimostra  di  non  essere  più  il  parlamento  di  tipo  clas- 
sico, ma  una  camera  di  registrazione  della  volontà,  in 
Inghilterra  del  caucus  o  comitato  centrale  del  partito 
dominante,    in   Italia   della   volontà   del   capo   personale 


55 


del   gruppo  più  numeroso   dei   membri   della   classe   po- 
litica; 

una  maggioranza,  per  avere  il  diritto  di  chiamarsi 
tale,  nel  senso  parlamentare  della  parola,  deve  essere 
composta  di  persone  le  quali  sono  convinte  della  bontà 
della  causa  che  difendono  e  sono  pronte  a  rintuzzare 
gli  argomenti  della  minoranza  con  argomenti  propri, 
ed  a  lottare  con  la  pazienza,  la  risolutezza,  le  sedute 
di  venti  ore  al  giorno  o  le  sedute  permanenti  per  setti- 
mane e  mesi,  contro  l'ostruzionismo  della  minoranza. 
È  molto  dubbio  se  le  qualifiche  di  minoranza  e  di  mag- 
gioranza potessero  sul  serio  essere  applicate  a  quelle 
che  così  da  sé  si  chiamarono  in  Italia  durante  l'ultima 
campagna  ostruzionistica.  Poiché  da  un  lato  si  aveva 
una  cosidetta  minoranza,  la  quale  non  aveva  nessun 
piano  proprio  meditato  ed  organico  di  riforme  finan- 
ziarie da  sostituire  a  quello  proposto  dal  governo;  e 
sapeva  solo  invocare  la  grande  riforma,  che  da  Cen- 
t'anni si  proclama  e  che  non  si  sa  in  che  cosa  consista. 
Dall'altro  si  aveva  una  maggioranza,  la  quale,  invece 
di  difendere  come  utili  e  buoni  i  provvedimenti  da  essa 
medesima  propugnati,  li  disprezzava  come  espedienti 
temporanei  e  invocava  e  prometteva  quella  medesima 
grande    riforma   che    era   desiderata    dalla   minoranza. 

Assistendo  alla  quale  eroicomica  pugna,  si  rimane 
facilmente  persuasi  che  male  a  proposito  si  usarono 
i  nomi  vistosi  di  minoranza  e  di  maggioranza.  Non  erano 
una  minoranza  i  socialisti,  perchè  costituiscono  mino- 
ranze solo  coloro  che  hanno  idee  capaci  di  conquistare 
il  consenso  dei  più;  ne  erano  una  maggioranza  gli  altri, 
perchè  spregiavano  le  proprie  idee  e  dichiaravano  belle 
quelle    degli    avversari.    Il    qual    consenso    mirabile   può 


56 


dimostrare  una  verità  :  che  la  grande  ri/orma  tributaria 
forse  è  voluta  da  tutti  gli  uomini  politici,  perchè  tutti 
sono  persuasi  che  essa  in  pratica  funzionerà  in  guisa 
da  lasciare  sussistere  gli  scandali  odierni,  per  cui  le 
classi  professioniste,  curiali,  discorritrici,  scribacchia- 
trici,  tra  cui  massimamente  si  recluta  la  classe  politica 
italiana,  non  contribuiscono  nulla  o  pochissimo  al  ca- 
rico comune  delle  imposte;  e  sono  fermamente  avverse 
alla  prima  e  più  urgente,  alla  sola  vera  e  grande  riforma 
tributaria,  che  è  la  revisione  e  l'accertamento  dei  red- 
diti soggetti   a  imposta. 

Laonde  si  conclude  che  l'ostruzionismo  non  può  mai 
offendere  la  dignità  del  parlamento;  poiché  o  esso  è 
fatto  sul  serio  e  allora  è  una  sublimazione  del  potere 
illimitato  di  discutere,  in  che  consiste  l'essenza  delle 
istituzioni  rappresentative,  ed  è  la  prova  del  fuoco  del 
valore  intimo  della  maggioranza  e  della  minoranza; 
ovvero  è  una  cosa  buffa,  come  fu  in  Italia,  e  la  dignità 
del  parlamento  era  già  morta  prima,  per  la  poca  fede 
della  cosidetta  maggioranza  nelle  proprie  idee  e  per  il 
difetto  di  idee  diverse  nella  minoranza  di  energumeni, 
per  cui  l'ostruzionismo   era   divenuto   fine   a  se    stesso. 

(Dalla  Minerva,    1    agosto    1914). 


IL  VALORE  ITALIANO 
DEL  TRATTATO  DI  LOSANNA 

Nei  commenti  che  si  lessero  sui  giornali  italiani 
intorno  ai  varii  documenti  che  insieme  costituiscono  il 
trattato  di  Losanna,  due  opposte  tendenze  sono  mani- 
feste :  luna  delle  quali  vuole  ingigantire  quelle  che 
sono  dette  «  concessioni  »  fatte  all'impero  ottomano. 
ed  all'uopo  cerca  di  dimostrare  che  l'Italia  ha  rinun- 
ciato in  parte  alla  sua  affermazione  di  sovranità  piena 
ed  intiera  ed  ha  suscitato  un  vespaio  di  attriti  futuri 
fra  il  governo  italiano  ed  i  rappresentanti  del  sultano 
e  della  legge  sacra  dello  Sceriat;  mentre  l'altra  accurata- 
mente espone  i  motivi  per  i  quali  le  concessioni  fatte 
sono  di  pura  forma  e  non  intaccano  per  nulla  la  nostra 
sovranità;  e  già  alcuni,  appartenenti  alle  ali  estreme 
di  questa  tendenza,  si  industriano  ad  indicare  le  ma- 
niere con  le  quali  le  concessioni  formali  potranno  via 
via  essere  attenuate,  sino  a  ridursi  a  puri  nomi  senza 
sostanza  alcuna. 

Io  vorrei  esporre  alcune  considerazioni  inspirate  ad 
una  visione  dei  fatti  diversa  sia  dell'una  che  dell'altra 
tendenza.  Le  quali  hanno  la  loro  ragion  d'essere  pole- 
mica, rispetto  alla  politica  del  momento  attuale.  Mentre 
sembra  a  me  che  la  sola  domanda  importante  che  do- 
vrebbe fare  a  sé  stesso  ognuno  il  quale  sopratutto  si  curi 


—  58  — 

dell'  avvenire  del  paese  è  questa  :  il  trattato  di  Losanna 
_riova  all'Italia,  e  non  all'Italia  di  ieri  che  non  aveva 
colonie  o  stava  disputandole  alle  armi  del  nemico,  ma 
all'Italia  di  domani,  che  dovrà  rassodare  il  suo  dominio 
rispetto  alle  popolazioni  arabe  e  dovrà  attuare  il  pro- 
gramma, senza  di  cui  la  conquista  sarebbe  stata  incon- 
cepibile, di  crescere  la  civiltà  e  la  prosperità  di  quei 
paesi? 

Questa  sembra  a  me  la  vera  posizione  del  problema  : 
che  il  litigare  intorno  alla  portata,  più  o  meno  larga, 
delle  singole  clausole  del  trattato  rispetto  alle  aspira- 
zioni che  erano  state  manifestate  in  Italia  ed  alle  oppo- 
ste resistenze  ottomane  è  un  rivangare  sul  passato,  il 
quale  non  ritorna  più;  mentre  soltanto  importa  dal  pas- 
sato  trarre    ammaestramenti   per   l'avvenire. 

Se  ciò  è  vero,  sembra  a  me  che  il  trattato  di  Lo- 
sanna sia  un  atto  da  cui  l'Italia  potrà  trarre  grandis- 
simo beneficio,  ove  si  sappiano  utilizzare  tutti  i  germi 
fecondi  di  bene  che  i  nostri  negoziatori  seppero  inclu- 
dervi. Ma  per  dimostrare  ciò  è  d'uopo  fare  alcune  essen- 
ziali premesse. 

La  prima  si  è  questa  :  che  l'esperienza  storica  ha 
dimostrato  quei  soli  paesi  essere  riusciti  a  conservare 
per  lungo  tempo  le  colonie,  i  quali  seppero  renderne 
contenti  gli  abitanti,  facendo  omaggio  ai  loro  costumi, 
religiosi  e  politici,  riconoscendo  loro  la  massima  libertà 
compatibile  con  la  sovranità  della  madre  patria,  facendo 
il  massimo  assegnamento  sulla  loro  collaborazione  am- 
ministrativa ed  anche  politica.  Tuttociò  e  così  noto  che 
è  inutile  dimostrarlo.  I  paesi  che  vogliono  perdere  le 
colonie,  ne  considerano  come  sudditi  gli  abitanti;  men- 


59 


tre  quelli  che  le  conservano,  più  o  meno  presto,  li  chia- 
mano a  collaborare  nell' esercizio  della  sovranità  locale. 
L'India  moderna,  dove  tuttodì  si  creano  nuovi  consigli 
legislativi  indigeni,  ed  ai  vecchi  si  crescono  i  poteri,  è 
l'esempio  più  attuale  di  questa  necessità  assoluta  di 
governo. 

Una  seconda  premessa,  anch'essa  di  fatto,  è  che 
nella  Tripolitania  e  Cirenaica  l'elemento  indigeno,  e 
per  indigeno  intendo  arabi  e  berberi,  conserverà  la 
maggioranza  numerica  per  lunghi  anni  ancora.  La  spe- 
ranza che  gli  emigranti  italiani  si  dirigano  in  folla 
verso  le  due  contrade  libiche,  per  ora  non  si  sa  quando 
potrà  essere  attuata.  L'esperienza  storica  dimostra  che 
le  colonizzazioni  sono  sempre  lentissime  sugli  inizi  e 
soltanto  dopo  aver  raggiunto  cifre  di  milioni,  il  moto 
diventa  più  rapido.  Ora  gli  inizi  nelle  colonie  non  si 
numerano  ne  ad  anni  ne  a  poche  diecine  di  anni.  Anche 
lasciando  impregiudicata  la  questione,  su  cui  sono  cosi 
discordi  i  pareri,  sulle  attitudini  produttive  agricole 
della  nuova  colonia,  ed  anzi  supponendola  risoluta  nel 
senso  più  favorevole,  gli  inizii  coloniali,  durante  i  quali 
i  coloni  italiani  saranno  una  minoranza  esigua  della 
popolazione  totale,  non  potranno  durare  meno  di  mezzo 
secolo.  Se  poi  i  coloni  italiani  diverranno  numerosi,  il 
fatto  non  potrà  accadere  se  non  perchè  l'Italia  avrà 
fatto  regnare  l'ordine,  la  sicurezza  della  proprietà  e 
delle  persone,  avrà  reso  facili  le  comunicazioni  terrestri 
e  marittime.  Ma  di  un  ambiente  siffatto  si  gioveranno 
altresì  gli  indigeni;  ed  uno  dei  frutti  più  sicuri  della 
nostra  opera  sarà  il  moltiplicarsi  del  numero  di  essi.  La 
pace  inglese  ha  fatto  pullulare  a  diecine  di  milioni  gli 
indiani;    e   gli   arabi   algerini   e  tunisini   crescono  rapida- 


—  60  — 

mente  di  numero  grazie  al  dominio  francese.  E  poiché 
gii  indigeni  della  Libia  sono  già  ora  più  di  un  milione, 
è  probabile  che  conserveranno  per  lunghissimo  tempo 
una  notevole  preponderanza  su  tutti  gli  altri  elementi 
della  popolazione.  Dato  ciò,  appare  manifesto  quanto 
grande  sia  l'interesse  dell'Italia  a  trovare  formule  adatte 
di  collaborazione  amministrativa  e  politica  con  un  po- 
polo, il  quale  l'esperienza  storica  insegna  non  potere 
rimanere   puramente   soggetto. 

Una  terza  premessa  necessaria  è  questa  :  essere 
sommamente  pericoloso  per  la  prosperità  della  colonia 
e  la  saldezza  dei  suoi  vincoli  colla  madre  patria  ammet- 
tere una  qualsiasi  rappresentanza  politica  delle  colonie 
a  prò  dei  soli  coloni  provenienti  dalla,  madre  patria  o 
ad  essi  assimilati  nel  parlamento  metropolitano.  L'espe- 
rienza dell'Algeria  insegni.  Insediata  la  Francia  sovrana 
nell'Algeria,  distrutta  ogni  organizzazione  politica  degli 
indigeni,  si  commise  l'errore  enorme  di  attribuire  ai 
coloni  francesi  l'elettorato  al  Parlamento  di  Parigi. 
Prima  ai  coloni  francesi,  poi  ad  alcuni  ceti  ristretti  di 
indigeni  a  cui.  si  diede  la  cittadinanza,  come  gli  israe- 
liti, riconosciuti  cittadini  francesi  in  blocco  per  un  de- 
creto del  mnistro  Crémieux,  ed  uno  scarso  numero  di 
notabili  arabi,  militari  ritirati,  ecc.  L'errore  fu  funesto, 
perchè  divise  la  popolazione  in  due  categorie  :  la  mag- 
gioranza araba,  priva  di  diritti  politici,  e  la  minoranza 
di  francesi  ed  assimilati,  che  soli  avevano  influenza 
politica.  Onde  i  ministri  di  Parigi  furono  portati  ad 
ascoltare  le  voci  dei  cittadini  francesi,  dei  cui  deputati 
temevano  il  voto  contrario;  e  questi  deputati,  di  solito 
di  poca  levatura,  divennero  i  tiranni  della  colonia,  si 
preoccuparono  esclusivamente  degli  interessi  dei  coloni 


—  61  — 

francesi,  degli  israeliti  ed  altri  assimilati,  fomentarono 
una  legislazione  di  classe,  che  fece  divampare  l'odio 
tra  gli  arabi  oppressi  e  ritardò  di  decenni  il  progresso 
civile  ed  economico  dell'Algeria.  Adesso  la  Francia  sta 
riparando  faticosamente  agli  errori  commessi  nel  pas- 
sato; ha  creato  e  rafforza  nell'Algeria  le  rappresentanze 
di  elementi  locali;  ammaestrata  dall'esperienza,  pre- 
serva con  gran  cura  nella  Tunisia  gli  istituti  politici  ed 
amministrativi  indigeni,  cercando  di  far  sì  che  le  auto- 
rità arabe,  dal  bey  all'ultimo  caid,  esercitino  un  ufficio 
parallelo    e    congiunto    a    quello    delle    autorità    francesi. 

Onde  l'utilità  di  un  governo  misto,  palesatosi  lo  stru- 
mento più  efficace,  per  ottenere  la  collaborazione  degli 
elementi  indigeni  ed  europei,  allo  scopo  di  conservare 
la  colonia  alla  madre  patria  e  di  farla  nel  tempo  stesso 
progredire. 

Date  queste  premesse,  in  cui,  come  si  vide,  non 
entra  menomamente  in  gioco  l'interesse  dell'impero 
ottomano,  sibbene  esclusivamente  l'interesse  dell'Italia, 
o  meglio  dell* Italia  nuova,  la  quale  si  è  assunta  una 
grandiosa  missione  coloniale,  chiaro  appare  che  la  solu- 
zione ideata  dai  nostri  negoziatori,  sotto  colore  di  con- 
cedere qualche  soddisfazione  formale  alla  Turchia,  in 
realtà  è  quella  che  meglio  giova  agli  interessi  della  co- 
lonia e  quindi  della  madre  patria. 

Il  problema  era  più  complesso  di  quello  risoluto 
dalla  Francia  a  Tunisi.  Nella  Tripolitania  e  nella  Cire- 
naica invero  non  esisteva  disgraziatamente  alcuna  di- 
nastia locale  che  potesse  servire  nelle  mani  del  governo 
metropolitano  a  tenere  devoti  gli  arabi.  Una  dinastia 
nuova  non  si  improvvisa;  ne  i  discendenti  attuali  dei 
Caramanli  di  Tripoli,  i  quali  del  resto  non  avevano  do- 


—  62  — 

minato  nella  Cirenaica,  nel  Fezzan  e  nella  regione  sir- 
tica,  parevano  adatti  all'uopo.  La  permanenza  della 
sovranità  ottomana,  con  un  protettorato  italiano, 
avrebbe  sul  serio  menomato  la  sovranità  italiana  e  sa- 
rebbe  stata   cagione   probabilmente   di    attriti   non    lievi. 

La  soluzione  attuata  col  firmano  del  Sultano  e  col 
decreto  del  Re  d'Italia  appare  in  verità  pienamente  ri- 
spondente agli  scopi  che  noi  dobbiamo  raggiungere 
nella  nostra  azione  coloniale.  Poiché  la  sovranità  ita- 
liana, il  Naib-ul-Sultan,  il  Cadì,  le  prescrizioni  dello 
Sceriat,  la  commissione  mista  italo-araba  per  preparare 
ordinamenti  locali  inspirati  al  rispetto  degli  antichi  co- 
stumi, l'affermazione  implicita  della  necessità  di  un 
bilancio  locale,  la  continuazione  degli  impegni  finan- 
ziari dipendenti  dal  debito  pubblico  *  ottomano,  sono 
tutti  elementi  di  governo  i  quali,  se  sviluppati  secondo 
la  loro  logica  intima,  possono  essere  utilissimi  agli  in- 
teressi della  collettività  che  dovrà  a  poco  a  poco  sorgere 
nella  nuova  colonia.  Altra  è  la  parola  scritta,  ed  altro 
è  lo  sviluppo  che  possono  gli  istituti  politici  prendere 
col  tempo. 

Ed  invero,  ciò  che  massimamente  importava  era  che 
le  popolazioni  indigene  —  che  sono  oggi  e  saranno  per 
lunghissimo  tempo,  per  le  considerazioni  sovra  svolte, 
la  grande  maggioranza  degli  abitanti  della  colonia  — 
avessero  contemporaneamente  due  sensazioni  ben  vive; 
di  cui  l'una  è  quella  della  sovranità  italiana,  e  l'altra  di 
non  essere  abbandonate  in  balìa  di  un  dominatore,  che 
esse  apprezzeranno  senza  dubbio  col  tempo,  ma  che 
per  ora  non  conoscono  abbastanza.  Esse  dovevano  ve- 
dere la  sovranità  italiana  inquadrata  nella  cerchia  delle 
istituzioni  sacre  e  rappresentative  che  a  loro  erano  dive- 


—  63  — 

nute  abituali  e  che  male  avrebbero  potuto  essere  d'un 
tratto  abbattute.  Se  la  guerra  avviene  tra  due  Stati  civili 
europei,  ed  una  parte  del  territorio  viene  smembrata 
da  uno  Stato  a  profitto  dell'altro,  nessuna  difficoltà  si 
oppone  al  vincitore  che  voglia  estendere  i  proprii  ordi- 
namenti al  territorio  annesso.  Si  cambia,  occorrendo,  il 
nome  ai  sindaci  ed  ai  prefetti,  si  mandano  in  una  nuova 
capitale  i  deputati;  e  formalmente  l'annessione  è  com- 
piuta. Invece  in  paesi,  come  quelli  africani,  dove  non 
esiste  l'organizzazione  burocratica  civile  europea,  dove 
non  esiste  od  è  una  parvenza  la  rappresentanza  parla- 
mentare, il  passaggio  è  estremamente  più  difficile. 
Qualche  cosa  di  simile  avveniva  in  Europa  nei  secoli 
scorsi;  e  chi  non  ricorda  quale  tenacissima  vita  avessero 
nelle  provincie  di  nuovo  acquisto  gli  istituti  politici  ere- 
ditati dai  dominii  precedenti?  Per  citare  soltanto  ciò  che 
accadeva  da  noi,  basti  ricordare  che  la  sovranità  del 
Re  di  Sardegna  si  estendeva,  al  1792,  su  numerosi  ter- 
ritori :  la  Savoia,  il  Piemonte  antico,  il  Ducato  di  Aosta, 
Nizza,  Oneglia,  il  Monferrato  antico  ed  il  Monferrato 
nuovo,  le  Provincie  conquistate  sullo  Stato  di  Milano, 
tra  cui  la  Valle  Sesia  si  distingueva  dal  Novarese,  dal- 
l'Oltrepo-pavese,  dal  Vigevanasco,  ecc.T  ecc.,  la  Sarde- 
gna. Su  tutte  queste  regioni  si  estendeva  indiscussa  la 
sovranità  sabauda;  ma  in  ognuna  assumeva  aspetti  di- 
versi, rispettosa  sempre  degli  ordinamenti  locali;  qua 
assoluta,  là  limitata  da  parlamenti  locali;  in  qualche 
regione  con  fervida  vita  municipale,  altrove  con  predo- 
minio della  provincia.  E  queste  diversità  derivavano 
tutte  da  un  ossequio,  garantito  da  trattati,  ad  istituti 
che  erano  sorti  durante  la  sovranità  antica  ed  erano 
stati   per   trattato    mantenuti,    a   garanzia   delle    popola- 


—  64  — 

zioni,    anche     dopo    la     instaurazione     della     sovranità 
nuova. 

Ecco  quale  sembra  a  me  il  significato  profondo  degli 
istituti  politico-religiosi,  consacrati  nei  documenti  del 
trattato  di  Losanna.  Il  firmano  ottomano  storicamente 
può  essere  considerato  come  una  affermazione  fatta 
dal  sultano  che  i  governi  sono  creati  per  il  bene  dei 
popoli  e  non  i  popoli  a  beneficio  dei  governi;  esso 
afferma  che  ciò  che  tiene  insieme  le  popolazioni  delle 
due  Provincie,  ciò  che  ne  fa  un  popolo  non  è  l'autorità 
sua,  la  quale  egli  confessa  impotente;  ma  è  l'esistenza 
di  un  comune  affetto  degli  indigeni  per  «  il  loro  paese  »; 
la  perpetuazione  delle  leggi  sacre  dello  Sceriat,  le  quali 
costituiscono  il  fondamento  della  vita  civile  e  famiglia- 
re, la  esistenza  loro  autonoma,  organizzata  secondo 
leggi  a  cui  essi  devono  essere  chiamati  a  collaborare, 
che  devono  essere  applicate  mediante  un  ordinamento 
amministrativo  imperniato  su  un  bilancio  «  locale  ». 
In  sostanza  il  Sultano,  spogliandosi  della  propria  sovra- 
nità ha  desiderato  si  sapesse  che  egli  non  abbandonava 
i  suoi  antichi  sudditi  alla  balìa  di  un  conquistatore,  libero 
di  imporre  istituzioni  estranee  ai  costumi  ed  all'indole 
delle  popolazioni  conquistate.  E  l'Italia,  facendo  pro- 
prie queste  esigenze  della  conquista,  non  ha  compiuto 
cosa  che  non  fosse  sopratutto  ad  essa  sommamente 
benefica.  Perchè,  essendo  nell'interesse  dell'Italia  che 
gli  arabi  diventino  suoi  collaboratori,  è  puranco  nel  suo 
interesse  che  essi  sappiano  di  poter  vivere  secondo  gli 
ordinamenti  religiosi,  che  regolano  i  loro  rapporti  fami- 
gliari, testamentari,  ecc.,  ecc.  Ed  a  ciò  provvede  la 
gerarchia  del  Cadì  e  dei  suoi  naib  subordinati;  la  quale 
gerarchia    non    poteva    non    essere    legittima,    nel    solo 


modo  in  cui  dinanzi  agli  occhi  dei  musulmani  è  legit- 
tima una  autorità  religiosa,  ossia  mercè  la  nomina  da 
parte   dello  sceicco   dell'Islam. 

A  questa  organizzazione  spirituale  si  aggiunge  la 
organizzazione  finanziaria.  Dopo  aver  pregato  Dio,  gli 
arabi  dovranno  pur  pagare  il  suo  rappresentante  in  terra 
perchè  egli  mantenga  lordine  e  la  sicurezza  e  la  giu- 
stizia. Ma  pagare  un  tributo  destinato  ad  un  bilancio 
non  proprio  del  paese  o  destinato  al  paese  per  pura 
condiscendenza  del  dominatore  sarebbe  stato  avvilente 
per  i  nuovi  sudditi  e  pernicioso  per  la  madre  patria. 
Prova  ne  sia  la  Francia,  la  quale,  dopo  aver  fuso  il 
bilancio  dell'Algeria  col  suo,  si  avvide  di  avere  grave- 
mente errato  e  ricostruì  il  bilancio  proprio  della  colonia, 
a  determinare  il  quale  concorrono  gli  indigeni.  Mercè 
il  trattato  di  Losanna,  l'Italia  sapientemente  avverte  che 
essa  si  terrà  lontana  dagli  errori  che  ad  altri  paesi  costa- 
rono e  costeranno  la  perdita  di  grandi  colonie.  Essa 
avverte  gl'indigeni  che  essi  avranno  un  bilancio  locale, 
a  cui  favore  andranno  le  imposte  che  essi  pagheranno. 
Li  avverte  che  le  entrate  locali  saranno  destinate  esclu- 
sivamente a  favore  della  colonia,  e  che  la  madre  pa- 
tria farà  dei  sacrifici  a  prò  della  colonia  senza  richie- 
derne direttamente  vantaggi  pecuniari  pel  proprio  bilan- 
cio. E,  come  primo  affidamento,  fa  gravare  sulle  en- 
trate locali  le  spese  necessarie  per  il  funzionamento  del- 
la gerarchia  religiosa  ed  anche  per  l'assegno  del  «  rap- 
presentante del  Sultano  ». 

Con  quest'ultima  disposizione,  forse  la  più  interes- 
sante di  tutte,  si  pongono  le  fondamenta  di  quella  gra- 
duale evoluzione  che  col  tempo  trasformerà  il  rappre- 
sentante del  Sultano  (per  le  funzioni   consolari  dell'Ini- 


—  66  — 

pero  ottomano  si  potrà  trovargli  un  sostituto,  un  se- 
gretario) in  quel  personaggio  indigeno,  scelto  da  noi 
con  accortezza,  di  cui  ogni  grande  potenza  coloniale  ha 
urgente  bisogno  per  esercitare  praticamente  di  fatto  la 
sovranità  sugli  indigeni.  La  nomina  potrà  col  tempo 
assumere  il  carattere  di  una  investitura  formale,  simile 
a  quelle  che  avevano  reso  nei  secoli  scorsi  leggendario 
e  misterioso  il  Sacro  Romano  Impero,  morto  legalmente 
soltanto  nel  1806  dopo  una  vita  durata  per  secoli  nelle 
pergamene  della  Corte  di  Vienna;  di  fatto  il  rappre- 
sentante del  Sultano  potrà  trasformarsi  in  un  rappresen- 
tante degli  interessi  indigeni  presso  l'autorità  italiana. 
Scegliere  i  rappresentanti  degli  indigeni  colle  forme 
elettorali  in  uso  nei  paesi  europei  sarebbe  una  farsa 
leggermente  comica;  mentre  la  genialità  nostra  negli 
espedienti  saprà  adattare  certamente  le  forme  vecchie 
agli  istituti  nuovi,  in  guisa  da  avere  una  rappresentanza 
dell'indigenato,  che  non  si  senta  serva  perchè  nominata 
in  virtù  di  leggi  proprie  e  di  costumi  aventi  una  san- 
zione quasi  sacra  da  parte  del  Califfo  dei  credenti,  e 
nel  tempo  stesso  volonterosa  collaboratrice  della  sovra- 
nità italiana,  alla  cui  opera  il  bilancio  locale  avrà  do- 
vuto la  sua  floridezza,  ed  i  loro  stipendi  la  sicurezza  che 
forse  non  avevano  sotto  l'antico  regime.  Trovare  la  via 
per  cui  i  naib,  i  cadì,  i  membri  della  commissione  mi- 
sta italo-indigena  siano  chiamati  a  collaborare  insieme 
per  la  prosperità  della  colonia  è  certo  impresa  singolar- 
mente diffìcile;  la  quale  però  viene,  a  parer  mio,  facili- 
tata dal  fatto  che  tutte  queste  istituzioni  appariranno 
agli  indigeni  un  diritto  consacrato  nell'atto  della  trasmis- 
sione della  sovranità. 


67 


li  trattato  di  Losanna  crea  uno  stato  giuridico  delle 
popolazioni  arabe;  stato  giuridico  corrispondente  alla 
loro  mentalità,  e  quindi  utile  strumento  di  governo  per 
il  sovrano. 

Il  rispetto  ai  diritti  delle  fondazioni  pie,  mentre  as- 
sicura gli  indigeni  che  essi  potranno  trovare  sempre 
quell'aiuto  che  dalle  fondazioni  essi  si  ripromettevano, 
simile  a  quello  che  i  poveri  ottenevano  nel  medio  evo 
dai  conventi  ed  oggi  presso  di  noi  dalle  istituzioni  di 
beneficenza,  non  nuocerà  menomamente  alla  coloniz- 
zazione italiana,  ove  questa  sia  possibile  e  nei  limiti 
in  cui  lo  sarà. 

La  permanenza,  garantita  per  trattato,  di  quegli  al- 
tri beni  vakufs  che  sono  destinati  non  direttamente  a 
sollievo  dei  poveri,  ma  al  mantenimento  di  moschee, 
scuole,  ospedali,  biblioteche,  alberghi,  cimiteri,  ecc., 
è  utile  all'Italia,  in  quanto  la  popolazione  indigena  vie- 
ne per  tal  modo  assicurata  di  conservare  quegli  istituti 
autonomi,  viventi  di  vita  propria,  che  sono  stati  consti  - 
tuiti  dalla  pietà  delle  generazioni  passate  e  che  in  Ita- 
lia con  ogni  sforzo  cerchiamo  di  crescere  e  far  prospe- 
rare. 

Quanto  alla  colonizzazione  dei  beni  vakufs  da  parte 
di  nostri  coloni,  dato  sempre  che  essa  sia  conveniente, 
il  diritto  musulmano  conosce  infiniti  artifizi,  con  cui 
permanendo  la  proprietà  e  la  rendita  attuale  dei  beni 
vakufs  nelle  fondazioni  pie,  il  dominio  utile  può  essere 
trasferito  ad  altri.  Oserei  dire  che,  quando  li  conosce- 
remo, verrà  voglia  a  noi  di  applicare  quegli  artifizi  in 
Italia. 

Con  la  tesi  ora  sostenuta,  sembrami  sentir  dire,  quaj 
si  si   afferma  che  il   governo  della  Tripolitania  e  della 


—  68  — 

Cirenaica  dovrà  essere  in  mano  degli  indigeni,  ad  esclu- 
sione delle  altre  razze  e  dei  coloni  italiani.  No.  La  tesi 
non  giunge  a  queste  conseguenze.  Afferma  soltanto  che 
sul  territorio  della  colonia  le  popolazioni  arabe  hanno 
un  proprio  stato  giuridico,  obbediscono  a  leggi  fonda- 
mentali religiose  e  famigliari  che  l'Italia  ha  ricevuto  e 
rispetterà;  hanno  diritto  a  non  essere  tassate  a  prò  di 
altri  popoli  o  ceti.  L'Italia  poi  regolerà,  rispettando  le 
leggi  e  gli  istituti  fondamentali  degli  indigeni,  i  rap- 
porti di  costoro  con  i  coloni  italiani,  con  gli  israeliti, 
ecc.,  ed  i  rapporti  di  tutti  con  la  madre  patria  e  con 
l'estero.  Noi  dobbiamo  dirci  fortunati  che  i  principi  così 
saggiamente  incorporati  nelle  carte  del  trattato  di  Lo- 
sanna pongano  l'Italia  sulla  buona  via  nell'esercizio 
della  sovranità.  Che  è,  ripetiamolo  ancora,  per  chi  vo- 
glia conservare  e  far  prosperare  le  colonie,  il  rispetta 
degli  istituti  degli  indigeni,  la  collaborazione  con  essi, 
l'esclusione  di  qualsiasi  esclusività  di  rappresentanza  ai 
coloni  italiani  od  assimilati  ad  essi;  la  creazione  di  tanti 
statuti  politici  quante  sono  le  sezioni  della  popolazione 
(indigeni,  israeliti,  coloni  italiani),  in  guisa  che  nessuna 
di  esse  possa  opprimere  l'altra. 

Certo  la  creazione  di  questa  nuova  struttura  politica 
sarà  opera  faticosa  e  difficile;  ma  di  essa  il  trattato  di 
Losanna  ha  tracciato  già  le  somme  linee.  La  storia  giu- 
dicherà l'opera  italiana  dai  frutti  che  saremo  capaci  di 
trarre  dai  germi  fecondi  di  cui  quel  trattato  è  ricco. 

(Dal  Corriere  della  Sera,   1°  novembre   1912). 


L'ABOLIZIONE  DELLE  CAPITOLAZIONI 
IN   TURCHIA 

La  giornata  del  10  settembre  rimarrà  storica  negli 
annali  dell'Impero  turco.  L'abolizione  delle  capitola- 
zioni può  invero  segnare  il  principio  del  rinnovamento 
nella  vita  di  quel  paese  e  può  produrre  effetti  profondi 
e  benefìci  sia  alle  popolazioni  dell'Impero  sia  agli  stra- 
nieri i  quali  dimorano  nel  territorio  turco  o  vengono  in 
rapporto  di  commerci  e  di  industrie  con  i  suoi  abitanti. 

I  trattati,  comunemente  detti  capitolazioni  —  mercè 
cui  i  sultani  di  Costantinopoli  si  obbligarono  in  per- 
petuo a  garantire  agli  stranieri  il  diritto  di  esser  giudi- 
cati dai  propri  consoli  o  tribunali  misti,  di  non  pagare 
imposte,  e  si  vincolarono  a  non  aumentare  i  dazi  doga- 
nali sulle  merci  importate  ed  esportate  senza  il  consen- 
so dei  governi  europei  —  potevano  forse  essere  adatti 
alle  necessità  dell'epoca  storica  in  cui  sorsero.  In  un'e- 
poca in  cui  l'esercizio  delle  libertà  elementari  di  traf- 
fico si  considerava  come  un  privilegio,  era  naturale  che 
i  Veneziani,  i  Genovesi,  e  le  nazioni  che  a  costoro  suc- 
cedettero, cercassero  di  garantirsi  il  privilegio  della  li- 
bertà di  traffico,  allo  scopo  di  non  vedersi  vietato  l'ac- 
cesso alle  contrade  del  Levante.  In  momenti  storici  in 
cui  l'esazione  delle  imposte  era  arbitraria  e  oppressiva, 
era   opportuno    che    le    colonie    straniere    cercassero    di 


70  - 


ottenere  l'immunità  dalle  imposte,  come  il  solo  mezzo 
per  non  essere  taglieggiate  a  sangue.  Il  fanatismo  re- 
ligioso e  le  persistenza  nel  mondo  mussulmano  delle 
idee  medievali  di  statuto  personale  spiegano  poi  come 
siano  sorti  i  tribunali  consolari  e  le  giurisdizioni  privi- 
legiate a  favore  degli  stranieri. 

Certo  è  però  che  tutta  questa  struttura  antiquata  era 
divenuta  oggi  un  anacronismo  storico  e  un  impedimento 
gravissimo  al  progresso  civile  ed  economico  dell'impero 
turco.  Le  giurisdizioni  consolari  menomavano  la  sovra- 
nità dello  Stato  e  creavano,  in  seno  all'impero,  tante 
sovranità  diverse  quanti  erario  gli  Stati  di  capitolazione. 
Ogni  colonia  straniera  si  considerava  come  accampata 
sul  territorio  turco  e  riconosceva,  dentro  lo  stesso  terri- 
torio, una  sovranità  diversa  da  quella  territoriale.  Chi 
consideri  che  una  delle  caratteristiche  fondamentali  del- 
lo Stato  moderno  è  l'abolizione  di  ogni  altra  sovra- 
nità all'infuori  di  quella  dello  Stato  territoriale,  chi  ri- 
cordi che  l'abolizione  del  foro  ecclesiastico  fu  conside- 
rata un  trionfo  del  diritto,  non  può  a  meno  di  ricono- 
scere che  l'abolizione  delle  giurisdizioni  consolari  era 
un  ideale  che  ogni  turco,  animato  da  senso  di  amore 
verso  il  proprio  paese,  doveva  perseguire  con  fermezza, 
non  trascurando  alcuna  occasione,  alcun  pretesto  per 
conseguirlo.  Tutti  i  paesi  europei,  quando  si  impadro- 
nirono di  colonie  di  capitolazione,  si  affrettarono  ad 
abolire  questo  marchio  di  sudditanza  verso  lo  straniero; 
e  noi  in  Libia  seguimmo,  bene  a  ragione,  l'esempio  al- 
trui. Il  Giappone,  risorto  a  civiltà,  abolì  subito  i  tribu- 
nali  consolari. 

Unica  obbiezione  :  la  scarsa  garanzia  di  giustizia  che 
offrono  i  tribunali  indigeni  in  Turchia.  Ma  è  obbiezione 


71 


la  quale  persuade  soltanto  ad  esigere  che  si  passi  gra- 
datamente, con  opportune  cautele,  dallo  stato  attuale 
di  privilegio*  alla  condizione  di  diritto  comune;  non  è 
motivo  per  conservare  indefinitamente  lo  stato  di  pri- 
vilegio. Il  quale  torna,  in  definitiva,  di  danno  anche  e 
forse  sovratutto  agli  stranieri.  Poiché  la  separazione  as- 
soluta, la  quale  esiste  tra  la  giustizia  indigena  ed  i  tri- 
bunali consolari,  fa  sì  che  la  prima  non  sia  soggetta  al 
controllo  e  alla  critica  degli  stranieri  e  la  immobilizza 
nel  suo  stato  corrotto  e  imperfetto  attuale. 

Ora  —  e  qui  è  il  punto  essenziale  del  problema  — 
a  che  vale  una  giustizia  perfetta  tra  gli  stranieri,  quando 
essi  sono  condannati  a  vivere  in  un  ambiente  dove  l'at- 
bitrio  è  regola  e  dove  la  giustizia  è  misconosciuta?  In 
un  ambiente  siffatto  la  cultura  e  la  ricchezza  non  pos- 
sono progredire;  la  popolazione  indigena  giace  oppressa 
e  povera.  E  gli  stranieri,  invece  di  essere  un  elemento 
di  progresso,  di  critica,  di  controllo,  diventano,  come 
purtroppo  in  molti  casi  accade  ordinariamente  in  Tur- 
chia, gli  alleati  della  ingiustizia.  Dalla  loro  condizione 
di  privilegio  traggono  motivo  per  ottenere  favori  dalle 
autorità  turche  e  concessioni  di  ogni  fatta,  a  detrimento 
delle  popolazioni  indigene.  Invece  di  essere  i  pionieri 
del  progresso,  talvolta  diventano  gli  struttatori  del  pae- 
se. Di  ciò  si  giovano  non  i  molti  stranieri,  i  lavoratori, 
i  commercianti,  gli  industriali  che  poggiano  soltanto 
sulle  proprie  iniziative  e  sui  propri  capitali,  ma  i  pochi 
più  furbi,  i  quali,  giovandosi  delle  influenze  delle  am- 
basciate e  dei  consolati,  riescono  a  strappare  conces- 
sioni e  privilegi,  per  lo  più  onerosissimi  al  pubblico  era- 
rio e  contrari  all'interesse  generale. 


—  11  — 

Le  quali  osservazioni  si  debbono  ripetere  rispetto 
alia  immunità  dalle  imposte  e  al  regolamento  dei  dazi 
doganali.  La  immunità  dalle  imposte  a  favore  degli  stra- 
nieri produce  in  Turchia  i  medesimi  effetti  che  analoghe 
immunità  produssero  in  passato  in  Italia  e  in  ogni  al- 
tro paese  d'Europa.  Ricordisi  il  detto  di  quel  granduca 
di  Toscana,  il  quale,  contemplando  l'estendersi  dei  la- 
tifondi ecclesiastici  e  nobiliari  esenti  da  imposte,  escla- 
mò :  <(  presto  al  granduca  di  Toscana  non  rimarrà  un 
palmo  di  territorio  su  cui  potere  assidere  imposte  e  con 
cui  mantenere  lo  Stato!  ».  È  gloria  degli  Stati  moderni, 
venuti  dopo  la  rivoluzione  francese,  di  avere  abolito 
ogni  immunità  tributaria  di  classe  e  di  persone;  ed  è 
doveroso  perciò  riconoscere  alla  Turchia  il  diritto  di 
seguire  il  nostro  esempio.  La  immunità  produce  invero 
in  Turchia  gli  stessi  effetti  deleteri  che  produceva  da 
noi  in  passato.  La  classe  più  ricca  e  più  operosa  della 
popolazione  non  paga  balzelli,  mentre  pur  si  giova  dei 
servizi  pubblici;  dal  che  deriva  il  disagio  permanente 
delle  finanze,  la  incapacità  dello  Stato  a  provvedere  ai 
doveri  fondamentali  della  pubblica  sicurezza,  della  giu- 
stizia, dell'igiene,  dell* istruzione.  Il  peso  dei  tributi  in- 
cide maggiormente  sui  coltivatori  indigeni  della  terra, 
i  quali  per  tal  guisa  immiseriscono  e  sono  scoraggiati 
dal  migliorare  le  loro  colture.  Il  privilegio  degli  stra- 
nieri ridonda  così  in  definitiva  a  loro  proprio  grandis- 
simo danno;  poiché  essi  certamente  lucrerebbero  di  più, 
ove  potessero  vivere  in  uno  Stato  a  finanze  assestate, 
con  imposte  equamente  ripartite  e  con  una  popolazione 
indigena  prospera  e  progressiva,  Gli  stranieri,  rimanen- 
do in  Turchia  attaccati  all'immunità  tributaria,   per  un 


73 


piccolo  bene  presente  rinunciano  a  un  grande  beneficio 
futuro. 

Il  divieto  fatto  alla  Turchia  di  aumentare  i  dazi  do- 
ganali senza  il  consenso  delle  potenze  per  sé  medesimo 
non  presta  il  fianco  ad  alcuna  obbiezione,  ed  anzi  in 
definitiva  è  utile  così  agli  indigeni  come  agli  stranieri, 
instaurando  un  regime  di  perfetto  libero  scambio,  di 
dazi  prettamente  fiscali  e  di  uguaglianza  di  trattamento 
fra  indigeni  e  stranieri  e  fra  stranieri  fra  di  loro;  tutte 
cose  che  la  scienza  economica  grandissimamente  loda 
e  reputa  utili  all'universale.  Ma  v'è  da  osservare  —  e 
l'osservazione  è  doverosa  nella  penna  di  un  liberista 
—  che  i  benefizi  anche  grandissimi  paiono  sempre  odio- 
si quando  sono  imposti  dallo  straniero;  che  è  preferi- 
bile di  gran  lunga  uno  stato  di  libertà  di  scambi,  rag- 
giunto in  seguito  all'esperienza  di  errori  protezionisti, 
che  non  un  libero  scambio  imposto  dalla  civiltà  alla 
barbarie.  Poiché  il  primo  si  attua  presso  un  popolo  ric- 
co; mentre  il  secondo  è  l'appannaggio  dei  popoli  mise- 
rabili, a  cui  poco  giova  l'osservanza  delle  buone  regole 
economiche.  Finalmente,  e  sovratutto,  notisi  che  le  po- 
tenze europee  non  si  sono  rifiutate  in  passato  di  consen- 
tire all'aumento  dei  dazi  doganali  dal  4  insino  al  15  per 
cento  odierno;  ma  hanno  fatto  dipendere  il  loro  con- 
senso dall'ottenimento  di  concessioni  e  di  favori,  intor- 
no ai  cui  malefici  risultati  sovra  mi  sono  già  abbastanza 
espresso . 

Ben  fece  perciò  l'Italia,  nel  trattato  di  Losanna  a 
consentire  all'abolizione  condizionata  delle  capitolazio- 
ni. Dimostrava  con  ciò  di  essere  la  patria  del  diritto  e 
di  avere  a  cuore  gli  interessi  sostanziali  della  massa  dei 
suoi  connazionali  più  che  quelli  apparenti  di  pochi  pri- 


74 


vilegiati  tra  di  essi.  E  io  mi  auguro  che,  in  questi  fran- 
genti, l'Italia  indichi  la  via  regia  lungo  la  quale  l'aboli- 
zione delle  capitolazioni  potrà  avvenire  con  le  maggiori 
possibili  garanzie  per  i  nostri  connazionali  di  oggi  e  di 
domani.  Queste  garanzie  sono  necessarie;  poiché  è  ra- 
gionevole la  diffidenza  nostra  verso  la  classe  politica  ot- 
tomana, in  cui  sovrabbondano  i  saltimbanchi  e  gli  av- 
venturieri, appartenenti  a  razze  diverse  da  quella  ot- 
tomana e  poco  curanti  dei  destini  futuri  della  loro  pa- 
tria. Abbandonare  i  nostri  Italiani  senza  difesa  in  mano 
di  costoro  sarebbe  delitto;  sebbene  il  pericolo  grave  non 
debba  farci  preferire  l'errore  di  concorrere  al  manteni- 
mento del  dannoso  istituto,  che  per  somma  ventura  è 
stato   abolito. 

Scendendo  a  qualche  particolare  intorno  alle  garan- 
zie a  cui  si  dovrebbe  subordinare  il  consenso  all'abo- 
lizione delle  capitolazioni,  pare  a  me  che  le  principali 
dovrebbero  essere  le  seguenti  : 

1.  l'istituzione  di  assessori  stranieri  nei  tribunali 
territoriali,  per  quei  casi  nei  quali  si  dovessero  giudi- 
care cittadini  stranieri.  Gli  assessori  potrebbero  essere 
designati  dai  consoli  e  nominati  dallo  Stato  ottomano, 
per  salvare  il  principio  dell'unica  sovranità  territoriale. 
La  Turchia  dovrebbe  obbligarsi  a  introdurre  nella  pro- 
pria legislazione  commerciale,  civile  e  penale  principi 
e  regole  informati  al  diritto  comune  europeo;  e  questo 
diritto  dovrebbe  essere  obbligatorio  per  tutti  coloro  i 
quali  non  preferissero  il  diritto  mussulmano.  Fino  all'in- 
troduzione del  nuovo  codice,  i  tribunali  indigeni  do- 
vrebbero applicare  agli  stranieri  le  stesse  norme  di  di- 
ritto finora  applicate  dai  tribunali  consolari.  Nessun  giu- 
dizio potrebbe  essere  iniziato  a  carico  di  uno  straniero, 


—  75  — 

senza  che  ne  fosse  fatta  preventiva  denunzia  al  console 
del  suo  paese;  cosicché  il  console  possa  eventualmente 
provvedere  alla  difesa.  Con  queste  e  simigliane  norme, 
che  i  periti  agevolmente  potrebbero  indicare,  parmi  che 
il  passaggio  dal  vecchio  al  nuovo  regime  sarebbe  faci- 
litato, dandosi  nel  tempo  stesso  le  opportune  garanzie 
agli  stranieri; 

2.  il  divieto  di  imporre  sugli  stranieri  balzelli  di- 
versi e  più  alti  di  quelli  imposti  agli  indigeni  situati 
nelle  stesse  condizioni.  A  garantire  l'esatta  osservanza 
di  questo  principio,  dovrebbero  essere  chiamati  rap- 
presentanti delle  varie  categorie  di  stranieri  in  seno  alle 
commissioni  ed  ai  corpi  ottomani  incaricati  della  ripar- 
tizione delle  imposte.  Gli  stranieri  non  possono  preten- 
dere nulla  di  più,  fuori  che  essere  trattati  alla  stessa 
stregua  degli  indigeni;  e  la  presenza  di  loro  delegati  in 
seno  ai  corpi  ripartitori  sarebbe,  oltreché  una  garanzia 
per  l'esatta  osservanza  della  regola  della  parità,  un 
mezzo  efficace  per  introdurre  ordine  e  giustizia  nella 
amministrazione  fiscale,  anche  a  beneficio  degli  indi- 
geni; 

3.  i  dazi  doganali  potrebbero  essere  variati  ad  li- 
bitum, dallo  Stato  ottomano,  subordinatamente  ad  una 
condizione  :  che  essi  debbano  essere  variati  nello  stesso 
senso  e  nella  stessa  misura  per  tutte  le  provenienze 
straniere.  Dovrebbe  insomma  essere  garantita  la  parità 
di  trattamento  per  tutti  gli  Stati  importatori  ed  esporta- 
tori; così  da  evitare  che  si  possa  da  qualche  Stato  più 
inframmettente,  con  mezzi  corruttori,  ottenere  una  con- 
dizione di  favore  per  i  propri  connazionali.  Faccia  la 
Turchia  gli  esperimenti  protezionisti  che  ad  essa  meglio 
talentino;  ma  tratti  tutti  gli  stranieri  alla  stessa  stregua. 


—  76  — 

La  quale  condizione  è  quella  che  massimamente  giova 
all'Italia,  come  alla  nazione  che,  per  fortuna,  è  meno 
abile  nelle  triste  arti  del  corrompere  la  burocrazia  turca 
e  più  ha  da  giovarsi,  per  il  buon  mercato  di  molti  suoi 
prodotti,  della  parità  di  trattamento. 

4.  il  regime  delle  concessioni  governative  sia  sta- 
bilito su  basi  chiare,  semplici,  legali.  Anche  qui  la  Tur- 
chia dovrebbe,  del  resto  nel  suo  vantaggio,  stabilire  un 
sistema  di  pubblicità  nelle  concessioni  di  ferrovie,  di 
lavori  pubblici,  di  sfruttamenti  minerari,  dando  la  pre- 
ferenza a  chi  offre  condizioni  migliori  all'erario  otto- 
mano, sia  egli  indigeno  o  straniero  ed  a  qualunque  na- 
zionalità appartenga.  Ove  questo  principio  fosse  adot- 
tato, grande  vantaggio  ne  ricaverebbero  gli  Italiani,  il 
cui  spirito  d'intraprendenza  dovrebbe  essere  stimolato 
ad  assumere  per  proprio  conto  l'appalto  di  imprese  che 
oggi  gli  stranieri  ottengono  grazie  a  favoritismi,  giovan- 
dosi poi  della  mano  d'opera  italiana  per  condurle  a 
termine. 

(Dalla  «  Minerva  »,    1°  ottobre    1914). 


DECADENZA  INGLESE? 

Nell'atto  in  cui,  con  la  morte  di  Vittoria  e  l'assunr 
zione  al  Trono  di  Edoardo  VII,  si  chiude  il  più  impor- 
tante e  forse  più  glorioso  periodo  della  storia  inglese, 
e  uno  nuovo  se  n'apre,  una  grande  incognita  si  pre- 
senta a  chi  guarda  il  futuro  della  potenza  economica 
e  politica  d'Inghilterra 

Il  grido  d'allarme,  che  un  terzo  di  secolo  fa  innal- 
zava il  Jevons,  ha  trovato  oggi  nuovamente  un'eco  pro- 
fonda ed  una  discussione  vivissima  ed  interessante  si 
prolunga  su  per  le  riviste  e  per  i  giornali  per  sapere  se 
l'Inghilterra  si  trovi  giunta  al  culmine  della  sua  potenza 
industriale  e  stia  per  discendere  la  china  della  deca- 
denza, oppure  ancora  le  sia  aperta  dinanzi  la  via  del 
progresso. 

L'imperialismo  è  una  manifestazione  sterile  di  or- 
goglio da  parte  di  un  paese  che  vede  di  non  poter 
oltre  progredire,  oppure  è  la  genuina  espressione  di  una 
vita  esuberante  che  cerca  di  espandersi  al  di  là  dei  con- 
fini della  patria? 

Gli  argomenti  non  mancano  a  coloro  i  quali  riten- 
gono prossima  la  decadenza  britannica.  La  concorrenza 
ognora  più  formidabile  della  Germania  e  dell'America, 
la  perduta  supremazia  nelle  grandi  industrie  del  ferro  e 
dell'acciaio  e  sopratutto  rincarimento  progressivo  del 
costo  di  estrazione  del  carbone,  sono  fenomeni  i  quali 


—  78  — 

fanno  seriamente  dubitare  essere  giunta  l'ora  in  che 
l'Inghilterra  dovrà  scendere  alla  condizione  di  potenza 
industriale  di  second'ordine  e  ritenersi  paga  di  venire 
ricordata  con  affetto  e  con  venerazione  dalle  numerose 
colonie  anglo-sassoni  fondate  dai  suoi  figli  nelle  varie 
parti  del  mondo. 

L'Inghilterra  fu  grande  nel  secolo  nostro,  in  special 
guisa  perchè  le  ricchissime  miniere  di  carbone  e  di  ferro 
le  permisero  di  diventare  la  fornitrice  di  manufatti  per 
tutto  il  mondo  e  di  trasportare  sulla  sua  flotta  mercan- 
tile i  prodotti  dei  paesi  più  lontani.  Ma  oggi  che  in  ogni 
luogo  si  scoprono  nuove  miniere  coltivabili  a  bassissi- 
mo costo  e  che  le  miniere  inglesi  vanno  esaurendosi  di 
giorno  in  giorno,  l'Inghilterra  non  potrà  più  mantenere 
l'antica  posizione.  A  poco  a  poco,  una  dopo  l'altra  le 
innumerevoli  fabbriche  esuleranno  dal  suolo  britannico, 
trasmigrando  verso  luoghi  meno  favoriti  dai  doni  della 
natura.  In  Inghilterra  rimarranno  solo  alcuni  opifici  di 
oggetti  di  lusso  e  le  opulenti  case  dei  ricchi  colonizza- 
tori del  mondo;  ma  la  vita  febbrile  ed  intensa  dell'oggi 
più  non  si  vedrà. 

Tale  il  quadro  che  Jevons  faceva  dell'Inghilterra  fu- 
tura; ed  il  quadro  oscuro  viene  oggi  nuovamente  trac- 
ciato coi  medesimi  colori  da  altri  indagatori  pessimisti. 
Le  nere  previsioni  meritano  di  essere  discusse  anche 
da  noi,  perchè  nessun  paese  potrebbe  rimanere  insen- 
sibile dinanzi  ad  un  fatto  che  muterebbe  la  carta  in- 
dustriale dell'Europa  e,  spostando  le  sedi  della  ricchez- 
za economica,  sposterebbe  necessariamente  altresì  le 
sedi  della  potenza  militare  e  politica. 

È  perciò  che  noi  crediamo  opportuno  riassumere  in 
breve   gli  argomenti,   coi  quali  uno  dei  più  illustri   eco- 


—  79  — 

nomisti  e  statisti  inglesi,  sir  Robert  Giffen,  nell'ultimo 
fascicolo  dell' Economie  Journal  ha  voluto  neramente 
opporsi  alla  tendenza  pessimista  che  vuole  intravedere 
nel  futuro  un'Inghilterra  decaduta  ed  impotente. 

La  prosperità  inglese,  egli  afferma,  non  è  un  fatto, 
il  quale  sia  destinato  a  cessare  collo  scomparire  di  una 
o  due  delle  condizioni  che  l'hanno  resa  possibile  nel 
passato.  Essa  è  andata  crescendo  continuamente  nei 
due  ultimi  secoli  e  la  rapidità  del  suo  incremento  è  di- 
venuta ognora  maggiore.  Le  cause  occasionali  e  mo- 
mentanee di  questa  grandezza  economica,  possono  es- 
sere state  tali  che  il  tempo  può  farle  scomparire...  Così 
scomparve  l'industria  della  lana  che  un  giorno  formava 
la  gloria  della  nazione;  e  si  alternarono  con  vicende 
or  prospere  or  avverse,  le  manifatture  del  cotone,  del 
ferro,  del  carbone,  della  costruzione  di  navi.  La  colo- 
nizzazione dell'America  e  dell'Australia,  ed  ora  quella 
del  Sud-Africa,  i  progressi  commerciali  dell'India  e  per- 
sino la  guerra  franco-tedesca  contribuirono  a  crescere 
la  ricchezza  nazionale. 

Ma,  se  queste  condizioni  esterne  e  parziali  potran- 
no forse  nel  futuro  far  difetto,  non  scompariranno  giam- 
mai —  è  da  sperare  —  quelle  condizioni  fondamentali 
su  cui  poggia  la  vera  grandezza  dell'Inghilterra  :  voglia- 
mo dire  le  qualità  ingenite  ed  acquisite  della  popola- 
zione e  la  grande  copia  di  capitale  accumulato. 

Non  c'è  nessun  motivo  per  credere  che  la  popola- 
zione inglese  vada  degenerando  e  che  il  capitale  cessi 
di  cumularsi  in  masse  prodigiose  ed  atte  a  sopportare 
i  crudi  colpi  della  concorrenza  estera  e  della  scompar- 
sa di  taluni  speciali  industrie,  come  quella  del  ferro  e 
del  carbone. 


—  80  — 

La  generazione  presente  è  altrettanto  e  forse  più  vi- 
gorosa di  quelle  passate,  e  se  la  ricchezza  già  acquisita 
ne  ha  scemata  alquanto  l'antica  rabbiosa  smania  di  ele- 
varsi con  energia  incessante,  pure  non  sembra  che  i 
figli  siano  meno  dei  loro  padri  disposti  a  cercar  nuove 
vie  all'impiego  dei  capitali  e  delle  intelligenze. 

La  concorrenza  estera  medesima  divenendo  più  ac- 
canita, stimola  continuamente  gli  imprenditori  ed  im- 
pedisce loro  di  addormentarsi  sugli  allori  conquistati.  Il 
rivale  straniero,  arricchendo  se  stesso,  giova  contempo- 
raneamente all'industria  inglese.  I  suoi  clienti,  com- 
prando a  minor  prezzo,  possono  ottenere  un  risparmio 
che  altrimenti  non  avrebbero  avuto  e  possono  impi© 
garlo  in  compre  addizionali.  Da  tempo  immemorabile 
in  tutte  le  epoche  in  cui  la  prosperità  dell'Inghilterra 
più  velocemente  cresceva,  si  udirono  lagnanze  inces- 
santi contro  i  concorrenti  esteri  e  previsioni  continue  di 
disastri  e  di  mine.  Il  fatto  che  coteste  previsioni  non  si 
verificarono'  mai  nella  realtà,  è  arra  che  anche  nel  fu- 
turo si  può  fare  a  fidanza  sulle  qualità  preziose  di  ener- 
gia e  di  intraprendenza  del  popolo  inglese  per  superare 
quelle  crisi  che  ai  padri  non  ostacolarono  il  cammino 
sulla  via  del  progresso. 

Nemmeno  crede  il  Giffen  che  si  debba  far  gran 
conto  della  innegabile  decadenza  nelle  industrie  del 
ferro  e  del  carbone.  Se  la  produzione  del  ferro  e  del 
carbone  fosse  il  solo  fondamento  della  prosperità  del 
paese,  certamente  si  dovrebbe  essere  allarmati.  Ma  ciò 
è  vero?  Non  ha  forse  la  nazione  progredito  e  non  con- 
tinua forse  a  progredire  in  mirabil  guisa,  malgrado  che 
essa  debba  provvedersi  all'estero  di  quasi  tutte  le  ma- 
terie   greggie,    e    delle    derrate    alimentari?    Nel    mondo 


—  81  — 

moderno  la  diminuzione  dei  prezzi  di  trasporto  fa  sì 
che  fitta  popolazione  possa  prosperare  e  numerose  fab- 
briche possano  essere  esercitate  in  luoghi  diversi  da 
quelli  ove  si  producono  le  materie  greggie  e  gli  alimenti. 
Quanto  al  carbone,  i  sistemi  perfezionati  nell* utilizzarlo, 
lo  rendono  sempre  meno  necessario  ad  una  nazione 
manifatturiera.  Una  volta  era  necessario  consumare  50 
lire  di  carbone  per  produrre  oggetti  del  valore  di  L.  100 
che  si  vendevano  a  105.  In  quelle  condizioni  una  dif- 
ferenza del  10  per  cento  nel  costo  di  produzione  del 
carbone  a  vantaggio  di  un  concorrente  estero  avrebbe 
avuto  un'importanza  grandissima,  assorbendo  l'intiero 
profitto  dell'impresa.  Grazie  alle  invenzioni  moderne, 
50  lire  di  carbone  bastano  ora  per  produrre  1000  lire  di 
manufatti.  Una  differenza  del  10  per  cento  nel  prezzo 
del  prodotto  assorbirebbe  solo  un  decimo  del  profitto 
e   potrebbe  essere   sopportato   con   facilità. 

È  uno  sbaglio  perciò  credere  che  una  industria  spe- 
cifica sia  necessaria  ad  una  nazione  che  ha  una  grande 
varietà  nella  popolazione,  nelle  industrie  e  nei  commerci 
e  possiede  un  grande  capitale.  Non  c*è  nessuna  indu- 
stria che  sia  veramente  indispensabile  alla  vita  di  un 
paese.  La  società  deve  seguire  i  tempi  e  mutare  conti- 
nuamente, cosicché  l'industria  «  indispensabile  »  di  un 
periodo  può  scendere  senza  danno  ad  un  grado  affatto 
secondario  di  importanza  e  forse  scomparire  del  tutto, 
lasciando  il  luogo  ad  altre  industrie  «  indispensabili  ». 
Forse  l'Inghilterra  di  domani  sarà  molto  diversa  dal- 
l'Inghilterra del  ieri,  ma  non  sarà  perciò  meno  ricca  e 
potente. 

(Dal  Corriere  della  Sera,  4  febbraio    1901). 


LE  DUE  VIE  DELL'IMPERIALISMO 

In  un  eloquente  articolo  sul  Corriere  della  Sera  del 
17  settembre  scorso,  il  senatore  Pasquale  Villari  ha  ri- 
preso, ragionando  di  due  libri  sull'Inghilterra,  l'uno 
scritto  dall'italiano  professor  Dalla  Volta  e  l'altro  dal- 
l'inglese Lord  Milner,  un  antico*  dibattito  che  in  Inghil- 
terra dura  da  tempo  fra  liberisti  e  imperialisti,  fra  i 
Little  Englanders,  fautori  del  piede  di  casa,  della  mas- 
sima libertà  e  indipendenza  concessa  alle  colonie,  e  gli 
esaltatori  della  Greater  Britain,  i  quali  vogliono  dalla 
più  grande  Inghilterra  far  sorgere  il  fatto  grandioso  del- 
l'Impero inglese,  di  uno  Stato  mondiale,  composto  di 
nazioni  autonome,  ma  insieme  riunite  da  stretti  vincoli 
politici  ed  economici.  Lord  Milner  rivendica  la  tradi- 
zione di  Disraeli  (Lord  Beaconsfield),  si  inspira  ai  con- 
cetti imperialisti  svolti  nelle  celebri  opere  del  Dilke  e 
del  Seeley  e  vivacemente  difende  il  programma  colo- 
nialista e  imperialista  e  protezionista  del  Chamberlain 
contro  le  accuse  dei  liberisti,  tenaci  oppugnatori  di  ogni 
dazio  doganale  di  favore  per  le  colonie,  e  seguitatori 
delle  idee  dei  Cobden  e  dei  Bright,  che  ai  loro  tempi 
avevano  ottenuto  la  abolizione  dei  dazi  doganali  protet- 
tivi e  avevano  anche  propugnato  1* abbandono  delle 
colonie  e  della  politica  conquistatrice  e  imperialista. 

Contro  questi  liberisti  dal  cervello  piccino,   incapaci 
di    larghe   vedute   politiche   e    storiche,    Lord   Milner,    il 


84 


quale  volle  la  guerra  coi  Boeri  e  fu  il  primo  proconsolo 
inglese  nel  Sud  Africa  riunito  sotto  il  dominio  inglese, 
si  arrabbia.  Questi  micromani,  questi  ostinati  Little  En- 
glanders  —  dice  il  Milner  —  guardano  solo  al  soldo; 
si  oppongono  all'introduzione  di  un  dazio  di  2  scellini 
per  quarter  —  circa  80  centesimi  per  ettolitro  —  sul 
grano  forestiero,  perchè  rincarirebbe  di  altrettanto  il 
prezzo  del  pane  consumato  dall'operaio  inglese;  e  non 
s'avvedono  che  il  piccolo  sacrificio  è  voluto  da  noi  im- 
perialisti non  per  sé  stesso,  ma  solo  come  un  mezzo  per 
permettere  alle  colonie  di  venderci  esse  il  loro  frumento 
in  esenzione  di  dazio  ad  esclusione  del  grano  prove- 
niente dagli  Stati  Uniti,  dall'Argentina,  dalla  Russia! 
Non  vogliono  comprendere  che  il  piccolo  dazio  contro 
il  grano  straniero  è  un  mezzo  per  creare  il  grande  im- 
pero britannico,  in  cui  la  metropoli  e  le  colonie  forme- 
ranno tutt'un  complesso  economico,  insieme  riunito  da 
vincoli  strettissimi  di  interessi.  Che  cosa  sono  le  dispute 
piccole  e  grette  su  alcuni  dazi  protettivi  contro  lo  stra- 
niero e  a  prò  delle  colonie,  quando  si  tratta  di  cemen- 
tare un  impero  di  400  milioni  di  uomini,  di  rassodare 
la  pax  britannica  in  un  territorio  immenso  e  di  trasfor- 
mare la  vaga  e  sciolta  confederazione  odierna,  riunita 
da  vincoli  quasi  soltanto  nominali,  in  uno  Stato  com- 
patto, mondiale,  deciso  a  perpetuarsi  nella  storia  di 
fronte  agli  altri  organismi  potenti  che  nel  mondo  si 
vanno  formando? 

La  disputa  è  interessante  non  solo  per  1* Inghilterra; 
che  anche  noi  dovremo  scegliere  presto  e  seriamente 
la  via  da  seguire  per  creare  vincoli  non  di  dominio  puro 
ma  di  interessi  e  di  affetti  tra  la  madrepatria  e  le  nostre 
ingrandite  colonie.   Anche  da  noi,   come  in  Inghilterra, 


—  65  — 

come  in  Francia,  come  in  Germania,  si  porrà  il  proble- 
ma del  modo  migliore  di  creare  l'Impero  e  renderlo 
duraturo.  Perciò  mi  sembra  opportuno  di  esporre  quello 
che  io  credo  essere  il  vero  fondamento  del  trionfante 
imperialismo  britannico,  ben  diverso  dal  protezionismo 
coloniale  additato  da  Lord  Milner  e  dai  suoi  compagni 
di  fede  imperialista. 

Sì,  è  vero:  Cobden,  Bright  e  gli  altri  apostoli  del 
liberismo  furono  dei  Little  Englanders;  volevano  ricca 
e  prospera  la  madrepatria  e  volevano  lasciare  le  colonie 
liberissime  di  provvedere  a  se  stesse;  ne  avrebbero 
rimpianto  un  pacifico  distacco  delle  colonie  dalla  ma- 
drepatria. Perciò  essi  furono  detti  adoratori  della  pic- 
cola Inghilterra  e  nemici  dell'Impero  inglese.  Mentre 
il  Chamberlain  e  Lord  Milner  sono  detti  imperialisti, 
perchè  proclamano  la  necessità  dell'Impero,  e  vogliono 
vincoli  doganali  più  stretti  fra  le  colonie  e  la  madre- 
patria. 

Tutto  ciò  è  verissimo;  ma  è  anche  vero  che  queste 
sono  parole  e  discorsi.  La  storia  non  si  fa  con  le  parole 
e  coi  discorsi,  ma  con  gli  atti  e  coi  fatti.  Lo  storico  non 
deve  guardare  a  ciò  che  gli  uomini  dissero;  ma  alle 
conseguenze  vere  delle  azioni  compiute  dagli  uomini; 
e  dichiarare  creatori  dell'impero  quelli  che  lo  crearono 
di  fatto  o  coi  loro  atti  lo  cementarono,  anche  se  a  pa- 
role essi  non  se  ne  curarono  O'  gli  erano  nemici;  e  con- 
siderare come  distruttori  dell'impero  quelli  che  compi- 
rono od  avrebbero  compiuto  atti  destinati  a  rompere 
i  vincoli  tra  le  diverse  parti  dell'impero,  anche  se  essi 
da  sé  medesimi  si  erano  proclamati  i  banditori  dell'im- 
perialismo. 


66 


Ora,  a  me  sembra  che,  se  noi  guardiamo  la  storia 
da  questo  punto  di  vista,  niun  dubbio  vi  possa  essere 
sull'intima  virtù  imperialista  degli  atti  compiuti  dai  li- 
beristi inglesi  e  in  genere  dai  cosidetti  Little  Englanders 
e  sulla  forza  distruttiva  dell'impero  che  avrebbero,  se 
tradotte  in  fatti,  le  idee  dei  neo-imperialisti  e  protezio- 
nisti  alla  Chamberlain  o   alla  Milner. 

Che  cosa  fecero  invece  i  liberisti  inglesi?  Abolirono 
i  dazi  protettori  che  gravano  sull'importazione  delle 
merci  straniere  e  coloniali  nella  Gran  Bretagna.  Li  abo- 
lirono sulle  merci  e  sulle  derrate  di  ogni  provenienza, 
sia  che  venissero  da  paesi  stranieri  o  dalle  colonie.  E 
quale  fu  l'effetto  di  questa  politica?  Che  mentre  prima, 
all'epoca  del  sistema  coloniale  e  del  protezionismo,  gli 
inglesi  compravano  pochissimo  dalle  colonie,  perchè  i 
dazi  aumentavano  il  prezzo  delle  merci  e  rincaravano 
la  vita  e  diminuivano  la  capacità  di  consumo  delle 
masse,  dopo  acquistarono  assai  di  più  dalla  Germania 
e  dalla  Francia  e  dagli  Stati  Uniti,  ma  divennero  anche 
ottimi  clienti  delle  proprie  colonie.  Il  Canada,  l'Austria 
lia,  l'India  non  vendettero  mai  tanto  alla  madrepatria 
come  quando  furono  costretti  a  subire  ivi  la  concorrenza 
dei  produttori  stranieri,  a  perfetta  parità  di  condizioni; 
poiché  furono  altresì  costretti  a  inventar  modi  di  ri- 
durre i  costi  per  ribassare  i  prezzi,  dovettero  indirizzare 
lavoro  e  capitale  a  produrre  ciò  che  ai  concorrenti  non 
sarebbe   riuscito   di  produrre  con   altrettanta  perfezione. 

Oggi  i  vincoli  economici  tra  la  madrepatria  e  le  co- 
lonie sono  intensi  e  saldissimi  perchè  fondati  sul  libero 
volere  dei  consumatori  metropolitani,  i  quali  trovano 
convenienza  a  comprare  certe  merci  e  certe  derrate  più 


—  87  — 

dalle  colonie  che  dai  paesi  stranieri.  Togliete  questa 
libertà  di  scelta,  costringete  i  consumatori  metropolitani 
a  comprare  piuttosto  il  grano  del  Canada  che  il  grano 
degli  Stati  Uniti,  perchè  su  questo  grava  un  dazio  di 
2  scellini  per  quarter  da  cui  il  primo  è  esente,  e  voi 
avrete  reso  odioso  il  Canada  alle  masse  popolari  in- 
glesi; voi  avrete  gettato  un  germe  di  dissoluzione  nel- 
l'edificio superbo'  dell'impero  inglese,  poiché  avrete 
dato  motivo  all'oratore  popolare  nei  comizi  elettorali 
inglesi  di  scagliarsi  contro  i  canadesi  affamatoli  del 
popolo,  contro  la  alleanza  malvagia  dei  farmers  del 
Far-west  canadese  coi  grandi  proprietari  inglesi  allo 
scopo  di  affamare  le  classi  operaie.  Ed  un  impero,  il 
quale  vive  provocando  il  malcontento  delle  masse  me- 
tropolitane,  non  può  durare. 

Che  cosa  vollero,  ancora,  i  Little  Englanders  per  le 
colonie?  Vollero  lasciarle  libere  e  padrone  di  se;  vollero 
che  l'autorità  del  governo  e  del  parlamento  britannico 
su  di  esse  fosse  puramente  nominale.  E  così  ottennero 
che  quel  complesso  di  popoli,  i  quali  nel  primo  otto- 
cento erano  invidiosi  fra  di  loro  e  malfidi  verso  la  ma- 
drepatria, divenisse  un  impero  saldo  e  fortemente  unito 
in  cui  le  colonie  vanno  a  gara  nell'offrire  navi  da  guerra 
alla  madrepatria  per  la  difesa  comune.  Chi  riconosce 
nel  Canada  leale,  devoto  e  fedele  d'oggi,  il  Canada 
turbolento  di  prima  del  1850,  le  cui  sollevazioni  dove- 
vano essere  represse  colla  forza?  Chi  riconosce  nel  lea- 
lissimo  Sud  Africa  d'oggi,  a  capo  di  cui  sta  il  generale 
boero  Botha,  il  torbido  paese  a  cui  presiedeva  dieci 
anni  addietro  Lord  Milner? 

Se  la  storia  vuole  essere  giusta,  deve  riconoscere 
che   questa  mirabile   e   profonda  trasformazione   è   stata 


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dovuta  all'adozione  delle  idee  dei  liberisti  e  dei  Little 
Englanders.  Quelli  vollero  che  le  colonie  potessero  li- 
beramente colpire  di  dazi  tanto  i  prodotti  metropolitani 
come  quelli  stranieri;  e  nessuna  preferenza  vollero  fosse 
concessa  ai  prodotti  della  madrepatria  in  confronto  ai 
prodotti  stranieri.  E  così  accadde  che  mentre  prima, 
col  sistema  coloniale,  i  coloni  si  inferocivano  contro  la 
madrepatria  che  vietava  loro  di  provvedersi  altrove  a 
buon  mercato  delle  cose  necessarie  all'esistenza,  delle 
macchine  e  dei  vestiti  e  li  obbligava  ad  acquistarli  a 
caro  prezzo  sul  suo  mercato,  dopo  le  si  affezionarono, 
quando  videro  che  essa  li  lasciava  liberi  di  comprare 
altrove,  sforzandosi  però  di  produrre  ed  offrire  le  stesse 
merci  a  più  basso  prezzo  degli  stranieri  per  attirare  a 
se  la  clientela  coloniale.  Coli' antico  sistema  protezioni- 
sta ed  imperialista,  la  madrepatria  vendeva  poco  alle 
colonie,  perchè  vendeva  a  caro  prezzo;  ne  credeva  di 
aver  interesse  a  vendere  a  buon  mercato,  essendo  forte 
del  monopolio  di  cui  godeva  sul  mercato  coloniale,  a 
causa  dei  dazi  differenziali  che  le  colonie  erano  costrette 
a  mettere  sui  prodotti  stranieri;  sicché  la  madrepatria 
era  diventata  odiosissima  ai  coloni,  che  la  guardavano 
come  un  sfruttatrice  e  le  si  rivoltavan  contro  procla- 
mando la  libertà  degli  Stati  Uniti. 

Il  Seeley,  che  è  senza  dubbio  il  maggior  teorico 
dell'imperialismo  britannico,  ben  fa  vedere  come  la 
distruzione  della  Greater  Spain,  del  Greater  Portugal, 
della  Greater  Holland,  della  Greater  France  e  della 
Greater  Britain,  le  quali  esisterono  lungo  i  secoli  XVI, 
XVII  e  XVIII,  fu  in  notevole  parte  dovuta  ai  vincoli  onde 
le  colonie  erano  legate  alla  madrepatria.  E  se  oggi  la 
nuova   Greater  Britain   è   più   salda   assai   della   Greater 


—  89  — 

Britain  del  secolo  XVIII,  la  maggior  saldezza  e  la  spe- 
ranza di  più  lunga  durata  sono  dovute  all'assenza  di 
ogni  vincolo  economico  legale  che  asservì  le  colonie 
alla  madrepatria.  Che  se  oggi,  ancora,  le  colonie  man- 
dano i  loro  primi  ministri  a  sedere  col  primo  ministro 
e  col  segretario  degli  esteri  inglesi  in  una  «  Conferenza 
britannica  »  a  Londra,  se  spontaneamente  le  colonie 
votano  milioni  e  corazzate  per  la  difesa  imperiale,  se 
la  costituzione  di  «  Senato  imperiale  »  non  è  più  un 
sogno  assurdo,  ma  sta  diventando  una  realtà  concreta, 
ciò  non  è  dovuto  ai  nefasti  progetti  del  Chamberlain, 
ma  alla  politica  dei  vecchi  e  nuovi  Little  Englanders 
i  quali  vollero  dare  alle  colonie  libertà  di  rispondere 
di  no  ai  desideri  e  ai  voleri  della  madrepatria  e,  dando 
loro  questa  libertà,  le  indussero  ad  assentire  volonta- 
iamente,  nelle  maniere  discusse  insieme,  d'accordo  con 
la  madrepatria,  ai  nuovi  grandi  piani  di  unione  im- 
periale. 

Dio  salvi  dunque  l'impero  inglese  dagli  imperialisti 
e  dai  protezionisti  che,  per  interesse  o  per  infatuazione, 
lo  vogliono  rovinato;  e  Dio  salvi  il  nostro  paese  dallo 
stesso  pericolo,  nella  opera  appena  iniziata  di  forma- 
zione di  una  più  grande  Italia!  La  storia  insegna  che 
quelle  sole  colonie  si  conservano  alle  quali  si  dà  libertà 
di  vivere  come  esse  vogliono;  e  che  quei  soli  vincoli 
coloniali  sono  duraturi  e  fecondi  che  poggiano  sull'in- 
teresse, liberamente  veduto  e  seguito  dalle  due  parti, 
non  sulla  forza  di  leggi  imposte  dalla  madrepatria.  Vor- 
remo noi  seguire  questa  lezione  della  storia? 

(Dalla   Minerva,    15    ottobre    1913). 


CHE  COSA  È  L*  IMPERO  BRITANNICO 

Che  la  guerra  europea,  benché  sia  combattuta  sul 
continente  e  benché  richieda  alle  nazioni  continentali 
il  sacrifìcio  maggiore  di  vite,  sia  in  realtà  una  lotta  per 
il  primato  fra  Germania  ed  Inghilterra,  è  verità  di  cui 
sono  ugualmente  convinti  inglesi  e  tedeschi.  I  quali  ul- 
timi, mentre  non  nascondono  le  intime  simpatie  del 
cuore  per  i  francesi  e  non  repugnano  ad  accordi  con  la 
Russia,  considerano  l'Inghilterra  come  la  loro  vera  irre- 
ducibile  nemica. 

È  un  odio  che  nelle  classi  meno  colte  della  Germania 
trae  forse  principalmente  origine  dalla  credenza  di  una 
supposta  necessità  di  lotta  a  morte  con  l'Inghilterra  per 
la  rovina  economica  dell* avversario  e  la  conseguente 
grandezza  propria;  mentre  nell'Inghilterra  e  presso  le 
medesime  classi  sociali  si  diffondono  credenze  altret- 
tanto erronee  e  funeste  intorno  alla  necessità  di  schiac- 
ciare la  Germania  per  salvare  l'economia  britannica 
dalla  rovina. 

Pur  non  negando  che  queste  false  immagini  dei  pe- 
ricoli, .che  discenderebbero  dal  vigoreggiare  della  con- 
trada rivale,  abbiano  grandemente  contribuito  alla  se- 
minagione dell'odio  da  cui  scaturì  la  guerra,  io  non 
intendo  qui  occuparmene.  Certamente  anche  chi,  al  par 
di  me,  sia  persuaso  che  la  rivalità  tedesca  fu  invece 
non  ultima  causa  del  rifiorire  grandioso  della  economia 


—  92  - 

britannica  dopo  il  1900  e  ritenga  d'altro  canto  che  il 
contributo  del  mercato  monetario  londinese  alla  risur- 
rezione dei  paesi  nuovi  dell'America,  dell'Africa  e  del- 
l'Asia fu  cagione  non  trascurabile  dello  sviluppo  mera- 
viglioso della  ricchezza  tedesca  negli  ultimi  25  anni, 
deve  riconoscere  che  le  credenze  erronee  degli  uomini 
partoriscono  talvolta  effetti  più  grandiosi  delle  verità  più 
certe  e  profondamente  meditate.  E  quindi  può  darsi 
che  i  tedeschi  si  sentano  animati  alla  lotta  contro  l'In- 
ghilterra dalla  speranza  di  diventare  più  ricchi  e  po- 
tenti nel  giorno  in  che  siano  riusciti  ad  annientare  la 
loro   rivale  ricca  e  potente   d'oggi. 

Ma  è  doveroso  riconoscere  che  non  tutti  i  tedeschi 
ragionano  in  cotal  maniera  materialistica  e  predatoria. 
Anzi  gli  uomini  veramente  rappresentativi  della  Ger- 
mania, quelli  che  dai  connazionali  sono  reputati  i  veg- 
genti ed  i  profeti  della  missione  storica  germanica  abor- 
rono da  questa  maniera  di  ragionare.  Udiamo  il  vangelo 
di  Treitschke,  alla  cui  fonte  si  sono  abbeverate  tutte 
le  classi  intellettuali  e  dirigenti  della  Germania  d'oggi. 
Egli  non  predica  la  crociata  contro  1* Inghilterra,  perchè 
essa  sia  una  temibile  e  forte  e  sana  concorrente  della 
Germania.  Egli  invece  la  odia  perchè  la  reputa  una 
maschera,  una  entità  non  esistente,  una  vergogna  che 
non  ha  diritto  di  esistere.  «  In  questo  nostro  mondo 
—  egli  afferma  —  la  cosa  che  è  intieramente  una  ma- 
schera, una  falsità,  una  falsità  corrotta,  può  trascinare 
la  sua  vita  per  qualche  tempo,  ma  non  può  durare  per 
sempre  ».  Ed  altrove:  «  Non  fu  la  grandezza  della  sua 
condotta  politica  che,  come  già  creò  Venezia,  ha  creato 
ora  l'Impero  inglese;  bensì  l'azzardo  della  sua  situazione 


93 


geografica,  la  remissività  supina  delle  altre  nazioni  e 
la  naturale  ed  innata  ipocrisia  della  nazione  inglese. 
Vecchia  Inghilterra!  decrepita  e  corrotta  fino  al  mi- 
dollo! ». 

Se  fosse  vero  che  l'impero  inglese  è  una  cosa  falsa, 
ipocrita  e  corrotta,  se  esso  fosse  davvero  una  maschera 
priva  di  contenuto,  un  colosso  dai  piedi  di  creta,  sen- 
z'ai cun  dubbio  il  suo  fato  sarebbe  indeprecabile  e  la 
storia  dovrebbe  registrarne  ben  presto  la  rovina.  Nes- 
suno Stato  ha,  non  dirò  il  diritto  ma  la  possibilità  di 
vivere  quando  esso  è  fondato  sull'inganno  e  sull'astuzia, 
fortificato  dall'ipocrisia  e  raccom|andato  ad  un'idea 
falsa  di  una  forza  inesistente.  I  tedeschi  —  e  dico  i  te- 
deschi per  indicare  quel  qualunque  popolo  che  si  sen- 
tisse la  forza  di  rovesciare  l'idolo  —  non  avrebbero,  se 
fosse  esatta  la  rappresentazione  che  essi  si  fanno  del- 
l'impero inglese,  ragione  di  odiare  l'Inghilterra  perchè 
essa  è  la  loro  rivale  economica.  Essi  avrebbero  ragione 
di  odiarla  e  di  rovesciarla  perchè  in  realtà  essa  non 
sarebbe  veramente  una  rivale  degna  di  misurarsi  con 
loro  nel  campo  aperto  e  libero  delle  competizioni  com- 
merciali; ma  una  tiranna  che  colla  forza  dell'astuzia  e 
dell'inganno  cercherebbe  di  ottenere  lucri,  a  cui  sarebbe 
incapace  di  giungere  onestamente,  col  lavoro  emulatore 
e  fecondo. 

La  guerra  contro  l'Inghilterra  sarebbe  una  cosa 
turpe  e  dannosa,  se  essa  mirasse  a  distruggere  una  na- 
zione che  ha  il  solo  peccato  di  rivaleggiare  con  la  Ger- 
mania colle  oneste  arti  dell'industria  e  del  commercio 
in  campo  aperto.  La  guerra,  come  la  predicò  per  tanti 
anni  il  Treitschke,  sarebbe  invece  una  santa  impresa 
perchè   mirerebbe    a   togliere    di    mezzo    un     mostruoso 


—  94  — 

colosso,  chiamato  impero  inglese,  sorto  coll'inganno  e 
vivente  di  frodi  diuturnamente  commesse  a  danno  del- 
l'umanità. Siccome  la  vittoria  delle  idee  vere,  profon- 
damente rispondenti  a  realtà,  è  irresistibile,  la  caduta 
della  Inghilterra  sarebbe  inevitabile.  Più  o  meno  presto, 
attraverso  la  varia  fortuna  delle  armi,  l'impero  inglese 
dovrebbe  andar  distrutto  e  sulle  sue  rovine  si  instaure- 
rebbero altri  imperi  mondiali.  Di  fronte  a  questo  pro- 
blema :  della  vittoria  della  cosa  viva  e  reale,  dell'idea 
vera  e  sana  contro  la  cosa  vuota  ed  ipocrita,  contro 
l'idea  falsa;  scompare  l'altro  problema  :  chi  debba  vin- 
cere tra  il  business-man  inglese  ed  il  commesso  viaggia- 
tore tedesco.  Costoro  sono  soltanto  le  fronde  esteriori 
di  un  albero  che  ha  le  sue  profonde  radici  nella  terra; 
e  cadranno  prime  le  fronde  di  quell'albero  le  cui  ra- 
dici sono  marcie  e  decrepite. 

Il  problema  è  dunque  :  l'impero  inglese  è  una  cosa 
falsa,  una  apparenza  vana,  sorta  colla  frode  e  man- 
tenuta coli' ipocrisia?  Rispondere  chiaramente  a  questa 
domanda  è  nell'interesse  così  degli  inglesi  come  degli 
altri  popoli;  degli  inglesi,  perchè  un  popolo  consapevole 
dei  propri  difetti,  è  sulla  via  della  redenzione;  degli 
altri,  poiché  non  giova  a  nessuno  farsi  un'idea  falsa 
delle  virtù  e  dei  vizi  degli  amici  e  degli  avversari. 

Ora,  mentre  gli  inglesi  hanno  contribuito  moltissimo 
alla  conoscenza  di  se  stessi;  mentre  tutta  la  loro  lette- 
ratura politica  è  una  analisi  per  lo  più  straordinaria- 
mente oggettiva  e  critica  della  loro  storia  e  della  for- 
mazione del  loro  impero;  non  mi  sembra  che  fuori  del- 
l'Inghilterra  si  sia  seguito  con  abbastanza  attenzione 
il  movimento  di  idee  e  di  fatti  che  tendono  alla  rinno- 
vazione dell'impero  inglese.  L'ultimo  dei  grandi  italiani 


—  95  — 

che  conobbe  a  fondo,  nello  spirito  e  nelle  linee  essen- 
ziali, l'Inghilterra  fu  una  mente  politica  sovrana  :  Ca- 
millo di  Cavour.  Dopo  di  lui  e  presso  le  nuove  gene- 
razioni, l'Inghilterra  non  è  ancora  quella  cosa  irreale 
e  grottesca  che  ha  immaginato  il  Treitschke,  ma  è  di 
nuovo  la  nazione  di  mercanti  astuti,  che  sfrutta  le  fa- 
tiche degli  altri,  che  esce  arricchita  dalle  guerre  combat- 
tute fuori  dall'isola  superba  e  padrona  delle  terre  irro- 
rate dal  sangue  dei  popoli  ingenui,  l'ipocrita  che  predica 
in  casa  d'altri  l'ideale  della  nazionalità  ed  intanto 
freddamente  commette  gli  eccidi  indiani,  annette  l'E- 
gitto, distrugge  l'indipendenza  boera;  la  nazione  missio- 
naria che  tuona  contro  i  delitti  dei  belgi  nel  Congo  e 
si  macchia,  senza  batter  ciglio,  degli  orrori  dei  campi 
di  concentrazione  del  Transvaal.  Ed  è  innegabile  che 
presso  gli  inglesi  si  trova  suppergiù  quella  medesima 
percentuale  di  gente  falsa,  ipocrita  e  crudele  che,  in 
identiche  circostanze,  è  esistita  ed  esisterebbe  presso 
ogni  altro  popolo  della  terra.  Ma  non  è  di  questi  in- 
cidenti che  si  compone  la  gran  trama  della  storia;  ne 
da  questi  fatti  possiamo  trarre  argomento  a  giudicare 
della  posizione  che  ebbe  ed  ha  nella  storia  e  nella  vita 
del  mondo  l'impero  inglese;  così  come  nessuno  di  noi 
vorrebbe  giudicare  l'opera  grandiosa  dell'impero  ro- 
mano sull'unico  fondamento  delle  crudelissime  azioni 
che  non  di  rado  i  romani  commisero  contro  i  popoli  ne- 
mici e  soggetti. 

No.  L'impero  inglese  si  deve  giudicare  ricordando 
che  esso  è  l'unico  sopravvivente  di  quattro  anzi  di 
cinque  grandi  imperi  che  dal  secolo  decimosesto  al 
decimottavo   si   succedettero  nel  mondo  :    l'impero   por- 


% 


toghese,  l'impero  spagnuolo,  l'impero  olandese,  l'im- 
pero francese  ed  il  vecchio  impero  inglese.  Piuttosto 
si  deve  dire,  poiché  la  parola  «  impero  »  non  è  del  tutto 
appropriata,  come,  prima  che  sorgesse  la  odierna  «  più 
grande  Inghilterra  »  erano  sorte  e  si  erano  dileguate 
cinque  altre  «  più  grandi  »  formazioni  storiche,  che 
avevano  preso  il  nome  dalla  contrada  europea  relativa- 
mente piccola  che  aveva  allargato  il  suo  dominio  nei 
paesi  nuovi  d'America  e  d'Asia;  il  Portogallo,  la  Spa- 
gna, l'Olanda,  la  Francia  e  l'Inghilterra  medesima. 
Tutte  queste  cinque  «  più  grandi  »  nazioni  avevano 
contribuito  alla  formazione  del  mondo  moderno;  ma 
tutte  scomparvero;  e  solo  qua  e  là  si  veggono  galleg- 
giare ancora  i  resti  di  quelli  che  parevano  un  giorno 
dominii  mondiali  destinati  a  sfidare  i  secoli.  Scomparve 
il  «  più  grande  Portogallo  »;  perchè  all'opera  ambiziosa 
di  popolare  e  civilizzare  il  Brasile,  le  Indie  e  gran  parte 
delle  coste  africane  male  rispondevano  la  piccolezza 
della  popolazione  della  madrepatria  e  sovratutto  la  re- 
pugnanza  ai  lavori  dell'industria,  l'intolleranza  religiosa, 
la  corruzione  amministrativa  degli  avventurieri  posti  a 
capo  delle  fattorie  commerciali  nelle  colonie,  la  libidine 
del  lucro  rapido,  che  li  indusse  a  voler  escludere  a  forza 
gli  arabi  dal  commercio  indiano  e  ad  instaurare  dapper- 
tutto un  monopolio  geloso  e  sterilizzatore  a  prò  dei  ne- 
gozianti   della    madrepatria. 

Cadde  la  «  più  grande  Spagna  »  e  nella  sua  caduta 
trascinò  con  se  la  madrepatria;  perchè  gli  spagnuoli 
considerarono  le  Americhe  come  un  terreno  da  sfrut- 
tare, come  una  riserva  di  caccia,  dove  gli  indiani  fos- 
sero stati  da  Dio  creati  pef  scavare  Toro  a  prò  dei  do- 


97 


minatori.  La  superstizione  dell'oro  non  produsse  forse 
mai  nella  storia  una  decadenza  altrettanto  tragica  come 
quella  dell'impero  su  cui  il  sole  non  tramontava  mai. 
Lasciate  in  abbandono  le  terre  e  le  industrie,  gli  spa- 
gnuoli  considerarono  come  la  loro  vera  industria  nazio- 
nale quella  del  guadagnare  oro  nelle  Americhe;  e  loro 
accumulato  sperperarono  in  guerre  incessanti  combat- 
tute per  conservare  un  dominio  odioso  in  Italia  e  nei 
Paesi  Bassi  ed  il  predominio  nell'Europa.  Epperciò, 
malgrado  i  galeoni  d'oro  che  formavano  l'invidia  d'Eu- 
ropa, il  tesoro  spagnuolo  era  poverissimo,  gli  abitanti 
della  madrepatria  disusati  al  lavoro  fecondo,  i  coloniali 
malcontenti    e   desiderosi   di   libertà. 

Lo  stesso  sogno  di  supremazia  europea  pèrdette 
l'impero  francese;  a  cui  tuttavia  non  avevan  fatto  di- 
fetto le  concezioni  geniali  dei  Sully  e  dei  Colbert  ed  il 
valore  di  generali  meravigliosi.  Anche  la  Francia  volle 
che  le  colonie  servissero  alla  madrepatria;  pretese  che 
esse  dovessero  fornirle  materie  prime  e  prodotti  colo- 
niali, in  cambio  dei  manufatti,  di  cui  in  patria  si  pro- 
muoveva l'incremento  con  privilegi  gelosi.  1  francesi, 
come  è  loro  costume  antico,  mandarono  nelle  colonie 
funzionari  numerosi  e  brillanti  ufficiali  di  corte  :  e  per 
correre  dietro  alle  apparenze  dimenticarono  quella  co- 
lonia del  Canada  che  ancora  oggi  è  la  dimostrazione 
vivente  dei  miracoli  che  avrebbe  potuto  compiere  nel 
mondo  la  Francia  religiosa,  prolifica,  patriarcale,  rurale 
dell'antico  regime,  se  la  classe  politica  dirigente  del 
secolo  XVIII  non  fosse  stata  così  inferiore  alla  sua 
missione;  e  se  non  avesse  ritenuto  di  potere  conservare 
con  guerre  incessanti  e  depauperanti  in  Europa  il  do- 
minio   del    mondo. 


—  98  — 

Ne  potè  essere  salvata  dalla  decadenza  «  la  più 
grande  Olanda  »,  a  cui  il  possesso  di  Giava,  Sumatra 
e  delle  isole  della  Sonda  non  basta  a  conservare  lo 
scettro  di  impero  mondiale,  che  per  un  istante  pareva 
avesse  conquistato.  Abitanti  di  un  paese  troppo  piccolo 
per  aspirare  permanentemente  ad  una  grande  situazione 
europea,  privi  dei  caratteri  di  una  nazione  veramente 
autonoma  territorialmente  ed  idealmente,  gli  olandesi 
sovratutto  non  vollero  l'impero,  con  tutte  le  responsa- 
bilità e  gli  oneri  gravissimi  che  esso  comportava.  Essi 
si  preoccuparono  soltanto  di  conservare  quelle  colonie 
da  cui  potevano  ricavare  un  reddito  pecuniario  diretto. 
Ottimi  mercanti;  esperti  e  benemeriti  amministratori 
delle  isole  che  sono  loro  rimaste,  mancarono  dello  spi- 
rito imperialistico,  avventuroso,  idealistico  che  spiega 
il  fiorire  delle  colonie  di  popolamento.  L'Africa  del  Sud 
avrebbe  potuto  essere  una  loro  grande  creazione;  ma 
gli  olandesi  1* abbandonarono  a  se  stessa  e  se  ne  ricorda- 
rono solo,  meravigliando,  nei  giorni  dell'eroica  resisten- 
za boera. 

E  cadde  finalmente  la  «  più  grande  Inghilterra  »  del 
secolo  XVIII;  quella  che  si  era  silenziosamente  e  quasi 
inavvertitamente  formata  sulle  coste  dell'Atlantico  dopo 
il  1600.  Gli  Stati  Uniti  si  separarono  perchè  l'Inghilterra 
del  secolo  XVIII,  l'Inghilterra  di  Giorgio  II  e  di  Gior- 
gio III,  di  Walpole,  di  Lord  North  e  della  Cabala  non 
aveva  nulla  da  dire  agli  uomini  religiosi,  puritani,  che 
da  sé  avevano  assunto  la  missione  di  conquistare  la 
foresta  e  la  prateria  al  regno  di  Dio.  Nessun  vincolo 
ideale  riuniva  i  fondatori  delle  f3  colonie  nord-ame- 
ricane alla  madrepatria;  ed  essi  erano  dntimamente 
scandalizzati  nel  vedere   con   quanta  leggerezza   il  Par- 


—  99  — 

lamento  inglese,  tutto  occupato  intorno  a  piccoli  intrighi 
di  corte  e  di  piazza,  attentava  senza  accorgersene  alle 
loro  franchigie.  Le  casse  di  tè,  che  i  coloni  buttarono 
nel  porto  di  Boston  indicarono  non  solo  che  essi  non 
intendevano  di  pagare  imposte  senza  avervi  prima  dato 
il  loro  consenso;  bensì  anche  che  essi  non  avevano  alcun 
ideale  comune  con  gii  uomini  che  allora  rappresenta- 
vano l'Inghilterra. 

Era  un  conflitto  di  coscienze,  dal  quale  pareva  che 
l'idea  di  un  impero  inglese  non  potesse  più  risollevarsi. 
Per  anni  e  per  decenni  si  credette  in  Inghilterra  che 
non  fosse  ne  possibile  ne  utile  la  conservazione  di  un 
ampio  dominio  coloniale.  Le  colonie  si  consideravano 
come  il  frutto  che,  giunto  a  maturanza,  si  stacca  da  se 
dall'albero  che  gli  ha  dato  vita.  Fatte  adulte  e  robuste 
le  colonie  erano  destinate  a  diventare  indipendenti, 
conservando  con  la  madrepatria  vincoli  puramente 
ideali  e  morali;  ed  il  compito  della  vecchia  Inghilterra 
doveva  essere  quello  di  una  madre  e  nutrice  amorosa, 
paga  di  sacrificare  se  stessa  ai  figli  e  lieta  di  vederli 
sciamare  pel  mondo  in  cerca  di  avventure,  dimentichi 
quasi  di  chi  aveva  loro  dato  e  conservato  la  vita. 

Questa  la  teoria  dominante  dal  giorno  in  cui  l'Inghil- 
terra si  adattò  a  riconoscere  l'indipendenza  delle  colonie 
nord-americane  fino  a  ben  oltre  la  metà  del  secolo  XIX. 
Malgrado  essa,  noi  vediamo  oggi  l'impero  inglese  più 
compatto,  più  unito,  più  conscio  della  necessità  di  con- 
servare e  di  intensificare  i  legami  che  uniscono  le  varie 
sue  parti  quanto  non  sia  stato  mai.  La  «  più  grande 
Inghilterra  »  del  secolo  XVIII  è  scomparsa;  ed  al  posto 
di  essa  sono  sorti  due  grandi  imperi,  tra  i  maggiori  che 
mai  si  siano  visti  nella  storia  :  gli  Stati  Uniti  e  l'impero 


—  100  — 

inglese.  Come  accadde  il  miracolo  della  risurrezione 
di  questa  che  parve  140  anni  fa  una  cosa  morta;  e  quali 
sono  le  ragioni  per  cui  gli  uomini,  che  vivono  nell'im- 
pero, sono  concordi  nel  volerlo  rendere,  per  quanto 
è  possibile  in  loro,  più  solido  e  più  forte?  Gli  imperi 
portoghese,  spagnuolo,  olandese,  francese  ed  inglese 
dei  secoli  XVI,  XVII  e  XVIII  caddero  tutti  per  cause 
interne.  L'urto  che  venne  dal  di  fuori  affrettò  soltanto 
un  processo  di  dissoluzione  che  si  era  iniziato  ed  aveva 
fatto  grandi  progressi  all'interno.  Potrà  darsi  che  sta- 
volta l'impero  inglese  cada  soltanto  per  l'urto  esteriore 
di  una  infelice  battaglia  navale,  la  quale  tolga  agli  in- 
glesi il  dominio  del  mare.  Ma  è  certo  che  un  disastro 
navale  inglese  sembrerebbe  corrispondere  ad  una  ne- 
cessità storica,  parrebbe  lo  strumento  fatale  dell'attua- 
zione di  un  nuovo  ideale  umano  solo  quando,  come 
dicono  i  teorici  tedeschi,  l'impero  inglese  fosse  una 
maschera  vuota;  una  cosa  vana  e  falsa,  senza  eco  nel 
cuore  degli  uomini.  Perchè  gli  uomini  oggi  non  sono 
disposti  a  salutare  il  giorno  del  disastro  navale  inglese, 
come  quello  della  liberazione  dal  dominio  della  falsità 
e   dell 'irrealità? 

Procurerò  di  esporre,  ordinatamente,  i  principali  tra 
i  perchè  di  questo  problema  storico,  che  tanto  appas- 
siona inglesi  e  tedeschi  e,  di  riverbero,  non  può  essere 
indifferente   a  noi. 

Una  prima  caratteristica  dell'Impero  inglese  è  che 
esso  non  si  estende  al  continente  europeo.  Dopo  l'ama- 
rissima  esperienza  della  guerra  dei  100  anni  invano 
durata  fino  al  1453  per  soggiogare  la  Francia,  l'Inghil- 
terra ha  abbandonato  ogni  sogno  di  conquiste  imperiali 
europee.    Conserva   qualche   rupe    e    qualche    isola,    che 


—  IO!  — 

ritiene  necessarie  per  la  libertà  delle  sue  comunicazioni 
marittime;  ma  ha  restituito  le  isole  Jonie  alla  Grecia; 
ria  evacuato  la  Sicilia  e  la  Spagna;  ha  venduto  Heligo- 
land.  Continua  a  combattere  nelle  guerre  europee  e 
spesso  è  avversario  temibilissimo  fra  tutti,  come  nelle 
guerre  contro  Luigi  XVI,  contro  Napoleone  ed  oggi 
contro  la  Germania.  Ma  il  suo  scopo  non  è  di  conqui- 
stare un  dominio  su  altri  popoli  europei;  bensì  di  im- 
pedire che  uno  degli  Stati  d'Europa  acquisti  il  predo- 
minio sugli  altri;  il  che  vorrebbe  dire  a  breve  o  lunga 
scadenza  l'annientamento  della  sua  potenza  navale  e 
quindi  del  suo  impero  extra-europeo.  Così  operando, 
l'azione  oramai  secolare  dell'Inghilterra  coincide  con 
l'interesse  comune  di  tutti  i  popoli  d'Europa,  salvo  di 
quell'uno  che  vorrebbe  acquistare  il  predominio  sugli 
altri. 

Un'altra  caratteristica  dell'impero  britannico,  che 
strettamente  si  allea  con  quella  ora  ricordata  ed  è  an- 
ch'essa negativa,  si  è  che  esso  non  è,  a  parlar  propria- 
mente, un  impero.  Il  concetto  di  un  impero  non  si  dis- 
socia dall'idea  di  una  dominazione  di  un  popolo  su  altri 
popoli  soggetti  ad  un'unica  amministrazione  centrale; 
in  cui  tutte  le  parti  obbediscono,  almeno  nelle  linee 
generali,  ad  una  volontà  comune,  a  cui  non  possono 
sottrarsi  se  non  con  una  aperta  ribellione.  Nulla  di  tutto 
questo  nell'impero  inglese;  di  cui  le  parti  vivono  di- 
sunite ed  indipendenti  tra  di  loro;  senza  neppure  l'ob- 
bligo, almeno  per  il  più  gran  numero  delle  colonie,  che 
sono  quelle  autonome,  di  soccorrere  la  madrepatria  nei 
momenti  di  guerra.  Il  Canada,  l'Australia,  la  Nuova 
Zelanda,  l'Africe.  del  Sud  sono  venute  in  soccorso  del- 
l'Inghilterra perchè  così  esse  vollero;  e  non  perchè  così 


—  102  — 

potesse  loro  comandare  la  madrepatria.  La  ribellione  di 
alcuni  gruppi  di  boeri  nel  Sud  Africa  non  sarebbe  stata 
una  ribellione  se  il  governo  del  Sud  Africa  non  avesse 
liberamente  deciso  di  prendere  le  parti  dell'Inghilterra. 
Se  il  governo  sud-africano,  che  emana  dalla  maggioran- 
za boera  del  Parlamento  locale,  avesse  creduto  oppor- 
tuno di  incrociare  le  braccia,  la  guerra  non  sarebbe  stata 
proclamata  nel  Sud  Africa  e  la  ribellione  non  sarebbe 
sorta.  Tutto  ciò  è  poco  imperiale,  poco  euritmico  e  fa 
senso  a  chi  pensi  ad  un  impero  nella  maniera  solita; 
mentre  non  meraviglia  chi  ricordi  di  trovarsi  di  fronte 
ad  una  agglomerazione  di  Stati,  uniti  da  una  vaga  pro- 
fessione di  fedeltà  al  medesimo  sovrano,  e  tenuti  in- 
sieme da  vincoli,  che  sono  fortissimi  e  di  fatto  spingono 
ad  un'azione  comune  e  fìnanco  ad  una  guerra  combat- 
tuta solidari  amente,  solo  perchè  trattasi  di  vincoli  non 
legali,  sibbene  morali  e  spirituali.  Ciò  che  fa  esistere 
questa  entità  indefinibile  e  strana  non  è  la  forza  delle 
leggi  o  delle  armi,  ma  il  sentimento  di  una  unità  im- 
periale. 

L'impero  —  ed  è  questa  un'altra  delle  sue  caratte- 
ristiche essenziali,  forse  quella  che  dà  più  ai  nervi  ai 
grandi  teorici  tedeschi,  i  quali  concepiscono  la  missione 
della  Germania  al  dominio  mondiale  come  la  attuazione 
di  un'idea  organica  ed  organizzatrice  di  incivilimento 
che  la  Germania  deve,  anche  colla  forza,  far  trionfare 
sistematicamente  sulla  terra  —  è  sorto  per  caso.  Fu  per 
caso  che  alcuni  gruppi  di  puritani  e  di  quacqueri,  per 
fuggire  all'oppressione  religiosa  in  patria,  si  rifugiarono 
nei  territori  deserti  del  Nord-America.  Perdute  le  13 
colonie,  per  caso  si  scopri  che  il  Canada,  conservato 
sopratutto  per  la  repugnanza  di  parte  dei  coloni  inglesi 


103 


ad  abbandonare  la  madrepatria,  era  un  paese  di  grande 
avvenire.  Il  Sud  Africa  fu  il  prezzo  di  baratti  accidentali 
durante  le  grandi  guerre  napoleoniche  e  poco  mancò 
fosse  dato  alla  Svezia.  Ancora  :  l'Australia  presa  per 
fame  una  colonia  di  deportati;  la  Rodesia  conquistata 
da  un  uomo,  Cecil  Rhodes,  in  mezzo  all'apatia  ed  al- 
l'avversione della  madrepatria;  la  Nigeria  e  l'Africa 
Orientale  dovute  all'iniziativa  indipendente  di  Sir  Geor- 
ge Taubman  Goldie  e  di  Sir  W.  Mackinnon.  Persino 
l'India,  la  maggiore  delle  colonie  inglesi,  non  fu  dovuta 
ad  un'opera  deliberata  del  governo  britannico.  Furono 
compagnie  di  avventurieri,  in  lotta  con  avventurieri 
portoghesi  e  francesi  che,  profittando  della  dissoluzione 
dell'impero  del  Gran  Mogol  conquistarono  alla  madre- 
patria questo  immenso  dominio.  Fnchè  durò  la  conqui- 
sta, fino  al  celebre  ammutinamento  del  1857,  per  un 
secolo  quasi  non  si  trovano  traccie  nel  bilancio  dello 
Stato  inglese  di  spese  fatte  per  la  conquista  dell* India. 
Sorto  senza  una  teoria,  l'impero  inglese  vive  sovratutto 
grazie  al  sentimento  della  convenienza  dei  suoi  abitanti 
di  conservare  reciproci  legami  politici  e  della  necessità 
di  formare  una  unità  politica  più  vasta  di  quella  dei 
singoli  Stati  sostanzialmente  indipendenti  che  formano 
l'impero. 

Uno  dei  motivi  che  hanno  spinto  questi  popoli  ad 
un'azione  comune  e  che  li  tengono  legati  strettamente 
tra  di  loro  è  l'appartenenza  alla  medesima  schiatta  in- 
glese. Il  fondo  della  popolazione  bianca  del  Canada, 
della  Federazione  australiana,  della  Nuova  Zelanda, 
della  Federazione  sud-africana  è  inglese;  il  che  spiega 
come  quegli  Stati  sentano  il  bisogno-  di  tenersi  stretti 
alla  madrepatria  per  averne  protezione   e   difesa  e  per 


—  104  — 

avere  la  sensazione  di  partecipare  alla  vita  morale,  po- 
litica, religiosa  di  una  grande  nazione.  Non  si  tratta  più, 
come  nel  secolo  XVII  per  le  colonie  nord-americane, 
di  gente  la  quale  sia  fuggita  dalla  madrepatria  perchè 
aveva  un  ideale  di  vita  diverso  da  quello  ivi  dominante. 
L'ideale  nazionale  è  sempre  anglo-sassone  e  gli  abitanti 
di  quelle,  che  noi  chiamiamo  colonie  inglesi  ma  sono 
in  realtà  Stati  liberi  facenti  parte  dell'impero  inglese, 
lo  vogliono  far  trionfare  nel  mondo  e  sentono  perciò  la 
necessità  di  una  stretta  comunanza  di  rapporti  con  la 
madrepatria  e  con  gli   altri   Stati   dell'impero. 

Vero  è  che  nell'impero  vi  sono  altri  nuclei  di  popo- 
lazione non  anglo-sassone;  di  cui  i  più  interessanti  sono 
i  Franco-Canadiani  del  Canada,  i  boeri  del  Sud  Africa 
e  gli  Indiani.  Ma  il  modo  con  cui  queste  popolazioni 
estranee  alla  razza  britannica  sono  tenute  fedeli  all'im- 
pero è  una  delle  più  singolari  caratteristiche  di  questa 
formazione  storica.  Esso  si  può  riassumere  tutto  nel 
rispetto  illimitato,  spinto  talvolta  fino  alla  esagerazione, 
delle  tradizioni  di  razza  e  di  cultura,  e  delle  autonomie 
e  libertà  locali.  È  difficile  trovare  una  popolazione  più 
lealista  dei  franco-canadesi,  ai  quali  le  leggi  riconoscono 
l'uso  della  lingua  e  del  diritto  francesi,  istituzioni  par- 
ticolari amministrative,  pienissima  libertà  di  governo 
locale  e  perfetta  parificazione  nel  governo  federale.  È. 
difficile  sottrarsi  all'impressione  che  i  franco-canadesi 
abbiano  goduto,  sotto  il  cosidetto  domnio  inglese,  di 
una  più  ampia  libertà  ed  autonomia  che  non  i  francesi 
in  Francia;  e  che  per  vari  rispetti  il  franco-canadese  sia 
un'individualità  altrettanto  originale  e  potente  come  il 
francese  della  madrepatria.  Né  possiamo  dimenticare 
come   il   primo   atto   compiuto  nel   Sud  Àfrica   dalla  na- 


—  105  — 

zione  dominatrice,  dopo  la  vittoria  cruenta  e  vogliamo 
anche  ammettere  odiosa,  sia  stata  la  concessione  della 
più  larga  ed  assoluta  libertà  di  governo  e  di  ammini- 
strazione ai  boeri.  Cosicché  si  potè  affermare  a  ragione 
che  una  guerra,  intrapresa  per  dare  agli  inglesi,  che  già 
lo  avevano  nel  Capo  e  nel  Natal,  il  predominio  anche 
nel  Transvaal  e  nell'Orange,  per  sottrarre  le  miniere 
d'oro  alle  imposte  eccessive  boere  e  per  aumentare 
quindi  i  profitti  degli  azionisti  inglesi  auriferi  ebbe  per 
effetto  invece  :  la  estensione  del  dominio  della  maggio- 
ranza boera  dal  Transvaal  e  dall' Orange  anche  al  Capo 
ed  al  Natal,  essendosi  le  quattro  colonie  riunite  in  una 
sola  federazione»  il  cui  governo  è  boero;  la  permanenza 
e  l'incremento  delle  imposte  preesistenti  e  la  diminu- 
zione dei  profitti  delle  miniere  aurifere. 

Non  voglio,  neppure  di  passata,  discutere  e  risolvere 
il  gravissimo  problema  indiano,  problema  dalle  mille 
faccie,  avere  affrontato  il  quale  costituirebbe  da  sola 
la  gloria  di  un  popolo.  E'  però  probabile  che  se  la  pax 
britannica  riuscirà  un  giorno  a  ridestare  il  sentimento, 
oggi  inesistente,  di  una  nazionalità  indiana  tra  il  con- 
glomerato di  genti  innumeri,  varie  per  razza,  per  reli- 
gioni, per  lingua,  per  costumanze  che  compongono 
l'India,  il  miracolo  si  sarà  adempiuto  perchè  l'Inghil- 
terra avrà  tenuto  fede  al  programma  suo  tradizionale 
di  rispettare  le  costumanze,  le  fedi,  il  diritto,  i  regimi 
dei  popoli  viventi  all'ombra  della  sua  bandiera.  Nessuno 
può  oggi  preveder  se  gli  inglesi  riusciranno  a  risolvere 
il  problema  indiano;  certo  è  che  finora  nessuno  dei 
popoli  dominatori,  che  l'India  ebbe,  fece  tanti  sforzi 
e  così  ostinati  e  sinceri  per  risolverlo  secondo  lo  spirito 
e   le   aspirazioni   dell'India   medesima.    Gli   scrittori    ger- 


—  106  — 

manici  fanno  gran  colpa  agli  inglesi  di  non  essere  riu- 
sciti a  creare  nell'India  una  religione  nuova,  che  desse 
una  impronta  originale  e  progressiva  a  quella  antichis- 
sima civiltà.  Creda  chi  vuole,  dopo  l'insuccesso  italiano 
del  Sacro  Romano  impero  germanico,  e  dopo  la  larga 
eredità  di  effetti  lasciata  dagli  austriaci  nel  Lombardo- 
Veneto,  alla  capacità  dei  tedeschi  di  guadagnare  le 
popolazioni  soggette  ai  loro  ideali  spirituali;  ma  ci  con- 
senta di  considerare  preferibile  il  metodo  inglese,  il 
quale  permette  alle  popolazioni  dell'India  di  svilupparsi 
secondo  i  propri  ideali  e,  mantenendo  la  pax  britan- 
nica, si  sforza  di  introdurre  solo  quelle  idee  occiden- 
tali che  gli  indiani  volontariamente  sono  disposti  ad 
accogliere. 

*** 

Coloro  che  guardano  soltanto  alle  piccole  cose,  si 
compiacciono  di  affermare  che  l'Inghilterra  sfrutta 
l'India  o  l'Egitto  o  qualche  altra  colonia  perchè  queste 
debbono  pagare  stipendi  non  piccoli  ai  proconsoli  ed 
ai  funzionari  inglesi  che  sono  inviati  dalla  madre- 
patria per  l'amministrazione  coloniale;  ed  in  aggiunta 
debbono  loro  pagare  larghe  pensioni  quando  essi  si  ri- 
tirano a  riposo.  Sarebbe  questo,  in  ogni  caso,  Y unico 
tributo  che  l'Inghilterra  preleva  sulle  colonie,  anzi  sulle 
sole  colonie  della  corona;  poiché  nelle  colonie  auto- 
nome l' unico  funzionario  inglese  inviato  dalla  madre- 
patria e  pagato  sul  bilancio  delle  colonie  è  il  Viceré 
o  Governatore,  figura  puramente  rappresentativa  e 
senza  alcun  potere  reale.  Ma  anche  quello  non  è  un 
tributo;  poiché  per  considerarlo  tale  farebbe  d'uopo 
supporre  che  i  servigi  forniti  dai  funzionari  inglesi  non 


—  107  — 

valessero  almeno  quanto  gli  stipendi  e  le  pensioni  pa- 
gati dalle  colonie. Il  che,  chiunque  conosca  quanto  più 
costassero  i  ceti  dominanti  indigeni  prima  della  con- 
quista inglese  e  quanto  rendessero  di  meno,  non  potrà 
ammettere  mai. 

La  vera  caratteristica  sostanziale  dei  rapporti  eco- 
nomici e  finanziari  fra  la  madrepatria  e  le  colonie  in- 
glesi è  un'altra  :  la  madrepatria  deve  essere  disposta 
sempre  a  subire  dei  sacrifici  a  favore  delle  colonie. 
Questa  è  l'aurea  massima  che  ha  consentito  finora  al 
nuovo  Impero  inglese  di  durare  :  la  madrepatria  deve 
tutto  alle  colonie;  le  colonie  non  devono  essere  obbli- 
gate a  dare  nulla  alla  madrepatria.  Per  avere  violato 
questa  norma  fondamentale  cadde  il  più  grande  Porto- 
gallo, cadde  la  più  grande  Spagna,  e  caddero  le  più 
grandi  Olande,  Francie  ed  Inghilterre  dei  secoli  scorsi. 
Io  non  voglio  fare  un  merito  all'Inghilterra  di  oggi  di 
avere  spontaneamente  applicata  la  regola  aurea;  ma  è 
certo  che  essa  ha  appreso  assai  bene  la  lezione  della 
amara  esperienza  della  perdita  delle  colonie  nord- 
america.  Da  quando  essa  dovette  consentire  alla  in- 
dipendenza degli  Stati  Uniti,  l'Inghilterra  si  convinse 
che,  per  conservare  le  colonie,  non  v'era  che  un  solo 
mezzo  :  essere  sempre  pronta  a  spendere  largamente 
per  la  loro  protezione  navale  e  militare  e  per  le  opere 
ncessarie  al  loro  attrezzamento  economico;  ma  non  ri- 
chiedere in  cambio  alcuna  restituzione,  sotto  forma  di 
tributi  o  di  preferenze  economiche  a  proprio  vantag- 
gio. Non  solo  le  colonie  inglesi  non  pagano  un  cen- 
tesimo di  tributo  alla  madrepatria  e  questa  sostiene  al 
contrario  da  sola  il  carico  di  spese  militari,  navali  e  di 
interessi   di    debiti   pubblici    contratti   per   la   protezione 


—  106  — 

dell'impero;  ma  l'Inghilterra  ha  consentito  alle  coionie 
autonome  la  più  ampia  facoltà  di  maltrattare  con  dazi 
protettivi  le  merci  provenienti  dalla  madrepatria.  Am- 
maestrata dagli  insuccessi  antichi  del  regime  di  prefe- 
renze doganali  l'Inghilterra  non  soltanto  consente  alle 
colonie  di  respingere  con  dei  dazi  le  sue  merci;  ma  non 
pretende  neppure  di  ottenere  alcuna  preferenza  in  con- 
fronto alle  merci  tedesche,  italiane,  francsi,  nord- 
americane. Le  colonie  autonome,  ossia  sovr atutto  il 
Canada,  l'Australia,  la  Nuova  Zelanda  e  l'Africa  del 
Sud,  essendo  praticamente  degli  Stati  indipendenti, 
possono  applicare  a  favore  o  contro  l'Inghilterra  i  dazi 
che  esse  credono  più  opportuni.  E  se,  in  questi  ultimi 
anni,  grazie  al  crescente  movimento  di  solidarietà  fra 
le  parti  dell'Impero,  le  colonie  autonome,  pure  tas- 
sando fortemente  le  merci  inglesi,  si  decisero  a  tassarle 
alquanto  meno  delle  altre  merci  straniere,  ciò  accadde 
spontaneamente,  per  iniziativa  libera  dei  parlamenti 
coloniali. 

Io  non  dico  che  la  lezione  della  rovina  dei  grandi 
imperi  portoghese,  spagnuolo,  olandese,  francese  ed 
inglese  dei  secoli  scorsi  fosse  molto  difficile  ad  appren- 
dersi; il  buon  senso  dimostrando  che,  a  rendere  le  co- 
lonie fedeli  ed  affezionate,  giova  grandemente  il  dar 
molto  e  il  non  imporre  nessun  tributo  in  cambio.  È  in- 
dubitato però  che  quella  lezione  non  fu,  per  sua  di- 
sgrazia, appresa  dalla  Francia,  quando  dopo  il  1870 
ricostituì  un  impero  coloniale,  ed  è  certo  che  la  Spagna 
perdette  gli  ultimi  residui  delle  sue  colonie  ed  il  Por- 
togallo sta  apprestandosi  la  fossa  perchè  non  vollero 
convincersi  che  gli  imperi  si  costruiscono  e  si  manten- 
gono  con   sacrifici   continui,    mentre   i   benefici   possono 


—  109  — 

essere  solo  indiretti  ed  ottenuti  per  lo  spontaneo  con- 
senso delle  colonie.  E  poiché  dovere  di  chi  scrive  è 
di  usare  la  più  stretta  giustizia  verso  tutti,  giova  no- 
tare che  lo  Stato  libero  del  Congo  è  la  dimostrazione 
chiarissima  che  la  politica  inglese  della  porta  aperta  è 
considerata  oramai  dagli  Stati  europei  come  l'ottima 
fra  tutte;  e  si  deve  aggiungere  che  la  Germania  rese 
omaggio  alla  dottrina  britannica  quando,  con  imperi- 
tura sua  benemerenza,  ottenne  che  il  Marocco  fosse 
un  paese  aperto  a  tutte  le  importazioni  straniere  a  pa- 
rità  di   condizioni. 

*** 

Su  questi  fondamenti  ed  in  virtù  di  queste  idee 
fondamentali  di  libertà,  di  autonomia,  di  rispetto  illi- 
mitato alla  lingua,  agli  usi,  alle  leggi  dei  paesi  assog- 
gettati sorse  l'Impero  inglese.  Su  questo  fondamento, 
quello  che  era  un  conglomerato  di  Stati  indipendenti 
sta,  sotto  i  nostri  occhi,  trasformandosi  in  un  vero  im- 
pero. Perchè  quella  parola  «  impero  »,  la  quale  fino 
a  qualche  anno  addietro  non  aveva  quasi  significato, 
sta  ora  acquistandolo.  Quei  popoli  diversi,  a  cui  l'In- 
ghilterra aveva  dato  un'indipendenza  pratica  assoluta 
ed  insieme  l'esenzione  da  ogni  peso  tributario  per  la 
difesa  della  indipendenza  medesima,  cominciarono  ad 
avere  vergogna  di  se  stessi.  Come,  essi  dissero,  pos- 
siamo noi  continuare  a  godere  della  protezione  della 
flotta  e  dell'esercito  britannici  contro  gli  assalti  dei  ne- 
mici stranieri,  senza  contribuire  in  nulla  alle  spese  del 
mantenimento  della  flotta  e  dell'esercito?  Appena 
posto  il  quesito,  la  situazione  di  sfuttatori  della  madre- 
patria parve   alle  colonie  libere   insopportabile. 


—  110  — 

Ma  il  problema  era  irto  di  difficoltà;  perchè  non 
parve  possibile  una  contribuzione  delle  colonie  alle 
spese  imperiali  comuni  senza  una  partecipazione  delle 
colonie  nel  governo  dell'Impero.  Se  la  costituzione  del- 
l'impero inglese  fosse  il  prodotto  intellettuale  di  una 
congrega  di  dotti  o  il  frutto  della  conquista  di  un  po- 
polo dominante,  il  problema  sarebbe  stato  facilmente 
risolubile.  Fu  relativamente  facile  dare  una  costituzione 
al  rinnovato  impero  germanico  nelle  sale  di  Versaglia, 
in  seguito  ad  una  guerra  vittoriosa.  Dare  una  costitu- 
zione all'impero  inglese  è  sommamente  difficile;  per- 
chè si  tratta  di  creare  organi  nuovi  di  governo  per  un 
impero  che  non  ha  finora  alcun  organo  comune,  ser- 
bando nel  tempo  stesso  l'indipendenza  reciproca  sia 
della  madrepatria  che  delle  colonie  autonome  e  te- 
nendo conto  anche  della  situazione  singolarissima  del- 
l'India e  delle  colonie  della  corona.  Come  al  solito,  gli 
inglesi  cercano  di  risolvere  il  problema  alla  meglio,  con 
temperamenti  pratici,  senzia  costruire  nessuna  nuova 
teorìa  alla  maniera  tedesca  o  francese.  Che  cosa  na- 
scerà fuori  dalle  conferenze  imperiali  dei  primi  mi- 
nistri inglesi  e  coloniali  che  si  vanno  periodicamente 
convocando  e  costituiscono  l'iniziale,  informe  e  finora 
unico  organo  di  governo  comune  imperiale,  non  si  sa. 
Forse  è  inutile  preoccuparsi  di  prevederlo,  perchè  la 
nuova  costituzione  imperiale  probabilmente  non  sarà 
mai  scritta  in  uno  statuto,  ne  potrà  dare  occasione  a 
nessuna  elegante  ed  euritmica  costruzione  di  diritto 
pubblico  alla  foggia  germanica.  Sarà  una  costituzione 
formatasi  gradualmente,  quasi  a  caso,  per  rispondere 
a  bisogni  immediati,  rafforzata  dall'interesse  degli  Stati 
confederali,  cementata  dal  sentimento  e  dalla  consue- 
tudine.   Sarà   una   cosa  bizzarra   ed   irregolare;   un   per- 


fezionamento    di    quella    magnifica    creazione    spontanea 
che  è  l'attuale  impero  britannico. 

Anche  esso,  forse,  quando  gli  inglesi  avranno  per- 
duto le  loro  virtù  odierne  e  quando  la  dissoluzione  in- 
terna sarà  cominciata,  andrà  col  tempo  distrutto.  Nes- 
sun impero  è  perpetuo.  Sulle  rovine  dell'impero  in- 
glese forse  sorgeranno  altri  imperi  più  belli,  più  utili 
all'umanità.  Se  in  quel  giorno  gli  italiani  avranno  sa- 
puto perfezionare  se  stessi  ed  acquistare  le  energie 
intime  che  creano  i  grandi  imperi,  essi  dovranno  ri- 
cordarsi che  il  loro  orgoglio  maggiore  dovrà  consistere 
nel  creare  un  tipo  di  organizzazione  politica  più  per- 
fetto e  più  alto  dell' impero  inglese.  Poiché  questo  e 
non  il  Sacro  Romano  Impero  e  non  l'Impero  Germa- 
nico odierno  e  non  lo  Stato  francese  napoleonico  è  il 
vero  erede  spirituale  ed  il  perfezionatore  della  più  bella 
creazione  politica  che  il  mondo  abbia  visto  :  l'impero 
romano.  Al  pensiero  che  un  disastro  navale  dovuto  alla 
fortuna  di  guerra  può  mettere  in  forse  il  processo  stu- 
pendo di  cementazione  politica  dell'impero  britannico, 
il  quale  si  sta  oggi  compiendo  e  che  è  straordinaria- 
mente accelerato  dalla  guerra  ci  stringe  il  cuore.  Poiché 
quel  disastro  navale  sarebbe  un'offesa  alla  civiltà:  e  noi 
italiani,  se  vogliamo  conservare  la  speranza  di  essere 
un  giorno  i  creatori  di  una  nuova  civiltà  più  perfetta, 
abbiamo  bisogno  che  si  rafforzino  nel  mondo  le  forme 
più  perfette  e  libere  di  organizzazione  politica  :  tra  le 
quali  niente  di  più  meraviglioso,  di  più  spontaneo,  di 
più  vivo  e  mutevole,  di  più  atto  a  suscitare  la  nostra 
emulazione  e  di  meno  geloso  di  essa,  oggi  esiste  del- 
l'impero   britannico. 

(Dal  Corriere  della  Sera,   18  e  19  gennaio   1915). 


APOLOGIA  DI  WILSON 

Torino,    24    ottobre    1914. 
Caro   Prezzoli™, 

ì'erchè  lei  è  così  ingiusto  verso  il  presidente  Wil- 
son? Per  chiamarlo  «  ipocrita  »  bisognerebbe  dimo- 
strare che  egli  ostenta  sentimenti  onesti,  alti,  umani- 
tari ed  agisce  da  egoista  e  da  cialtrone;  per  dirlo  «  truf- 
fatore all'americana  »  occorrerebbe  che  egli  avesse  car- 
pito il  voto  degli  elettori  americani  ed  il  favore  degli  in- 
genui europei  promettendo,  quando  era  candidato,  di 
agire  in  un  modo  ed  operando  diversamente  quando 
giunse  al  potere. 

1  fatti  non  consentono  finora,  di  esprimere  un  giu- 
dizio di  queso  genere;  ossia  i  fatti  finora  accaduti  (di 
quelli  che  potranno  accadere  in  futuro,  non  so  nulla) 
mi  persuadono  che  sulla  scena  politica  nord-americana 
non  è  comparso,  dopo  Lincoln,  nessun  presidente  così 
sincero,  fedele  ai  propri  programmi,  coraggioso  e  fer- 
vido nell'operare  come  Wilson.  Ignoro  se,  dopo  ed 
astrazion  fatta  da  Cavour,  in  Italia  sia  sorto  un  uomo 
politico  paragonabile  al  signor  Wilson;  ne  se  1* Inghil- 
terra possa  vantare,  dopo  Roberto  Peel  e  Gladstone, 
uomini  da  mettersi  a  pari  di  lui. 

Qui  non  si  tratta  di  simpatie,  ma  di  fatti;  ed  i  fatti 
sono   quattro  :    riforma  della  tariffa     doganale;      riforma 


—  114  — 

della     circolazione      monetaria;     canale     di     Panama     e 
Messico. 

I.  Riforma  della  tariffa  doganale.  —  Da  ventanni 
la  si  aspettava;  e  da  ventanni  tutti  i  partiti  l'avevano 
messa  nel  proprio  programma,  salvo  a  non  fame  nulla 
quando  giungevano  al  potere.  L'ultima  volta  che  i  de- 
mocratici furono  al  governo,  col  presidente  Cleveland, 
—  e  vi  erano  giunti  promettendo  il  ribasso  delle  tariffe 
doganali  affamatoci  —  si  vide  questa  vergogna  indi- 
cibile :  che  il  progetto  originario,  concepito  nel  senso 
di  una  maggiore  libertà  doganale,  venne  per  l'influenza 
degli  interessati,  potentissimi  nella  stampa  e  nei  cor- 
ridoi della  Camera  e  del  Senato,  imbrogliato  in  modo 
da  cagionare  un  aumento  della  protezione.  I  due  ultimi 
presidenti  repubblicani  non  avevano  osato  affrontare  il 
problema  :  Taft  era  debole  e  Roosevelt  preferiva  ap- 
prestarsi a  fare,  tra  una  presidenza  ed  una  campagna 
elettorale,  il  domatore  dei  leoni  ed  il  nemico,  frattanto 
ed  a  parole,  dei  trusts,  guardandosi  però  bene  di  mi- 
narne il  piedistallo  e  cioè  la  tariffa  doganale.  Il  signor 
Wilson,  un  semplice  professore,  arrivato  da  pochissimi 
anni  nella  politica,  promise  agli  elettori  che  avrebbe 
ribassato  le  tariffe.  E  mantenne.  Assunse  l'ufficio  il 
4  marzo  1913  e  nell'autunno  del  1913  la  tariffa  era  ri- 
bassata. Nessuno  credeva  che  ci  sarebbe  riuscito.  Do- 
vette far  star  a  segno  il  turbolento  Senato  minacciando 
e  facendo  eseguire  inchieste  sul  modo  con  cui  gli  in- 
dustriali protetti  si  procacciavano  i  voti  dei  senatori. 
La  riforma  di  Wilson  non  è  ancora  il  libero  scambio 
puro;  ma  non  lo  erano  nemmeno,  da  sole  e  in  sul  prin- 
cipio, le  riforme  di  Huskisson,  di  Peel  e  di  Cavour. 
È  certo  però   che   egli   in  pochi  mesi  ha  fatto  nel   suo 


—  1 15  — 

paese    fare    all'idea  più   cammino    di   quanto   non    aves- 
sero fatto  più  generazioni  di  politicanti. 

II.  Riforma  della  circolazione  monetaria.  —  È  un 
argomento  tecnico,  non  facile  a  spiegarsi  in  breve;  e  su 
cui  è  inutile  diffondersi  qui.  Basti  dire  che  se  la  riforma 
tariffaria  fu  opera  grande,  questa  fu  forse  ancor  più 
grande.  La  legislazione  monetaria  nord  americana  era 
una  cosa  deplorevole.  In  tempi  difficili,  di  guerra  e  di 
crisi  economica,  provocava  il  panico,  demoralizzava  le 
borse  ed  il  commercio;  arrestava  la  vita  economica.  Da 
anni,  da  decenni,  tutti  ne  erano  persuasi;  tutti  grida- 
vano che  bisognava  riformare.  Ma  nessuno  osava  far 
niente.  Il  sistema  vigente,  dannoso  ai  più,  era  utile  ad 
alcuni   pochi. 

II  signor  Wilson  promise  di  far  qualcosa;  e  man- 
tenne la  parola.  In  questi  mesi  si  stanno  appunto  già 
organizzando  le  banche  di  riserva,  che  egli  riuscì  a  far 
votare  dal  Congresso  e  che  sono  il  nucleo  di  tutta  una 
nuova  organizzazione  bancaria  e  monetaria  più  agile, 
più  perfetta,  più  adatta  ai  bisogni  del  paese.  E  tutti 
sono  persuasi  che  senza  la  fermezza  di  volontà,  la  capa- 
cità di  persuasione,  la  dirittura  del  carattere,  la  noncu- 
ranza di  tutto  ciò  che  è  parlamentarismo,  amore  della 
vita  tranquilla,  politica  di  corridoio,  che  sono  caratteri- 
stiche del  signor  Wilson,  questa  grande  riforma  non 
sarebbe  un  fatto. 

III.  Canale  di  Panama.  —  In  virtù  del  trattato 
Clayton-Bulwer  del  1850  e  del  trattato  Hay-Pauncefote 
del  1901  gli  Stati  Uniti,  in  compenso  di  importanti  van- 
taggi ottenuti  dall' Inghilterra,  si  erano  obbligati,  qua- 
lora essi  avessero  costruito  un  canale  attraverso  ristmo 
di  Panama,   a  garantire  uguaglianza  di  trattamento  alle 


6  — 


navi  di  tutti  i  paesi  del  mondo.  Quando  il  canale  era 
prossimo  al  compimento,  il  congresso  americano  votò 
ed  il  signor  Taft  sanzionò  il  24  agosto  1912  una  legge 
con  la  quale  si  concedeva  un  trattamento  di  favore  alle 
navi  americane.  Era  una  manifesta  violazione  del  trat- 
tato, violazione  operata  nell'interesse  del  naviglio  ame- 
ricano ed  a  danno  della  bandiera  inglese,  tedesca,  fran- 
cese, italiana  ecc.  ecc.  Ma,  purtroppo,  non  v'era  ri- 
medio. Nessuno  poteva  costringere  gli  Stati  Uniti  a  ri- 
mangiarsi la  legge.  L'Inghilterra  protestò  per  via  diplo- 
matica, invocò  un  arbitrato;  ma  erano  proteste  plato- 
niche. Gli  Stati  Uniti  non  hanno  nulla  da  temere  dal- 
l'Europa; e  se  vi  è  cosa  certa  al  mondo,  è  questa  :  che 
mai  e  poi  mai  l'Inghilterra  oserà  mettersi  in  contrasto 
con  gli  Stati  Uniti.  Sarebbe  la  rottura  sicura  dei  legami 
teorici  che  l'avvincono  ancora  al  Canada. 

Era  però  uno  scandalo  che  gli  Stati  Uniti  mancas- 
sero così  sfrontatamente  alla  parola  data.  Ma  era  uno 
scandalo  voluto.  Il  signor  Taft  aveva  trovato  gli  op- 
portuni protesti  legali;  la  maggioranza  del  Senato 
—  che  in  materia  di  trattati  internazionali  è,  in  virtù 
della  costituzione,  onnipotente  —  gioiva  di  aver  potuto 
fare  un  dispetto  all'Inghilterra;  i  protezionisti  trionfa- 
vano; l'opinione  pubblica  strepitava  al  pensiero  che 
gli  stranieri  (inglesi,  francesi,  italiani  e  via  dicendo)  po- 
tessero passare  attraverso  il  canale  alle  stesse  condizioni 
degli  americani  che  ne  erano  i  costruttori  ed  i  legittimi 
proprietari.  Il  signor  Wilson  pensò  invece  che  qui  si 
trattava  della  firma  del  suo  paese  e  di  un  debito  d'o- 
nore. Gli  Stati  Uniti  avevano  promesso  parità  di  tratta- 
mento a  tutte  le  nazioni  del  mondo.  Gli  Stati  Uniti 
potevano  infischiarsi  della  parola  data  e  ridere  sul  muso 


—  117  — 

ai  diplomatici  protestanti.  Nessuno  avrebbe  torto  un 
capello  ad  un  solo  americano.  Appunto  poiché  nes- 
suno poteva  pretendere  il  mantenimento  della  parola 
data  ed  appunto  perchè  la  maggioranza  della  stampa, 
della  cosidetta  opinione  pubblica  americana,  dei  gin- 
goisti  ecc.  ecc.  plaudiva  al  bello  scherzo  fatto  agli  stra- 
nieri, il  signor  Wilson  presentò  un  disegno  di  legge  per 
revocare  la  legge  Taft.  E  riuscì  a  farlo  approvare.  Oggi, 
grazie  a  lui,  le  navi  italiane,  che  passeranno  attraverso 
al  canale  di  Panama,  pagheranno  le  stesse  tariffe  di 
passaggio  delle  navi  nord-americane.  Una  rivista  inglese 
(non  una  rivista  americana)  commentando  questo  straor- 
dinario risultato,  conclude  :  «  Pagare  i  debiti  d'onore 
è  stato  sempre  fatto  rarissimo  tra  gli  Stati  sovrani.  Colla 
revoca  della  legge  Taft  l'America  ha  dato  un  esempio 
di   condotta   onorevole   e   diritta   al   mondo   civile  ». 

IV.  Messico.  —  Che  cosa  avrebbe  fatto  un  altro  al 
posto  di  Wilson?  È  impossibile  negare  che  il  Messico, 
quando  il  signor  Wilson  venne  al  potere  —  ella  non 
vorrà  chiamarlo  responsabile  degli  atti  dei  suoi  ante- 
cessori ed  avversari  —  era,  rispetto  agli  Stati  Uniti,  un 
vicino  più  fastidioso  della  Serbia  per  l'Austria,  del  Ma- 
rocco per  l'Algeria,  del  Transvaal  per  la  Colonia  del 
Capo.  Gli  abitanti  di  un  paese,  solo  perchè  vi  son  nati 
dentro,  non  possono  pretendere  di  malversare  i  doni 
naturali  che  la  provvidenza  ha  voluto  largire  alle  loro 
terre  ed  essere  una  ragione  perenne  di  pericoli  e  di  di- 
sturbi per  i  paesi  vicini,  i  quali  vorrebbero  conservare 
con  quel  paese  pacifiche  relazioni  di  commercio  e  di 
industria.  Che  cosa  avrebbe  fatto  uno  Stato  Europeo 
potente  che  si  fosse  trovato  vicino  ad  uno  Stato  più 
debole  e  turbolento,  con  l'assoluta  sicurezza  di  non  in- 


18 


contrare  nessuna  opposizione,  neppure  verbale,  da  parte 
di  nessun  altro  Stato  potente?  Sarebbe  saltato  addosso, 
colle  buone  o  colle  cattive,  con  la  forza  o  con  l'astuzia, 
allo  Stato  debole  e  se  lo  sarebbe  annesso  o  ne  avrebbe 
fatto  un  suo  protettorato.  È,  quasi  certo,  date  le  idee 
dominanti  nelle  classi  politiche  europee,  che  la  stessa 
sorte  sarebbe  capitata  al  paese  debole,  anche  se  questo 
fosse  stato  un  modello  di  ordine,  di  buona  amministra- 
zione e  di  compostezza  nei  rapporti  internazionali,  sem- 
pre   fatta    l'ipotesi    della    certezza    dell'impunità. 

Che  cosa  avrebbero  fatto  Taft  e  Roosevelt,  se  si  fos- 
sero trovati  al  posto  di  Wilson?  Avrebbero  colto,  senza 
scrupolo,  i  frutti  della  loro  precedente  politica  rispetto 
al  Messico.  Che  io  mi  sappia,  non  fu  il  Wilson  a  pro- 
vocare la  caduta  di  Porfirio  Diaz  nel  Messico  e  le  sus- 
seguenti rivoluzioni.  Non  fu  egli  ad  incoraggiare  i 
trust  americani  ed  i  soliti  banditi  della  finanza  inter- 
nazionale ad  impiantare  industrie  nel  Messico  per  avere 
il  pretesto  d'invocare  la  protezione  degli  Stati  Uniti. 
Come  si  è  sempre  costumato  dal  governo  nord-ameri- 
cano e  dai  governi  europei,  scoppiati  i  torbidi,  gli  ante- 
cessori di  Wilson  sarebbero  intervenuti  per  chiedere 
enormi  indennità  e  per  trovare  un  pretesto  di  intervento 
e  di  protettorato  nella  incapacità  del  Messico  a  pagare 
senz'altro    tutto    ciò    che    i    nord- americani    chiedevano. 

Che  io  mi  sappia,  il  signor  Wilson  non  ha  fatto  nulla 
di  tutto  questo.  Prima  di  essere  eletto,  egli  aveva  pro- 
clamato che  la  politica  nord-americana  di  tutelare  ed 
appoggiare  le  pretese  dei  suoi  connazionali  nei  paesi 
stranieri  era  falsa  e  dannosa;  ed  aveva  avvertito  gli  elet- 
tori che  l'intervento  doveva  avvenire  secondo  principi 
diversi.   Gli  Stati  Uniti  non   dovevano  cioè  farsi  i  pala- 


—  119  — 

dirvi  dei  loro  nazionali  nella  richiesta  indennità  per  pre- 
tesi malefici  sofferti.  No,  i  nord-americani  dovevano 
sapere  che  andando  al  Messico,  nel  Venezuela,  nel 
Costarica  correvano  i  rischi  del  paese  :  ossia  correvano 
il  rischio  di  governi  cattivi,  di  magistrature  pessime  ecc. 
ecc.  Sapendo  tutto  ciò,  non  potevano  pretendere  dal 
loro  paese  alcuna  tutela  contro  le  conseguenze  inevi- 
tabili di  circostanze  che  dovevano  valutare  prima.  L'u- 
nica ragione  di  lagnanza  che  potevano  avere  i  nord- 
americani nei  paesi  arretrati  era  quella  di  non  essere 
governati  da  governi  indigeni  regolarmente  nominati 
secondo  le  leggi  del  paese.  Di  qui  l'origine  del  contegno 
che  il  Wilson  tenne  in  confronto  al  Messico  :  il  rifiuto 
di  riconoscere  un  governo  che  non  fosse  eletto  secondo 
le  norme  della  costituzione  messicana.  Egli  non  appog- 
giò Carranza  contro  Huerta,  perchè  il  primo  fosse  suo 
amico  ed  il  secondo  no.  Lo  avversò  perchè  Huerta  non 
era  un  presidente  eletto;  ed  egli  voleva  avere  a  che  fare 
con  un  presidente  eletto  secondo  le  norme  del  paese. 
Se  si  guarda  bene,  questo  contegno  non  solo  era  con- 
forme ai  principi  posti  nel  suo  programma  elettorale, 
ma  è  contegno  diametralmente  opposto  agli  interessi 
dei  fautori  dell'intervento  nel  Messico.  Almeno  agli 
Stati  Uniti  lo  interpretano  così;  ed  a  ragione.  I  trusts 
nord- americani,  i  quali  avevano  provocato  e  fomentato 
la  rivolta  nel  Messico,  speravano  che  il  Presidente  in- 
tervenisse e  proclamasse  il  protettorato  od  in  altro  modo 
riducesse  il  Messico  alla  sua  mercè,  allo  scopo  di  poter 
pretendere  indennità  d'ogni  sorta,  concessioni  (di  pe- 
trolio) a  favore  proprio  e  revoche  di  concessioni  agli 
inerì  esi. 


20 


Invece  il  Wilson  ai  fautori  dell'intervento  disse  e  dice 
ancora  :  io  posso  chiedere  e  chiedo  solo  un  governo 
regolare.  Se  poi  questo  governo  regolare  non  vi  darà 
le  indennità  e  le  concessioni  che  desiderate,  ammini- 
strerà una  giustizia  antipatica,  è  affar  vostro,  lo  non 
c'entro.  Non  dovevate  andare  in  un  paese,  che  sapevate 
non   essere    governato   come    il   paese   vostro. 

Che  io  sappia,  questo  è  il  linguaggio  del  Wilson  ai 
gruppi  capitalisti  del  suo  paese.  Le  truppe  nord-ame- 
ricane finora  non  si  sono  mosse  da  Vera-Cruz,  dove 
sono  scese  per  protestare  contro  un  sfregio  alla  bandiera 
nord-americana.  Il  Messico  non  è  una  colonia  degli 
Stati  Uniti;  la  guerra  non  è  scoppiata;  e  non  vi  è  pro- 
babilità che  scoppi.  Proseguono  le  trattative  pacifiche 
per  regolare  il  governo  del  paese.  Indennità  non  sono 
state  chieste  ne  date  ai  privati  industriali  per  danni  ar- 
recati  alle   loro   intraprese. 

Può  darsi  che  la  politica  del  signor  Wilson  rispetto 
al  Messico  muti  in  avvenire.  Se  stiamo  però  ai  fatti 
finora  accaduti,  essa  non  può  essere  giudicata  ne  ipo- 
crita ne  truffatrice.  Gli  imperatori  ed  i  re  ed  i  presidenti 
europei,  che  avevano  l'amore  della  pace  al  sommo  della 
bocca  ogni  altro  giorno,  hanno  scatenato  una  guerra 
terribile;  il  signor  Wilson  che  ha  forse  firmato  qualche 
trattato  di  arbitrato,  ma  non  ha  redatto  troppi  telegram- 
mi pacifici,  finora  ha  cercato  di  non  fare  la  guerra  al 
Messico,  non  ne  ha  distrutta  la  indipendenza  ed  ha 
fatto  tutto  il  possibile  per  promuovere  la  formazione 
di  un  governo  messicano  solido  e  stabile  e  perciò  capace 
di  resistere  alle  pressioni  dei  futuri  presidenti  nord- 
americani. 


12 


Lei  potrà  dire  che  il  principio  di  Wilson  è  ingenuo, 
è  inattuabile,  non  che  il  Wilson  non  abbia  fatto  ogni 
onesto  possibile  sforzo  per  attuarlo.  I  lanzichenecchi 
della  finanza  in  America  dicono  che  il  Wilson  è  un  pro- 
fessore, il  quale  si  è  fisso  in  capo  di  applicare  le  sue 
teorie  anche  al  Messico.  Tutti  coloro,  i  quali  vogliono 
cacciare  le  grinfie  nelle  tasche  altrui,  se  trovano  un  uomo 
di  Stato,  deciso  ad  impedire  le  loro  male  fatte,  dicono 
che  è  un  professore  ed  un  teorico.  Come  se  in  parecchie 
parti  del  mondo,  non  fossero  precisamente  i  professori 
a  fare  d'ogni  erba  fascio,  appena  arrivano  al  potere.  Io 
dico  che  nei  riguardi  del  Messico  il  Wilson  applica  una 
teoria  utile  alle  grandi  masse  nord-americane,  ai  veri 
lavoratori,   commercianti  ed  industriali  degli   Stati  Uniti. 

Quando  egli  dice  di  desiderare  un  governo  onesto 
e  regolare  pel  Messico,  perchè  ciò  darebbe  la  pace  e 
la  ricchezza  ai  messicani,  possiamo  anche  credere  che 
egli  ripeta  un  luogo  comune,  il  quale  fiorisce  sulla  bocca 
di  tutti  i  conquistatori  :  anche  nei.  proclami  odierni 
dei  russi,  degli  austriaci  e  dei  prussiani.  Ma  quando  egli 
afferma  che  tutte  queste  cose  egli  le  vuole  nell'interesse 
della  grande  maggioranza  inconsapevole  e  silenziosa  dei 
suoi  concittadini,  dei  coloni,  degli  industriali,  dei  com- 
mercianti nord-americani  e  le  vuole  in  contrasto  alla 
piccola  minoranza,  potente  e  rumorosa,  dei  cacciatori 
nord-americani  di  concessioni  e  di  privilegi,  noi  dob- 
biamo ammettere  che  qui  si  inizia  uno  sperimento  nuovo 
nella  storia  dei  rapporti  degli  Stati  potenti  con  gli  Stati 
deboli  e  semi-organizzati.  Finora  tanto  il  governo  nord- 
americano come  i  governi  europei  hanno  creduto  che 
fosse  dovere  strettissimo  della  diplomazia  e  delle  armi 
di   difendere   coloro   che   in   Turchia,    in   Cina,    nelle   re- 


—  122  — 

pubbliche  del  centro  e  del  sud  America,  nell'Africa 
avevano  per  fas  o  per  nefas  ottenuto  concessioni  di 
miniere,  di  ferrovie,  di  porti,  di  foreste,  identificando 
1  interesse  di  costoro  con  l'interesse  del  proprio  paese. 
Viene  Wilson  e  dice  :  non  so  se  l'interesse  di  costoro 
sia  la  stessa  cosa  dell'interesse  degli  Stati  Uniti.  Od  al- 
meno so  cne  i  due  interessi  coincidono  solo  in  quanto 
i  concessionari  non  pretendono  privilegi  e  protezione 
per  se  (capitolazioni  in  Turchia),  ma  si  limitano  a  voler 
vivere  sotto  un  governo  regolare,  il  quale  amministri 
secondo  le  leggi  del  paese.  Questo  è  il  solo  interesse 
degli  Stati  Uniti.  Se  i  governi  indigeni  non  piacciono 
ai  miei  concittadini,  se  ne  vadano  via  dal  Messico.  Se 
vogliono  restarci,  procurino  di  agire  dal  "di  dentro,  mi- 
gliorando i  ceti  governanti  e  le  leggi  indigene.  Finche 
i  governi  sono  eletti  nelle  maniere  costituzionali,  io  ri- 
conoscerò i  governanti  indigeni  e  non  mi  lagnerò  del 
modo  da  essi  tenuto  nell' amministrare  le  leggi  del 
paese. 

Chi  parla  ed  agisce  così,  non  può  essere  chiamato 
un  ipocrita.  Potrà  diventarlo  in  avvenire;  ed  io  non 
faccio  nessun  pronostico  al  riguardo,  tanto  più  che  è 
vivissimo  negli  Stati  Uniti  il  malcontento  di  gruppi  po- 
tenti contro  il  Wilson  per  la  sua  condotta  e  potrà  darsi 
che  egli  non  sappia  o  non  possa  resistere  sino  alla  fine 
alla  loro  pressione.  Comunque  vada  a  finire,  lo  speri- 
mento è  degno  della  massima  attenzione  e  del  maggiore 
rispetto.   Non  sembra  anche  a  Lei? 

(Da    La    Voce    ,13    novembre    1914). 


DEMOCRAZIA,  COLLETTIVISMO  E  GUERRA 

Lno  dei  luoghi  comuni,  che  si  sentono  più  comu- 
nemente ripetere  intorno  alla  presente  guerra,  dice  che 
essa  è  una  guerra  combattuta  tra  il  progresso  e  la  rea- 
zione, tra  la  libertà  e  la  schiavitù,  tra  le  nazioni  demo- 
cratiche, dove  al  potere  sono  i  radicali  e  i  radicali-so- 
ciaiisti,  come  la  Francia  e  l'Inghilterra,  e  le  nazioni 
aristocratiche,  come  la  Germania  e  l'Austria,  dominate 
ancora  da  classi  feudali  e  dove  i  partiti  d'avanguardia, 
ossia  i  socialisti,  sono  messi  al  bando  dal  governo. 

È  diffìcile  poter  dare  un  giudizio  sicuro  su  queste 
affermazioni  generiche,  sovr atutto  perchè  è  quasi  im- 
possibile definire  con  precisione  che  cosa  vogliono  dire 
le  parole  «  libertà  »,  «  progresso  »,  «  reazione  »,  «  de- 
mocrazia »,  e  simigliatiti  astrattezze.  Ma  non  è  impos- 
sibile porsi  un  problema  più  concreto,  che  sarebbe  il 
seguente  :  supponendo  che  il  progresso  sia  caratteriz- 
zato dal  passaggio  dalle  idee  e  dai  partiti  di  destra 
alle  idee  e  ai  partiti  di  sinistra,  supponendo  cioè  che  sia 
esatta  la  terminologia  ordinaria  della  maggior  parte  dei 
giornali  italiani  e  dei  loro  lettori,  i  quali  considerano 
un'idea,  un  programma  tanto  più  «  moderno  »,  «  pro- 
gressivo »,  «  avanzato  »,  «  illuminato  »,  quanto  più  si 
avvicina  alle  idee  e  ai  programmi  dell'estrema  sinistra 
e  particolarmente  dei  socialisti, i  quali  formano  l'ala  più 
avanzata  dell'estrema;  supponendo  che  siano  corri- 
spondenti a  realtà  gli  elogi  di  «  audacia  »  e  di  «  moder- 


—  124  — 

nità  »  e  di  «  illuminismo  >>  che  si  rivolgono  dall'opinione 
pubblica  ordinaria  agli  uomini  di  governo  conservatori, 
i  quali  fanno  proprio  il  programma  dei  socialisti  o  ta- 
luni punti  di  esso  e  dimostrano  così  che  il  socialismo 
non  è  un  appannaggio  esclusivo  dei  socialisti,  ma  quel 
che  c'è  di  buono  in  esso,  e  sarebbe  quasi  tutto  —  salvo 
la  violenza,  la  rivoluzione,  la  lotta  di  classe,  salvo  cioè 
i  mezzi  per  ottenere  il  fine  —  è  un  ideale  comune  a  tutti 
i  partiti;  supponendo  tutto  questo,  che  oramai  è  patri- 
monio del  pensiero  democratico  più  avanzato;  quale 
dei  due  gruppi  combattenti,  il  blocco  austro-tedesco  o 
la  triplice  intesa,  si  avvicina  maggiormente  alla  conse- 
cuzione dell'ideale  sovra  menzionato  e  deve  quindi 
essere  reputato  come  il  campione  della  civiltà  e  del 
progresso? 

Naturalmente,  col  porre  il  quesito  in  cotal  maniera, 
non  voglio  affermare  che  quella  posizione  risponda  al 
mio  modo  di  pensare,  né  che  essa  sia  vera  ed  esatta, 
essendo  chiara  invece  l'impossibilità  della  accettazione 
di  quelle  premesse  da  parte  mia.  Voglio  soltanto  porre 
il  problema  in  un  modo  qualunque  che  sia  compren- 
sibile, e  che,  per  la  sua  corrispondenza  al  modo  cor- 
rente e  comune  di  pensare  e  di  parlare  in  Italia,  possa 
farci  alla  meglio  uscire  fuori  dal  complicatissimo  imbro- 
glio di  definire  il  «  progresso  »,  la  «  democrazia  »,  la 
«  modernità  n   e   altrettanti  parole. 


Se  poi  partiamo  da  questa  premessa,  appare  subito 
evidente  che  almeno  una  delle  potenze  appartenenti 
alla  triplice  intesa  deve  essere  senz'altro  esclusa  del  no- 
vero  dei  paesi  progressivi   e   moderni  :    ed   è   la   Russia. 


—  125  — 

Non  perchè  in  Russia  si  adoperi  il  fenur,  o  vi  sia  lo  Zar 
ed  accadano  dei  progroms  di  israeliti.  Tutto  ciò  può 
essere  variamente  giudicato  e  non  può  essere  conside- 
rato come  un  indizio  specifico  di  reazione,  quando  in 
Francia,  a  cui  tutti  guardano  come  all'antesignana  della 
democrazia,  sono  o  erano  prima  della  guerra  in  tanto 
onore  i  progetti  di  cacciata  e  di  persecuzione  fiscale 
degli  operai  stranieri.  L'esilio  e  la  esclusione  dalla  terra 
e  dal  fuoco  sono  sempre  stati  nella  storia  metodi  sim- 
paticissimi alle  democrazie  più  evolute.  La  vera  ragione 
per  cui  non  vi  è  dubbio  che  la  Russia  deve  essere  repu- 
tata un  paese  reazionario  sta  in  ciò,  che  le  classi  domi- 
nanti sono  riuscite  astutamente  a  iniziare  ed  a  condurre 
innanzi  su  vasta  scala  la  distruzione  di  un  istituto  socia- 
listico per  eccellenza  :  la  proprietà  collettiva  della  terra. 
Fino  a  pochi  anni  or  sono  la,  terra  in.  Russia,  per  quella 
parte  che  non  apparteneva  alla  nobiltà  o  allo  Stato  — 
e  quest'ultima,  estesissima,  era  anch'essa  proprietà  col- 
lettiva —  apparteneva  quasi  interamente  ai  mir,  ossia 
alla  collettività  dei  contadini  del  comune,  ed  era  colti- 
vata secondo  regole  collettivistiche.  Attraverso  ai  se- 
coli, i  contadini  russi  erano  riusciti  a  conservare  intatta 
la  fiamma  dell'ideale  collettivo,  ricongiungendo  gli  ul- 
timi e  più  moderni  postulati  della  scienza  occidentale 
coi  mitici  ricordi  dell'età  dell'oro.  Tutto  questo  magnifico 
edificio  va  ora  sgretolandosi  ad  opera  delle  reazionarie 
classi  dominanti;  le  quali,  giovandosi  di  vani  pretesti, 
come  sarebbe  la  mala  coltivazione  dei  terreni  dei  mir, 
approfittarono  del  momento  in  che  dalla  Duma  erano 
stati  espulsi  gli.  spiriti  più  audaci  e  rivoluzionari,  per 
decretare  l'abolizione  del  vincolo  della  proprietà  col- 
lettiva e  per  autorizzare  ed  in   varie   maniere   aiutare   e 


—  126  — 

promuovere  la  divisione  della  proprietà  comune  dei  mir 
in  proprietà  individuali  private  dei  contadini.  Questi, 
avidi  di  terra,  abboccarono  all'amo  teso  loro  dalle  classi 
conservatrici,  vogliose  soltanto  di  creare  attorno  a  sé 
una  guardia  del  corpo  dei  piccoli  proprietari  contro  i 
moti  degli  operai  progressivi  e  industriali  della  città. 
Così  si  sta  oggi  commettendo  il  più  grande  delitto  so- 
ciale del  nuovo  secolo  :  la  distruzione  del  regime  col- 
lettivo della  proprietà  in  Russia.  Quando  i  partiti  socia- 
listi d'avanguardia  prevarranno  in  quel  paese,  dovranno 
durare  sforzi  colossali  per  ricostituire  quegli  istituti  che 
la  reazione  ha  oggi  distrutto.  Come  si  può,  dopo  ciò, 
sostenere   che   la  Russia  sia  un  paese   democratico? 


Tra  l'Inghilterra  e  la  Francia  da  un  lato  e  la  Germa- 
nia e  l'Austria  dall'altro  non  vi  è  possibilità  di  dubbio 
nella  scelta.  Noi  non  possiamo  invero  considerare  come 
antesignani  del  progresso  e  delle  idee  avanzate  quei 
paesi  i  quali  vanno  a  scuola  di  progresso  e  di  socialismo; 
bensì  quelli  che  insegnano  agli  altri  il  verbo  novello  e 
sono  i  pionieri  delle  sue  feconde   applicazioni. 

Ora  è  indubitato  che  non  la  Francia  e  l'Inghilterra 
hanno  insegnato  alcunché  altrui;  sibbene  esse  sono  state 
rimorchiate  dalla  Germania;  ed  è  certissimo  che  la  ini- 
ziatrice delle  riforme  sociali  più  moderne,  la  antesi- 
gnana del  collettivismo  è  la  Germania.  II  generale  von 
Bernhardi  non  è  solo  quando  assevera  che,  per  consenso 
universale,  la  Germania  occupa  il  primissimo  posto, 
innanzi  a  tutte  le  altre  nazioni,  nel  socialismo  scienti- 
fico.  Veramente  il  bravo  generale  attribuisce  alla  Ger- 


—  127  — 

mania  il  primo  posto  nelle  scienze  economiche  Ma  è 
evidente  che  si  tratta  di  un  lapsus  calami  dell'illustre 
scrittore  pangermanista.  È  impossibile  che  egli  potesse 
considerare  degne  di  nota  le  analisi  dei  Gossen,  dei 
Bohm  Bawerk,  dei  von  Wieser,  ecc.,  che  possono  pa- 
rere finissime  solo  ai  seguaci  della  economia  classica 
inglese;  ne  è  presumibile  che  egli  volesse  lodare  le  di- 
mostrazioni, serrate  ed  elegantissime  bensì,  ma  troppo 
intinte  di  manchesterrianismo,  con  cui  il  Dietzel  addi- 
tava i  danni  della  politica  doganale  tedesca  odierna. 
È  chiaro  che  il  Bernhardi  voleva  alludere  a  Carlo  Marx 
ed  ai  suoi  interpreti  e  commentatori  Schmoller  e  Wagner 
e  rispettivi  discepoli,  saliti  agli  onori  delle  cattedre  uni- 
versitarie, grazie  a  quella  intima  fusione,  purtroppo  non 
abbastanza  apprezzata  all'estero,  che  in  Germania  si 
nota  fra  tutte  le  classi  sociali,  per  cui  il  vangelo  delle 
classi  proletarie  è  divenuto  carne  della  carne  della 
scienza  universitaria.  Nella  sola  Germania  è  avvenuto 
che  il  pensiero  economico  si  sia  talmente  imbevuto  di 
socialismo,  da  far  quasi  del  tutto  dimenticare  l'antica  e 
reazionaria  Economia  politica,  ormai  condannata  a  me- 
ritato oblio  e  sostituita)  dalla  nuova  e  moderna  «  scienza 
economica  socialista  »  o,  più  brevemente,  «  socialismo 
scientifico.  Non  l'orgoglio  tedesco,  ma  il  consenso  uni- 
versale addita  nella  Germania  l'innovatrice  profonda  nel 
campo  scientifico  economico  e  l'iniziatrice  delle  riforme 
sociali  più  audaci.  Chi,  se  non  Carlo  Marx,  ha  dimo- 
strato che  la  scienza  economica  inglese  degli  Smith,  dei 
Malthus,  dei  Ricardo,  dei  Senior  era  un  volgare  trucco 
delle  classi  capitalische  e  plutocratiche  per  tenere  a 
bada  nella  miseria  le  classi  proletarie?  Chi,  se  non  Carlo 
Marx,  ha  esposto  la  nuova  teoria  del  valore,  dimostran- 


—  128  — 

do  che  esso  non  ne  altro  che  lavoro  coagulato  e  che 
quindi  solo  il  lavoratore  ha  diritto  all'intiero  valore  delle 
merci  da  lui  solo  prodotte?  Chi,  se  non  lui,  ha  detto  : 
operai   di   tutto   il   mondo,    organizzatevi!) 

L'organizzazione,  ecco  la  grande  scoperta  della  Ger- 
mania moderna,  che  tutti  gli  altri  paesi  vanno  a  gara 
ad  imitare.  Organizzazione,  che  vuol  dire  sforzo  col- 
lettivo e  cosciente,  organizzato  in  vista  di  un  fine  comu- 
ne, senza  mire  particolari,  per  il  raggiungimento  del 
maggior  benessere  della  collettività.  Neil* applicare  il 
principio  collettivista  dell'organizzazione,  tutte  le  classi 
sociali  sono  concordi.  I  socialisti  italiani  si  sono  mera- 
vigliati della  quasi  unanimità  con  cui  i  socialisti  tedeschi 
hanno  appoggiato  il  governo  imperiale  in  occasione 
della  odierna  guerra.  Ma  chi  abbia  letto  e  meditato  il 
volume  di  Roberto  Michels  su  La  Sociologia  del  partito 
politico  nella  democrazia  moderna  (Torino,  U.  T.  E.  T ., 
1912)  non  ha  provato  alcuna  meraviglia.  Come  si  voleva 
che  la  democrazia  sociale  tedesca,  dopo  avere  consu- 
mato tanti  anni,  tanti  sforzi  e  tanto  denaro  per  creare 
una  organizzazione  di  partito,  di  leghe  operaie  socia- 
liste, di  propaganda,  di  stampa,  tanto  minuta  e  perfetta, 
dopo  aver  costituito  una  gerarchia  così  bene  conge- 
gnata, così  solidale,  così  agevolmente  manovrabile  dai 
capi  supremi,  potesse  arrischiare  di  distruggere  l'opera 
propria  col  permettere  l'introduzione  in  Germania,  al 
seguito  degli  eserciti  francese  ed  inglese,  dello  spirito 
di  individualismo,  di  anarchia,  di  irrequietudine,  pro- 
prio degli  «  agitati  »  compagni  d'oltre  Vosgi,  o  d'oltre 
Manica?  Essi,  i  socialisti  tedeschi,  ben  sanno  che  il 
socialismo  di  marca  francese  è  tutta  spuma  e  si  esau- 
risce nei  discorsi  incendiari  e  nella  violenza;  mentre  in 


—  129  — 

realtà  è  lo  strumento,  non  si  sa  se  inconsapevole,  del- 
l'alta finanza  parigina.  I  socialisti  o  meglio  gli  anar- 
chici francesi  sono  le  scolte  del  capitalismo  individua- 
listico e  reazionario.  Mentre  in  Germania  le  cose  vanno 
ben  diversamente.  Tutto  è  organizzato:  il  capitalismo 
e  lo  Stato.  1  capitalisti  hanno  imparato  che  era  inutile 
farsi  concorrenza,  coi  solo  scopo  di  danneggiare  la  col- 
lettività, sovratutto  la  collettività  dei  lavoratori;  ed 
hanno  costituito,  in  ogni  ramo  industriale,  i  cartelli  o 
sindacati,  mercè  i  quali  la  produzione  è  organizzata  in 
modo  scientifico  e  moderno.  In  nessun  paese  del  mondo 
il  capitalismo  è  proceduto  tant'oltre  sulla  via  della  or- 
ganizzazione collettivistica;  in  nessuno  la  concorrenza, 
con  la  unificazione  delle  imprese,  è  stata  egualmente  ri- 
dotta al  minimo.  In  nessuno  è  così  breve  il  passo  ne- 
cessario a  farsi  affinchè  i  lavoratori  organizzati  dal  par- 
tito socialista  possano  partecipare  e  alla  perfine  dive- 
nire i  dirigenti  dell'organizzazione  industriale  e  com- 
merciale. 

Lo  Stato,  spinto  dalla  fervida  parola  degli  Schmoller 
e  dei  Wagner  e  degli  altri  socialisti  della  cattedra,  ha 
compiuto  anch'esso  miracoli  sulla  via  del  collettivismo. 
A  non  parlare  delle  foreste,  delle  ferrovie  e  delle  mi- 
niere di  ferro  e  di  carbone  e  di  potassa  che  gli  Stati 
tedeschi  esercitano  meravigliosamente,  lo  Stato  germa- 
nico ha  potentemente  aiutato  —  con  dazi  protettivi,  con 
un'equja  distribuzione  nelle  ordjinazìioni  di  rotaàe,  di 
materiale  mobile  ferroviario,  di  navi  da  guerra  e  di 
quant' altro  gli  occorre  —  gli  industriali  tedeschi  a  for- 
marsi una  coscienza  collettiva.  Ormai  essi  sono  abituati 
a  seguire  un  indirizzo  comune;  non  più  lavorano  sol- 
tanto per  conseguire  un  utile  e  per  sfruttare  gli  operai, 


—  130  — 

come  nei  paesi  dove  domina  ancora  l'individualismo 
reazionario.  No;  essi  lavorano  per  la  consecuzione  di 
un  fine  comune,  secondo  le  linee  di  massima  stabilite 
dal  governo,  come  rappresentante  della  collettività;  e 
se  ottengono  spesso  utili  ingenti,  superiori  a  quelli  dei 
concorrenti  inglesi  o  francesi  o  italiani,  quegli  utili  sono 
il  meritato  compenso  dell'azione  sviluppata  nell'inte- 
resse comune;  non  sono  il  profitto  del  capitalista,  ma 
quasi  l'onorario  di  chi  conserva  ancora  del  capitalista 
le  parvenze  esteriori,  ma  in  realtà  è  già  la  crisalide  di 
un  futuro  ministro  o  funzionario  della  produzione  in 
uno  Stato  collettivista. 

La  stessa  coscienza  degli  interessi  collettivi  la  Ger- 
mania ha  cercato  di  ispirarla  nelle  -masse  lavoratrici, 
mercè  la  meravigliosa  legislazione  sociale,  di  cui  essa 
è  indiscutibilmente  la  maestra  al  mondo.  Poiché  si  può 
essere  scettici  intorno  al  valore  degli  altri  contributi 
politico-sociali  dati  dalla  Germania  airincivilimento 
mondiale.  Si  può  considerare  la  creazione  dell* impero 
tedesco  come  un  fatto  di  prim'ordine  solo  dal  punto  di 
vista  storico  e  come  mediocre  il  suo  valore  dal  punto 
di  vista  del  tipo  di  organizzazione  politica.  Si  può  quin- 
di credere  che  la  unità  germanica  valga  moltissimo  ma 
non  più  dell'unità  italiana  o  francese;  e  che  la  forma 
politica  dell'impero  sia  un  adattamento,  ne  migliore  ne 
peggiore  di  un  altro,  alle  esigenze  del  momento.  Ma 
nessuno  può  negare  che  la  legislazione  sociale  tedesca 
sia  quanto  di  più  collettivisticamente  complesso,  di  più 
tecnicamente  perfetto  sia  mai  stato  attuato  nel  mondo  : 
con  le  sue  assicurazioni  contro  gli  infortuni,  la  malattia, 
la  invalidità  e  la  vecchiaia,  con  i  suoi  sanatori,  i  suoi 
ospedali,   i  suoi  parchi  di  convalescenza,  i  suoi  investi- 


13 


menti  in  case  popolari,  in  opere  di  pubblica  utilità,  il 
sistema  assicurativo  tedesco  forma  un  tutto  armonico, 
con  tutti  gli  elementi  del  meccanismo  meravigliosa- 
mente ingranati  uno  nell'altro,  il  quadro  migliore  di  ciò 
che  su  scala  più  vasta  sarà  in  avvenire  la  società  col- 
lettivistica organizzata  del  mondo  intiero. 

Le  masse  operaie  ne  sono  così  persuase  che  esse  si 
rifiutano,  per  noni  perdere  i  bentefizi  della  mutualità  e 
delle  assicurazioni  sociali,  ossia  del  collettivismo  in 
azione,  ad  abbandonare  il  suolo  germanico.  Da  quando 
in  Germania  invero  si  è  iniziata  l'attuazione  del  nuovo 
regime  sociale,  i  tedeschi  più  non  emigrano.  Invece 
delle  parecchie  centinaia  di  migliaia  di  emigranti  del- 
l'epoca feudale  e  capitalista,  sono  ridotti  a  poche  mi- 
gliaia gli  emigranti  dell'epoca  nuova  collettivista.  E  quei 
pochi  che  emigrano  sono  i  missionari  delle  nuove  for- 
me di  civiltà  organizzata,  che  è  compito  della  Germania 
diffondere   nel   mondo. 

*** 

Di  fronte  a  questi  miracoli,  Francia  e  Inghilterra  so- 
no degli  scolaretti  balbettanti.  In  apparenza  il  socia- 
lismo ha  fatto  dei  grandi  progressi  in  ambidue  i  paesi  : 
in  Francia  nel  ministero  vi  sono  uomini  rappresentativi 
del  partito,  e  in  Inghilterra  il  signor  Lloyd  George  ha 
scatenato  contro  di  sé  le  ire  della  Camera  dei  Lordi  e 
di  tutti  i  conservatori.  In  realtà,  se  il  baccano  è  stato 
grande  ,i  fatti  sono  stati  piccolissimi.  La  Francia  è  e 
pare  debba  rimanere  un  paese  di  piccoli  proprietari  ir- 
riducibili agli  ideali  nuovi,  di  plutocrati  che  non  hanno 
nemmeno  consentito  finora  1* applicazione  dell'imposta 
sul  reddito,  neppure  nella  forma  che  in  Italia  abbiamo 


—  132  — 

da  50  anni;  un  paese  dove  le  camere  votarono,  per 
fare  del  bluff  elettorale,  una  legge  per  pensioni  di  vec- 
chiaia, salvo  poi  a  tollerare  che  gli  operai  non  pagas- 
sero la  loro  quota  di  contribuzione  e  che  il  tutto  si  ri- 
ducesse a  un  guazzabuglio  inestricabile.  In  Inghilterra 
le  leggi  per  le  assicurazioni  sociali  sono  appena  all'inizio 
della  loro  applicazione;  le  famigerate  imposte  Lloyd- 
georgiane  contro  la  proprietà  fondiaria  rendono  delle 
somme  ridicole,  segno  che  non  sono  neppure  riuscite 
a  scalfire  l' epidermide  del  privilegio;  gli  operai  conti- 
nuano a  votare  per  i  partiti  storici  della  borghesia,  la 
quale,  detentrice  del  potere  politico,  continua  ad  avere 
gli  stessi  ideali  antichi  di  scimmiottatura  della  aristo- 
crazia. No;  non  è  verso  la  Francia  e  l'Inghilterra  che  ci 
dobbiamo  volgere  per  vedere  attuati  i  postulati  più  au- 
daci del  socialismo  scientifico;  non  è  ivi  che  possiamo 
credere  di  vedere  presto  i  collettivisti  al  governo  del 
paese.  Tutt'al  più  ivi  vedremo  dei  «  compagni  »  farsi 
strada  presso  le  masse  elettorali  con  la  predicazione  del 
rivoruzionarismo  più  acceso,  dell'abbasso  le  armi!, 
salvo  a  diventare,  appena  saliti  al  potere,  i  più  fedeli 
sostenitori  della  plutocrazia  conservatrice  e  i  presidenti 
—  a  100  mila  lire  Tanno  di  onorari  —  delle  grandi  so- 
cietà capitalistiche  viventi  dei  favori  governativi.  In 
Germania  invece  noi  vediamo,  affratellate  dalla  guerra, 
fondersi  insieme  le  due  burocrazie,  quella  statale  e 
quella  socialista,  che  già  prima  erano  tanto  affini  di 
spirito;  e  la  fine  della  guerra,  se  vittoriosa  per  la  Ger- 
mania, vedrà  forse  il  primo  Kaiser  socialista  diventare 
T evangelizzatore  del  mondo  a  prò  dei  nuovi  ideali  della 
solidarietà  organizzata  collettivista.  Né  sarà  cosa  strana 
o  ripugnante;  poiché  le  teorie  del  socialismo  scientifico 


—  133  — 

sono  lo  svolgimento  razionale  e  logico  dei  principi  che 
in  germe  già  si  leggevano  negli  scritti  e  sovrattutto  nelle 
opere  degli  organizzatori  dello  Stato  prussiano,  dai 
tempi  del  Grande  Elettore  insino  agli  anni  in  cui  fiorì 
Carlo  Marx. 


V'è  bisogno  di  dire  che  le  cose  dette  sopra  —  le 
quali  sono  state  nello  scrivere  forse  leggermente  colo- 
rite, ma  rispondono  sostanzialmente  alla  verità,  non 
come  la  vedo  io,  ma  come,  se  fossero  logici,  la  dovreb- 
bero vedere  i  democratici  e  i  socialisti  italiani  —  non 
bastano  ne  a  farci  ritenere  utile  ed  augurabile  l'ideale 
collettivistico  germanico  e  neppure  ad  indurci  a  pren- 
dere partito  per  l'una  o  l'altra  delle  due  parti  conten- 
denti, a  seconda  che  i  nostri  ideali  si  avvicinino  di  più 
agii  ideali  individualistici  inglesi  o  collettivistici  germa- 
nici? Ho  voluto  soltanto  —  mettendo  in  bocca  un  di- 
scorso immaginario  a  un  ipotetico  demo-socio-moderno- 
evoluto  teorico  italiano  —  mettere  in  chiaro  come  ra- 
gionino falsamente  quei  democratici  italiani  i  quali  vor- 
rebbero che  l'Italia  scendesse  in  campo  per  la  difesa 
degli  ideali  democratici  francesi  e  inglesi  contro  la  rea- 
zione germanica.  La  verità  si  è  che  Francia  e  Inghil- 
terra stanno  —  pur  troppo  a  mio  parere  —  attingendo 
i  loro  ideali  più  moderni  e  più  nuovi  a  purissime  fonti 
tedesche;  cosicché,  se  i  democratici  fossero  logici  do- 
vrebbero combattere  per  la  Germania,  che  oggi  è 
maestra  al  mondo  di  democrazia  collettivista.  Ma  ragio- 
nano del  pari  falsamente  quei  conservatori  più  stretti, 
frequentatori  dei  clubs  del  Whist  o  della  Caccia,  i  quali 
adorano  la  Germania  perchè  essa  ha  il  pugno  forte  ed 


—  134  — 

è  il  solo  Stato  capace;  di  domare  gli  straccioni  socialisti. 
Li  doma,  assorbendone  tutto  lo  spirito  e  attuandone 
tutti  gli  ideali.  Chi  voglia  vedere  ancor  coi  suoi  occhi 
le  delizie  dello  Stato  collettivista,  costui  auguri  alla 
Germania  la  vittoria  e  quindi  l'egemonia  mondiale.  Bu- 
rocratismo e  socialismo  sono  due  fratelli  siamesi;  e  se 
noi  accettiamo  come  un  ideale  il  collettivismo,  dob- 
biamo inchinarci  a  quella  Germania  la  quale  —  come 
ha  detto  queirOstwald,  il  quale  pare  sia  illustre  tra  i 
chimici  —  ha  il  privilegio  di  possedere  lo  spirito  orga- 
nizzatore. 

La  verità  si  è  che  il  problema  della  guerra  non  si 
può  discutere  sulla  base  di  parole  di  contenuto  incertis- 
simo, come  a  democrazia  »,  «  reazione  »,  «  ideali  mo- 
derni »;  ogni  popolo  e  principalmente  noi  italiani  dob- 
biamo discuterlo  partendo  dalle  nostre  concrete  e  pre- 
cìse esigenze  nazionali.  Le  quali  sono  di  lingua,  di  cul- 
tura, di  razza,  di  confini  militari,  di  equilibrio  di  forze. 
E  tra  queste  necessità  principalissima  è  quella  di  non 
lasciarci  a  organizzare  »  da  nessun  altro  popolo,  fosse 
pure  il  sapientissimo  tra  i  popoli  della  terra,  e  di  non 
imparare  da  nessun  altro  quali  siano  gli  ideali  politici, 
nazionali  e  sociali  a  cui  vogliamo  attingere.  Facendo 
così,  noi  forse  riusciremo  a  non  cadere  nel  circolo  vi- 
zioso dei  francesi  e  degli  inglesi,  che  a  malincuore  com- 
battono la  Germania,  dopo  averla  per  tanti  anni  am- 
mirata e  adorata,  specialmente  per  ciò  che  essa  ha  di 
meno  ammirabile  :  l'organizzazione  »,  ormai  degene- 
rata in  un  collettivismo  morti ficatore  delle  più  belle 
ed   originali   energie  individuali. 

(Dalla  Minerva,    16  gennaio   1915). 


GLI  IDEALI   DELLA  INCAPACITÀ' 

Ognuno  di  noi  vede  a  modo  suo  i  fatti  caratteristici 
della  guerra  odierna;  ed  a  me  uno  dei  fatti  più  singolari 
di  essa  parve  sempre  la  meraviglia,  raccontata  dalle 
gazzette,  del  maresciallo  von  der  Goltz  quando,  essendo 
governatore  del  Belgio,  vide  gli  operai  belgi  accogliere 
con  scarso  entusiasmo  il  suo  proposito  di  importare  nel 
Belgio  gli  istituti  di  assicurazione  sociale,  per  cui  va 
celebre  la  Germania.  Non  so  se  siano  veri  il  proposito 
e  la  meraviglia,  perchè  di  ogni  fatto  raccontato  dalle 
gazzette  in  tempo  di  guerra  fa  d'uopo  dubitare;  ma 
sono  certamente  verosimili,  in  questo  senso,  che  rispon- 
dono da  un  lato  all' altissima  e,  secondo  l'universale, 
meritatissima  opinione  che  i  tedeschi  hanno  della  pro- 
pria legislazione  sociale,  e  dall'altro  lato  al  naturale 
senso  di  repugnanza  dei  belgi  verso  i  doni  recati  da 
quello  che  essi  considerano  ingiusto  oppressore  della 
loro  patria.  Essendo  opinione  corrente  e  pacifica  di  tutti 
i  popoli  che  la  legislazione  sociale  tedesca  sia  quanto 
di  più  perfetto  il  mondo  abbia  in  tal  campo  veduto,  è 
naturale  l'onesta  meraviglia  del  maresciallo  nel  vedere 
i  belgi  repugnanti  a  tanto  beneficio.  E  si  comprende 
come  in  taluni  tedeschi  sia  sorta  l'idea  di  una  loro  mis- 
sione di  diffondere  nel  mondo  i  principi  e  le  applica- 
zioni di  queste  più  alte  forme  di  civiltà  di  cui  essi  sono 
gli  antesignani.   Ad  essi  o  almeno  ad  una  parte  —  che 


—  136  — 

è  difficile  valutare  quale  importanza  abbia  —  di  essi  si 
può  soltanto  rimproverare  di  volersi  servire  degli  eser- 
citi e  della  forza  per  affrettare  ed  assicurare  la  propa- 
ganda delle  nuove  forme  di  civiltà;  e  il  rimprovero  ap- 
pare giustificato  quando  si  rifletta  all'ardore,  alla  fre- 
nesia con  cui  pensatori  e  uomini  politici  andavano  da 
tempo  propugnando  in  Francia,  in  Inghilterra,  negli  Stati 
Uniti  e  nella  nostra  Italia  l'applicazione  di  metodi  fog- 
giati sul  modello  germanico. 

La  guerra  forse  ha  ritardato  la  attuazione  degli  ideali 
tedeschi  nel  mondo;  poiché  potrà  darsi  che,  per  una 
legittima  reazione,  i  paesi  che  con  la  Germania  si  tro- 
varono in  lotta  ritardino  a  riconoscere  la  bontà  degli 
istituti  tedeschi  o  vogliano  cercare  nuove  vie  diverse  da 
quelle   che   fatalmente    avrebbero  seguito.  * 

Comunque  sia  di  ciò  che  in  futuro  potrà  accadere, 
certo  è  che  nell'opinione  universale  gli  istituti  tedeschi 
di  assicurazione  paiono  ancora  adesso  la  conquista  più 
alta  della  moderna  civiltà  nel  campo  economico-sociale. 
Benedetto  Croce  non  ha  forse  in  una  lettera  recente 
ad  un  amico  (pubblicata  nell'Italia  nostra  del  27  dicem- 
bre 1914)  fatta  questa  confessione?  «  Vedi  :  io  ho  pal- 
«  pitato  un  tempo  pel  socialismo  parlamentare  alla 
«  Marx,  e  poi  pel  socialismo  sindacalistico  alla  Sorel; 
«  ho  sperato  dall'uno  e  dall'altro  una  rigenerazione 
«  della  presente  vita  sociale.  E  tutte  le  due  volte  ho 
«  visto  corrompersi  e  dileguare  il  mio  ideale  di  lavoro 
«  e  di  giustizia.  Ma  ora  mi  si  è  accesa  la  speranza  di 
«  un  movimento  proletario  inquadrato  e  risoluto  nella 
«  tradizione  storica,  di  un  socialismo  di  Stato  e  nazione; 
«  e  penso  che  ciò  che  non  faranno,  ó  faranno  assai  male 
«   e   con   finale   insuccesso,    i   demagoghi   di   Francia,    di 


—  137  — 

«  Inghilterra  e  d'Italia  (che  aprono  la  via  non  al  prole- 
«  tariato  e  ai  lavoratori,  ma,  come  dice  il  mio  venerato 
((  amico  Sorel,  ai  noceurs),  lo  farà  forse  la  Germania, 
«  dandone  l'esempio  e  il  modello  agli  altri  popoli.  Per- 
«  ciò  giudico  assai  diversamente  dai  socialisti  italiani 
«  l'atto  compiuto  da  quelli  di  Germania;  e  credo  che 
((  quei  socialisti  tedeschi,  che  si  sono  sentiti  tutt'uno 
«  con  lo  Stato  germanico  e  con  la  sua  ferrea  disciplina, 
«  saranno  i  veri  promotori  dell'avvenire  della  loro 
<(   classe  ». 

Nelle  quali  idee  del  Croce  molto  vi  è  di  accetta- 
bile; poiché  i  demagoghi  d'Italia  e  di  Francia  sono  vera- 
mente spregevoli,  ed  è  assai  deplorevole  che,  invasati 
dalla  manìa  di  imitazione  germanica,  i  demagoghi  in- 
glesi abbiano  fatto  getto  delle  loro  più  belle  tradizioni 
nazionali.  Ed  è  degno  di  rispetto  grande  l'atto  dei  so- 
cialisti tedeschi  che,  in  questo  principio  di  guerra,  si 
strinsero  attorno  allo  Stato  nazionale;  e  sarà  ancor  più 
ammirevole  se,  comunque  volga  prospera  o  avversa  la 
fortuna,  essi  seguiteranno  sino  alla  fine  della  lottta  nel 
loro  atteggiamento  di  solidarietà. 

Ma  il  problema  posto  dalla  vera  o  immaginata  mera- 
viglia del  generale  governatore  del  Belgio  e  dalla  let- 
tera del  Croce  è,  parmi,  un  altro  :  il  socialismo  di  Stato, 
di  cui  la  manifestazione  più  caratteristica  è  la  organizza- 
zione statale,  suffragata  oggi  anche  dal  consenso  soli- 
dale dei  lavoratori,  dei  più  svariati  rami  di  assicurazione 
sociale,  è  davvero  un  ideale  così  alto  di  vita  che  la 
speranza  di  vedere  il  movimento  proletario  inquadrato 
e  risoluto  in  essa  debba  sorriderci  dinanzi  agli  occhi 
della  mente  e  debba  farci  guardare  con  fiducia  all'av- 
venire ? 


—  138  — 

Poiché  io  non  ho  questa  speranza  e  non  nutro  questa 
fiducia,  credo  opportuno  di  dire  le  ragioni  del  mio  scet- 
ticismo. Può  darsi  che  il  dissidio  sia  meramente  contin- 
gente; e  che  i  fautori  del  socialismo  di  Stato  tedesco  mi- 
rino agli  stessi  ideali  miei,  volendoli  raggiungere  per 
una  strada  che  ad  essi  può  sembrare  più  sicura.  Ad  ogni 
modo,  poiché  un  certo  dissenso,  almeno  iniziale,  esiste, 
è  opportuno  porre  il  problema. 


Il  quadro  del  socialismo  di  Stato  tedesco*  è  certo 
magnifico.  Tutti  gli  operai,  un  po'  per  volta  tutti  gli 
uomini  al  disotto  di  un  certo  livello  di  fortuna,  vengono 
irreggimentati  in  casse  di  assicurazione,  gerite  ini  parte 
dai  rappresentanti  degli  stessi  assicurati,  che  facendo 
pagare  adeguate  quote  agli  assicurati,  ai  loro  impren- 
ditori e  ai  contribuenti  in  genere,  e  ripartendo  i  rischi, 
li  assicurano  contro  i  darmi  della  invalidità,  della  vec- 
chiaia, delle  malattie,  della  maternità,  degli  infortuni  e 
li  assicureranno  contro  i  danni  della  disoccupazione  e 
della  morte.  In  tal  modo  l'operaio,  sicuro  di  sé  e  del 
proprio  avvenire,  attende  alle  opere  della  produzione, 
si  abitua  al  maneggio  degli  affari  delle  proprie  organiz- 
zazioni e  si  eleva  via  via  ad  un  più  alto  tenore  di  vita, 
materiale  e  spirituale. 

E  sta  bene.  Questo  è  il  diritto  della  medaglia.  Il  ro- 
vescio sta  nella  premessa  fondamentale  da  cui  parte 
tutto  l' edificio  del  socialismo  di  Stato,  ossia  di  orga- 
nizzazione e  di  assicurazione  universale  ed  obbliga- 
toria :  la  incapacità  dell'operaio,  dell'uomo  dotarlo  di 
scarsi  beni  di  fortuna  a  provvedere  da  sé  alle  cose  prò- 


139 


prie.  Se  noi  facciamo  questa  ipotesi  di  incapacità,  tutto 
l'edificio  si  sviluppa  logicamente.  Si  spiega  come  faccia 
d'uopo  costringere  gli  uomini  a  diventare  previdenti, 
a  prelevare  dal  proprio  salario  varie  quote  per  prov- 
vedere alle  diverse  esigenze  della  vita,  come  occorra 
organizzare  ed  inquadrare  il  movimento  operaio  nella 
macchina  statale  per  farlo  funzionare  in  guisa  da  con- 
durre al  massimo  benessere  collettivo.  Ma  è  pur  sempre 
una  perfezione,  un  ideale  che  si  muove  entro  una  bas- 
sura :  l'esistenza  di  masse  umane  le  quali  hanno  bi- 
sogno di  essere  costrette  alla  previdenza,  alla  organiz- 
zazione,  alla  solidarietà. 

Che,  se  noi  supponiamo  di  essere  usciti  da  queste  bas- 
sure e  di  essere  giunti  a  un  momento  storico  in  cui  gli 
uomini  da  sé  sappiano  curare  i  propri  interessi,  in  cui 
essi  sappiano  fare  il  confronto  tra  la  convenienza  di 
spendere  oggi  o  domani  o  fra  un  anno  i  propri  guada- 
gni, in  cui  sappiano  valutare  la  convenienza  di  unirsi 
volontariamente  tra  di  loro  per  raggiungere  un  fine  co- 
mune, e  sappiano  calcolare  quando'  convenga  lottare  con 
gli  altri  uomini  o  venire  a  una  transazione,  se  noi  fac- 
ciamo questa  avventurata  ipotesi,  il  quadro  cambia. 
Il  socialismo  di  Stato  e  le  assicurazioni  sociali  germani- 
che diventano  una  macchina  ingombrante  e  inutilmente 
costosa.  L'uomo  previdente  sceglie  da  sé  le  vie  di  ri- 
sparmiare e  di  prevedere;  ed  è  probabilissimo  che  sce- 
glierà le  vie  le  quali  siano  più  adatte  ai  suoi  bisogni,  al 
suo  temperamento,  alle  sue  condizioni  di  famiglia.  Che 
bisogno  ha  egli  di  impiegare  i  propri  risparmi  aì 
3  o  4  %,  ossia  all'interesse  minimo  che  è  compatibile 
con  l'assoluta  sicurezza  che  deve  essere  tenuta  di  mira 
da  una  organizzazione  pubblica,  e  per  giunta  di  lasciar 


40 


prelevare  su  questo  scarso  reddito  una  fortissima  per- 
centuale per  le  spese  di  gestione?  Le  spese  della  mac- 
china sono  false  spese,  le  quali  diventano  convenienti 
solo  quando  esse  servano  a  sormontare  l'ostacolo  della 
incapacità  degli  uomini  a  provvedere  a  se  stessi.  Ma, 
rimosso  l'ostacolo,  la  macchina  funziona  a  vuoto,  solo 
per'  procacciare  stipendi  agli  amministratori  e  agli 
impiegati. 

Parimenti  una  cassa  di  disoccupazione  è  utile  finche 
si  ha  da  fare  con  una  massa  operaia  incapace  a  rispar- 
miare volontariamente,  nei  periodi  di  occupazione  sta- 
bile e  di  prosperità  economica,  la  somma  necessaria  a 
superare  le  morte  stagioni  e  i  periodi  di  crisi.  Ma  se 
l'operaio  o  l'impiegato»  sa  ragionare  e  sa  prevedere,  egli 
preferirà  di  gran  lunga  tenere  per  sé  tutte  le  6  lire  di 
salario,  versandone  una  su  un  libretto  di  cassa  di  ri- 
sparmio. Quando,  dopo  aver  lavorato  250  giorni,  verrà 
la  morta  stagione  dei  50  giorni,  egli  si  ritroverà  l'intiero 
gruzzolo  delle  250  lire  e  potrà  tranquillamente  consu- 
marle tutte,  a  5  lire  al  giorno.  La  cassa  di  assicurazione 
contro  la  disoccupazione,  che  non  può  far  miracoli,  gli 
avrebbe  restituito  le  sue  250  lire,  meno  le  25  o  le  50 
necessarie  per  il  suo  proprio  funzionamento.  Facendo 
così,  la  cassa  compie  opera  utile  se  l'operaio  è  dedito 
all'imprevidenza,  all'intemperanza  e  ai  consumi  imme- 
diati; ma  inutilmente  costosa  e  quindi  dannosa  se 
l'operaio  è  capace  di  provvedere  a  se  stesso. 

E  si  potrebbe  seguitare.  La  legislazione  relativa  agli 
arbitrati  di  lavoro  è  buona  per  quelle  società  in  cui  im- 
prenditori e  operai  sono  sforniti  di  educazione  econo- 
mica; e,  partendo  da  ignoranze  diverse,  hanno  bisogno 
che   qualcuno  li   consigli  o  li  costringa   a  mettersi  d'ac- 


—  141  — 

cordo.  Mentre,  se  l'educazione  economica  è  diffusa,  se 
le  parti  contendenti  hanno  saputo  darsi  dei  capi  colti, 
intelligenti  e  accorti,  le  contese  vengono  risolute  dai 
rappresentanti  delle  due  parti,  discutendo,  con  criteri 
tecnici  accettati  pacificamente,  sui  dati  concreti  delle 
condizioni  dell'industria,  della  sua  produttività,  dei 
prezzi  e  dei  costi,  variabilissimi  da  caso  a  caso.  E  si 
può,  con  molto  fondamento  di  ragione,  affermare  che 
quanto  più  cresceranno  la  educazione  e  la  capacità  dei 
lavoratori,  tanto  meno  essi  avranno  interesse  di  ricorrere 
alle  organizzazioni,  non  solo  obbligatorie  ma  persino 
volontarie,  coi  propri  compagni.  A  che  prò  sopportare 
le  false  spese  della  organizzazione  quando  gli  identici 
o  migliori  risultati  possono  ottenersi  con  l'azione  indi- 
viduale? 


Laonde  il  socialismo  di  Stato  alla  tedesca  ci  con- 
tinua ad  apparire  come  una  organizzazione  mirabile 
bensì,  ma  adatta  soltanto  a  uno  stadio  inferiore  di  ci- 
viltà. Non  sarebbe  del  resto  il  suo  maggior  difetto.  Co- 
me, invero,  togliersi  di  dosso  il  dubbio  che  esso  sia  al- 
tresì uno  strumento  efficacissimo  per  fare  rimanere  gli 
uomini  nella  condizione  inferiore  in  cui  essi  si  trovano? 
Finche  non  sia  dimostrato  che  la  costrizione  è  il  modo 
migliore  per  educare  gli  uomini  a  essere  previdenti,  vo- 
litivi, consapevoli  dei  propri  fini,  io  continuerò  a  du- 
bitare che  esso  sia  invece  il  modo  più  efficace  per  con- 
servarli in  istato  di  servitù.  Che  differenza  sostanziale  vi 
è  fra  lo  schiavo,  a  cui,  doveva  paternamente  provvedere 
il  padrone,  e  l'operaio,  cui  lo  Stato  insegna  con  la  forza 
quanto  deve  risparmiare  per  le  malattie,  per  gli  infortuni, 


—  142  — 

per  la  vecchiaia,  per  la  famiglia,  a  cui  il  tribunale  fissa 
il  salario,  a  cui  la  lega,  inquadrata  in  un  organismo  sta- 
tale, consiglia  se  e  quando  deve  litigare  col  padrone  e 
quando  accordarsi  con  lui  per  spennare,  d'accordo  con 
lo  Strato,  l'anonima  e  inafferrabile  folla  dei  consumatori? 
Confesso  candidamente  che  quando  mi  si  dice  che 
in  Germania  vi  sono  7  od  8  o  10  o  12  milioni  di  lavo- 
ratori obbligatoriamente  assicurati  per  una  pensione  di 
vecchiaia  o  di  invalidità,  non  mi  sento  menomamente 
commosso.  Sì,  quando  sento  dire  che  in  Italia  vi  sono 
300,000  associati  volontari  alla  Cassa  nazionale  per  la 
invalidità  e  la  vecchiaia.  Non  mi  commuovono  i  12  mi- 
lioni, perchè  essi  non  hanno  fatto,  per  essere  assicurati, 
alcun  atto  di  volontà.  È  probabile  che  essi  siano  o  stiano 
diventando  previdenti,  per  proprio  conto,  per  altre  vie 
diverse  da  quella  della  assicurazione  obbligatoria. 
Questa,  in  quanto  tale,  non  li  trasforma.  Restano  inca- 
paci, quali  erano.  Almeno  in  generale.  Per  sapere  qual- 
cosa delle  virtù  della  assicurazione  obbligatoria,  biso- 
gnerebbe poter  rispondere  alla  domanda  :  quanti  di 
quei  12  milioni  sono  stati  spinti,  dalla  sicurezza  di  avere 
una  pensione  statale  di  vecchiaia  di  200  lire,  a  rispar- 
miare ulteriormente?  La  assicurazione  obbligatoria  è  be- 
nefica solo  entro  i  limiti  in  cui  è  capace  di  produrre 
questo  effetto,  ossia  di  trasformare  psicologicamente  gli 
uomini1  e  di  preparare  generazioni  venture  migliori,  più 
volitive  delle  attuali.  Ha  essa  questo  effetto  ed  entro 
quali  limiti?  Questo  bisognerebbe  sapere;  ed!  a  questa 
stregua  bisognerebbe  valutare  la  virtù  di  elevazione,  la 
quale  potrà  essere  elevatissima  e  di  pregio  superiore  al 
costo,  della  legislazione  sociale  tedesca.  Frattanto  so  co- 
me cosa  certa  che  i  300,000  assicurati  alla  cassa  nazio- 


—  143  — 

naie  italiana,  o  almeno  la  parte  di  essi  che  non  furono 
assicurati  dai  propri  principali  ma  liberamente  da  se  si 
associarono  alla  cassa,  sono  già  trasformati,  ossia  ap- 
partengono a  quella  eletta  schiera  di  persone  che  si 
sono  sapute  trarre  su  dal  gregge  di  coloro  a  cui  è  gioco- 
forza provvedere  con  la  verga  degli  schiavi  o  con  la 
legislazione  e  le  inquadrature  dei  professori  di  socia- 
lismo di  Stato. 

(Dalla  Minerva,   1°  aprile   1915). 


GERMANOFILI  ED  ANGLOFILI 

Mario  Borsa,  il  quale,  essendo  vissuto  dodici  anni 
in  Inghilterra  ha  amato  quel  paese  ed  a  differenza  di 
quasi  tutti  i  suoi  colleghi  corrispondenti  dei  giornali  ita- 
liani, ha  cercato  di  penetrare  dentro  nella  vita  e  nella 
storia  del  popolo  britannico,  si  chiede,  in  un  suo  re- 
cente opuscolo  (Italia  ed  Inghilterra,  Milano,  Società 
Editoriale  italiana,  1916)  quale  sia  la  ragione  «  di  quello 
«  strano  e  sottile  spirito  di  diffidenza  e  di  antipatia  che 
«  si  è  infiltrato  nel  popolo  nostro  contro  l'Inghilterra  ». 

Mi  sia  consentito  di  aggiungere,  a  quelle  acutamente 
osservate  dal  Borsa,  un'altra  ragione  potentissima  di  an- 
tipatia; e  sono  gli  anglofili  italiani. 

Credo  di  avere  il  diritto  di  parlar  male  di  costoro, 
prima  che  la  marea  ci  soffochi.  Siamo  stati  dei  pochis 
simi  in  Italia,  noi  del  gruppo  degli  scrittori  di  questa 
rivista,  ad  avere  il  cultoi  dell'Inghilterra  :  non  della  ric- 
chezza inglese  e  delle  cifre  grosse  dei  bilanci  inglesi,  ma 
delle  idee  inglesi  e  del  modo  di  ragionare  e  del  modo 
di  concepire  la  vita,  la  libertà  e  la  politica  che  si  usa 
in  Inghilterra.  E  poiché,  dopo  avere  molto  letto  e  stu- 
diato, eravamo  persuasi  di  non  sapere  ancora  nulla,  ci 
sia  lecito  dire  che  quella  dei  nuovissimi  ammiratori  del- 
l'Inghilterra è  una  fastidiosa  e  velenosa  fugaia. 

Costoro  minacciano  di  diventare  una  peste  peggiore 
dei  tedescofili  di  non  lontana  memoria.   Adesso,  non  si 


—  146  — 

trova  più  un  tedescofilo  a  volerlo  pagare  un  occhio.  Ma, 
se  si  guarda  bene  in  fondo,  si  osserva  senza  meraviglia 
che  essi  si  sono  tutti  tramutati  in  anglofili,  e  predicano 
la  necessità  di  stringere  intimi  rapporti  con  quella  che 
prima  usavano  chiamare  «   la  perfida  Albione  ». 

Erano  già  insopportabili  in  qualità  di  germanofili; 
ma  almeno  non  erano  assurdi.  Alcuni  avevano  viaggiato 
in  Germania  ed  avevano  «  ammirato  »  la  pulizia,  l'or- 
dine, il  rispetto  alle  autorità,  i  treni  in  orario,  le  bir- 
rerie e  la  birra.  Altri  erano  andati  a  visitare  le  fabbriche 
tedesche,  ed  erano  rimasti  stupefatti  dinanzi  alle  enor- 
mi superfici  occupate,  alle  macchine  potenti,  agli  ar- 
chivi sterminati  dove  tutte  le  esperienze  chimiche,  elet- 
triche, ecc.  sono  catalogate,  afnncate  e  messe  in  ordine 
e  s'erano  persuasi  che  i  tedeschi  fossero,  i  soli  genii  or- 
ganizzatori del  mondo;  e  per  poco  non  avevano  imma- 
ginato che  solo  i  tedeschi  sapessero  con  la  organizza- 
zione costringere  carbone  e  minerali  di  ferro  a  cacciarsi 
nel  loro  sottosuolo,  od  i  fiumi  a  scorrere  placidamente 
attraverso  a  pianure  artefatte.  Altri  era  andato  a  spen- 
dere T importo  del  premio  di  perfezionamento  nelle  uni- 
versità germaniche  ed  era  rimasto  commosso  per  l'onore 
fattogli  di  un  invito  a  pranzo  da  parte  del  direttore  del 
laboratorio  o  di  una  collaborazione  col  «  celebre  »  pro- 
fessore tedesco  in  una  prima  monografia  sperimentale. 
Tutti  costoro  erano  germanofili  nati  ed  erano  perciò  grot- 
teschi. Ma  almeno  erano  stati  in  Germania  ed  erano  di- 
venuti ammiratori  perchè  c'era  qualcosa  che  aveva  fatto 
colpo  su  di  loro.  S'erano  persuasi,  vedendo  tutto  grosso, 
enorme,  colossale,  potente,  che  il  popolo  provvisto  di 
tutto  questo  ben  di  dio  fosse  destinato  a  dominare  il 
inondo;   ed,    anime   di   servi,   s'erano    affrettati   a  predi- 


—  147  — 

care  che  gli  italiani  dovevano  mettersi  alla  coda  dei  te- 
deschi, se  volevano  diventare  anch'essi  grossi,  enormi, 
colossali,  potenti  ed  avere,  alla  fine  della  guerra,  Nizza, 
Corsica,  Tunisia,  Siria,  e  forse  anche  il  Madagascar  ed 
il  Tonchino. 


Ma  almeno  i  germanofili  erano  stati  in  Germania; 
od  avevano  fatti  affari  con  dei  commessi-viaggiatori  te- 
deschi, od  avevano  comperato  da  essi  buone  macchine 
che  lavorano  magnificamente,  od  avevano  venduto  in 
Germania,  con  lucro,  merci  italiane. 

Gli  anglofili  sono  peggiori  e  più  noiosi  dei  germa- 
nofili.  Ho  il  vago  sospetto  che  siano  quegli  stessi  aspi- 
ranti-professori, viaggiatori  perditempo,  clienti  di  com- 
messi-viaggiatori tedeschi  di  prima  della  guerra,  che 
ora,  dovendo  per  forza  ammirar  qualcuno,  si  sono  fatti 
pedissequi  dell' Inghilterra.  La  «  perfida  Albione  »,  è 
divenuta  «  l'antica  e  tradizionale  amica  dell'Italia  ». 
Suppergiù  questa  frase  è  tutto  ciò  che  gli  anglofili  ita- 
liani sanno  dell'Inghilterra.  Hanno  sentito  dire  nei  di- 
scorsi e  letto  sui  giornali  che  Cavour,  Garibaldi,  Mazzini, 
Ruffini  e  gli  altri  apostoli  e  costruttori  dell'Italia  nuova 
erano  vissuti  in  Inghilterra,  ovvero  ivi  erano  stati  am- 
mirati, incoraggiati  ed  aiutati;  sanno  che  Gladstone 
scrisse  un  famoso  opuscolo  contro  i  Borboni;  e  con 
questo  pesante  bagaglio  letterario  sono  divenuti  ammi- 
ratori ed  amici  del  paese  che  oggi  è  nostro  alleato. 

L'animo  del  servo  e  lo  stupore  dell'asino  non  sono 
l»erò  venuti  meno.  Coloro  che  un  tempo  manifestavano 
il  loro  servilismo  e  la  loro  ignoranza  citando  il  signor 
Berselbe  nelle   dotte  note  del  titolo   da  concorso,    oggi 


—  143  — 

che  la  guerra  ha  costretto  anche  i  professori  a  scendere 
in  piazza  ad  evangelizzare  i  popoli,  spropositano  comi- 
camente nel  discorrere  dei  loro  nuovi  amici  inglesi.  V'è 
un  modo  rapido,  poco  costoso,  ma  sicuro  di  individuare 
gli  anglofili  che  non  hanno  mai  letto  nessun  libro  inglese 
e  non  sono  neppure  arrivati  a  scalfire  la  pelle  della  col- 
tura inglese;  ed  è  l'uso  dei  prefissi  Mr.,  Sir,  Lord.  Gli 
anglofili  reduci  dalla  germanofilia  non  sospettano  nep- 
pure che  lo  scrivere  «  Lord  Asquith  »  invece  di  «  Mr. 
Asquith  »  è  un  delitto  atto  a  far  fremere  nelle  loro  tom- 
be i  custodi  delle  più  belle  tradizioni  politiche  del  par- 
tito liberale;  e  che  un  grammatico  inglese  potrà  passar 
sopra  ad  un  errore  di  sintassi,  ma  non  perdonerà  giam- 
mai a  chi  osi  scrivere  «  Sir  Grey  »  invece  di  «  Sir  Edward 
Grey  ».  Perchè  chi  commette  questi  errori,  come  pure 
chi  nello  scrivere  premette  al  nome  di  un  deputato  in- 
glese l'adulatorio  aggettivo  italiano  ori.  invece  di  far  suc- 
cedere al  nome  le  lettere  M.  P.  (member  of  parliament), 
o  tratta  correntemente  con  Y eccellenza  i  ministri  inglesi, 
dimostra  di  ignorare,  oltreché  la  grammatica,  parecchie 
cose  le  quali  non  possono  essere  rimaste  ignote  anche 
al  più  modesto  conoscitore  della  storia,  delle  consuetu- 
dini e  delle  tradizioni  politiche  inglesi  od  al  più  distratto 
lettore  di  romanzi  di  Dickens  e  di  Walter  Scott.  Dimo- 
strano i  nostri  anglofili  di  ignorare,  per  citare  solo  qual- 
che esempio,  che  una  grande  tradizione  vuole  che  il 
premier  in  un  governo  liberale,  se  già  non  appartenga 
per  nascita  alla  nobiltà,  non  accetti  titoli  di  nobiltà  o 
cavallereschi  :  Gladstone  volle  sempre  rimanere  un  sem- 
plice  Mr.  o   signore   e  l' Asquith  ne   segue   l'esempio. 

E,    s'intende,    codesti    anglofili,    che    conoscono    così 
bene  i  caratteri  più  esteriori  e  noti  della  vita  politica  in- 


—  149  — 

glese,  pretendono  ad  ogni  altro  giorno  che  l'Inghilterra 
debba  in  furia  mettersi  a  studiare  l'Italia.  Poiché  la 
caratteristica  di  codesti  anglofili  è  la  smania  di  insegnare 
agli  inglesi  che  cosa  sia  l'Italia.  Vorrebbero  che  gli  edi- 
tori inglesi  cambiassero  le  loro  guide,  cosicché  i  viag- 
giatori britannici  potessero  visitare,  oltreché  le  pinaco- 
teche ed  i  musei  ed  i  ruderi,  anche  le  opere  «  pulsanti  » 
della  vita  moderna;  a  rischio  di  far  fuggire  inorriditi  i 
forestieri,  i  quali  in  Italia  cercano  sensazioni  riposanti 
e  tranquille  e  diverse  da  quelle,  dopotutto  assai  noiose 
esteticamente,  del  fumo  e  dei  camini  e  del  baccano  dei 
saloni  delle  moderne  manifatture. 

Sanno,  anche,  gli  anglofili  che  l'Inghilterra  è  ricca. 
I  discorsi  del  bilancio  del  signor  Mac  Kenna  hanno  dato 
loro  alla  testa.  Vedono  miliardi  e  sterline  dappertutto. 
Al  culto  dell' <(  organizzazione  »  tedesca  hanno  sostituito 
il  culto  della  «  sterlina  »  inglese. 

Vorrebbero,  perciò,  codesti  anglofili  l'elemosina  dal- 
l'Inghilterra. Si  possono  perdonare  loro  gli  errori  di 
grammatica,  il  seicentismo  italo-tedesco  nelle  titolature 
verbali,  la  smania  di  far  visitare  fabbriche  e  bonifiche  a 
chi  vuol  vedere  quadri  e  monumenti;  ma  non  si  può 
perdonare  loro  la  miserabile  figura  di  pezzenti  che  ci 
fanno  fare  dinanzi   agli   alleati. 

Aumentano  i  noli,  perchè  il  tonnellaggio  marittimo 
è  ridotto  alla  metà;  e  perchè  da  che  mondo  è  mondo, 
quando  una  merce  è  rara,  è  impossibile  impedire  che 
i  prezzi  aumentino,  o  che,  a  prezzi  uguali,  la  quantità 
sia  razionata  colla  forza  e  che  quindi,  nel  caso  del  na- 
viglio, molta  minor  merce  sia  trasportata?  E  subito  si 
chiede  che  l'Inghilterra  debba  assegnare,  il  che  vuol 
dire  regalare  prò  tempore,  navi  all'Italia  a  noli  di  favore. 


50 


Crescono  i  cambi  ed  occorrono  32  lire  italiane  per 
comperare  quella  lira  sterlina  che  prima  ci  comprava 
con  25  lire?  E  subito  i  soliti  anglofili  od  adoratori  della 
borsa  inglese,  come  prima  lo  erano  della  borsa  tedesca, 
gemono  sulla  sconoscenza  da  parte  dell'Inghilterra  della 
bontà  della  lira  italiana;  ed  invocano  non  si  sa  che,  es- 
sendo il  loro  linguaggio  singolarmente  vago,  ma  in  so- 
stanza vogliono  che  l'Inghilterra  ci  dia  prova  di  amici- 
zia accettando  25  lire  soltanto  in  cambio  della  sua  lira 
sterlina. 

Il  che,  in  lingua  povera  e  chiara,  è  un  chiedere  l'ele- 
mosina; ed  è  intollerabile  per  un  paese  come  l'Italia  il 
quale  è  entrato  in  guerra  per  il  raggiungimento  dei  suoi 
ideali  nazionali.  Nessun  popolo  è  capace  di  raggiun- 
gere un  ideale  quando  nel  tempo  stesso  si  abbassa  al- 
l'atto servile  di  chiedere  l'elemosina  di  una  merce  a 
sotto-prezzo.  Noi  dobbiamo,  sì,  chiedere  all'Inghilterra 
di  aiutarci  con  denaro  e  con  navi  e  con  carbone;  noi 
abbiamo  diritto  di  partecipare,  insieme  con  gli  altri  al- 
leati e  prò  rata,  al  limitato  fondo  di  denaro,  di  carbone 
e  di  navi  che  gli  Alleati,  compresa  l'Inghilterra,  posseg- 
gono. È  augurabile  che  un  modo  si  trovi  per  ripartire 
prontamente,  efficacemente  denaro,  carbone,  navi  fra 
gli  Stati  a  norma  dei  loro  bisogni  militari;  perchè  ciò 
è  necessario  al  successo  della  causa  comune.  L'Italia  non 
deve  pagare  nulla  più  del  minimo  prezzo  corrente  delle 
cose  ad  essa  necessarie;  ed  è  ragionevole  che  per  scopi 
militari  si  cerchi  di  ottenere  prezzi  non  superiori  a  quelli 
che  possono  essere  considerati  prezzi  normali  di  costo. 
Ma  l'Italia  deve  aver  l'orgoglio  di  pagare,  sui  capitali 
ricevuti  a  prestito  dall'Inghilterra,  nulla  di  meno  dei 
tasso  contente  di  interesse;   e  di  non  accettare  carboni 


15 


e  noli  a  prezzi  di  favore.  L'Italia  non  sa  che  farsene  de- 
gli anglofili  che  di  volta  in  volta  hanno  bisogno  di  lec- 
care gli  stivali  ad  un  nuovo  padrone.  L'amicizia  si  ce- 
menta coli 'opera  comune,  collo  sforzo  per  raggiungere 
ideali  affini;  si  distrugge  quando  è  basata  su  mal  chieste 
ed  a  stento  concesse  elemosine. 


* 

In  realtà  ad  essere  anglofili  sul  serio  è  cosa  ardua, 
come  era  cosa  ardua  essere  prima  veramente  germano- 
fili.  Ma  quando  lo  si  è,  si  rimane  tali,  guerra  o  non 
guerra,  per  tutta  la  vita,  perchè  l'essere  germanofili  od 
anglofili  sul  serio  vuol  dire  soltanto  che  si  è  riconosciuto 
che  nel  pensiero  o  nella  vita  di  un  altro  paese  vi  era 
qualcosa  che  meritava  di  essere  appreso  e  meditato  e 
trasformato  in  pensiero  proprio  ed  in  forza  modificatrice 
della  vita  del  proprio  paese. 

Io  non  sono  mai  stato  —  d'accordo,  del  resto,  in  ciò 
con  la  maggior  parte  degli  studiosi  italiani  di  scienze 
economiche  —  germanofilo.  Ma  non  per  odio  irragio- 
nevole verso  quel  paese;  o  perchè  disconoscessi  quali 
grandi  contributi  i  tedeschi  abbiano  recato  al  progresso 
di  altri  rami  scientifici.  Bensì  perchè  il  contributo  ger- 
manico al  progresso  delle  scienze  economiche  è  stato 
mediocrissimo,  assai  inferiore,  per  non  parlar  dell* In- 
ghilterra, a  quello  dell'Italia,  della  Francia  ed  oggi  anche 
degli  Stati  Uniti.  Specialmente  i  massimi  baccalari  uffi- 
ciali viventi  della  scienza  economica  tedesca,  i  Wagner, 
gli  Schmoller,  a  cui  ora  si  può  aggiungere  il  Sombart, 
mi  erano  sempre  sembrati  mediocri  economisti.  Perciò 
la  cultura  tedesca  mi  interessava  poco  ed  i  suoi  scrittori 


52 


più  rimarchevoli  mi  erano  sempre  sembrati  quelli  che 
godevano  minor  fama  nella  loro  patria  e  recavano  meno 
spiccata  l'impronta  germanica.  Ma  comprendo  perfet- 
tamente che  i  giuristi  ammirassero  e  studiassero  il  Sa- 
vigny,  lo  Jehring  ed  altri  sommi,  gli  storici  il  Mommsen 
ed  il  Ranke,  i  filosofi  la  pleiade  di  menti  sovrane  fiorite 
nella  Germania  del  passato.  In  che  cosa  la  guerra  ha 
potuto  mutare  questo  atteggiamento  spirituale?  I  giuri- 
sti, almeno  quelli  degni  di  questo  nome,  se  non  gli  scim- 
miotti dei  Derselhe,  seguiteranno  a  studiare  ed  a  citare 
il  Savigny,  gli  storici  il  Mommsen,  i  filosofi  Kant  ed  He- 
gel, ed  i  chimici  ed  i  fisici  gli  scienziati  che  hanno  sco- 
perto nuove  verità  nel  campo  loro.  O  che  gl'italiani  do- 
vrebbero diventare  ignoranti,  scrivere  degli  spropositi, 
reinventale  le  verità  già  scoperte  solo  perchè  il  popolo,  a 
cui  quei  grandi  appartennero,  si  è  reso  colpevole  della 
guerra  odierna?  Io  seguiterò  a  non  studiare  ed  a  non 
citare  i  Wagner,  gli  Schmoller  ed  i  Sombart;  ma  non 
perchè  siano  tedeschi,  sibbene  perchè,  a  parer  mio, 
scrissero  cose  di  poco  conto  e  fecero  dell'economia  e 
della  storia  economica  di  quart'ordine. 

Per  la  stessa  ragione  —  scarsa  originalità  e  scarsa 
bellezza  di  sviluppo  spontaneo  —  le  istituzioni  politiche 
e  sociali  germaniche  hanno  destato  sempre  in  me  scarso 
interesse.  Il  volgo  può  trovare  ammirabili  le  a  organizza- 
zioni »  politiche  germaniche,  perchè  il  volgo  ammira  le 
cose  regolari,  gerarchiche;,  macchinose.  Ma,  in  fatto  di 
organizzazione  politica  centralizzata,  qual  cosa  mai  po- 
tevano i  tedeschi  aggiungere  al  meraviglioso  organismo 
ricreato  dalla  mente  geniale  del  primo  Napoleone  sulle 
traccie  dell'opera  dei  Re  di  Francia?  La  macchina  te- 
desca delle  assicurazioni  sociali  può  tutt'al  più  sembrare 


—  153  — 

degna  di  interesse  scientifico  ad  un  amatore  di  regola- 
menti. Poiché,  quando  si  sia  deciso  di  obbligare  alcuni 
milioni  di  uomini  a  fare  certe  cose,  qualunque  funzio- 
nario che  abbia  una  perizia  tecnica  del  piccolo  proble- 
ma da  risolvere,  può  elaborare  gli  articoli  di  regolamento 
necessari  all'uopo;  e  con  regolarità  meccanica  i  milioni 
di  assicurati  sussidiati,  pensionati,  indennizzati  si  alli- 
neano nelle  colonne  delle  statistiche  periodiche.  Che 
cosa  vi  è  di  interessante  in  tutto  ciò  e  di  realmente  utile 
al  perfezionamento  intimo  dell'uomo? 

Per  contro,  se  anche  la  sventura  avesse  voluto  che 
l'Italia  dovesse  trovarsi,  per  ipotesi  assurda,  o  per  po- 
tenza di  triplicisti,  in  guerra  con  l'Inghilterra,  avrei  po- 
tuto cessare  di  essere  un  lettore  appassionato,  quasi  mo- 
nomaniaco, di  libri  inglesi,  come  sempre  sono  stato  fino 
dai  banchi  dell'università?  La  guerra  potrebbe  forse  far 
sì  che  non  siano  nati  in  Inghilterra  Adamo  Smith  e  Da- 
vide Ricardo  e  che  insieme  con  essi  una  pleiade  di 
grandi  economisti  non  abbia  fatto  per  il  progresso  della 
scienza  economica  più  di  quanto  non  poterono  fare  tutti 
gli  scrittori  delle  altre  nazioni  presi  insieme?  Potrebbe 
forse  la  guerra  distruggere  la  formazione  storica  della 
costituzione  inglese  e  dell'impero  britannico,  di  cui  nulla 
di  ugualmente  meraviglioso  si  vide  nel  mondo  fuor 
dello  sviluppo  storico  della  costituzione  e  dell'impero 
romano?  E  potrebbe  forse  la  guerra  distruggere  il  fatto 
che  nessun  paese  può  vantare,  appunto'  a  causa  della 
sua  formazione  storica,  una  letteratura  politica  parago- 
nabile a  quella  dell'Inghilterra?  Ed  io  dovrei,  solo  per- 
chè capitassimo  ad  essere  in  guerra,  preferire  alla  let- 
tura di  quei  grandi  capolavori  la  noia  di  dovermi  sorbire 
le  chiacchierate  imperialistiche  senza  costrutto  di  qual- 


—  154  - 

che  vanesio  scrittorello  italiano  in  cerca  di  novità?  Di 
essere  anglofili  o  germanofili  o  francofili  non  si  può  far 
a  meno  quando  l'esserlo  risponda  ad  un  intimo  bisogno 
dello  spirito  di  conoscere  e  di  assimilare  il  pensiero  de- 
gli altri  paesi.  È.  grottesca  la  germanofilia  dei  cannoni 
da  420,  della  birra  buona  e  delle  fabbriche  di  colori; 
come  è  ridicola  1* anglofilia  delle  miniere  di  carbone  o 
delle  dreadnoughts,  o  la  francofilia  della  torre  Eiffel; 
ma  l'amore  delle  idee  vere  e  delle  cose  belle  non  può 
essere  distrutto  neppure  in  tempo  di  guerra.  E  sarebbe 
un  danno  lo  fosse.  Perchè  vorrebbe  dire  che  saremmo 
meno  ricchi  degli  altri  nel  mondo  delle  idee,  da  cui  alla 
perfine  provengono  quelle  cose  passeggere  e  senza  im- 
portanza nella  storia  umana  che  sono  le  fabbriche  di 
colori,  le  miniere  di  carbone  e  le  torri  Eiffel. 

(Da  «  La  Riforma  Sociale  »,  aprile   1916). 


LA  TEORIA  INGLESE 
DELL'EQUILIBRIO  EUROPEO 

£  tornata  di  moda  in  questi  ultimi  tempi  e  in  Italia 
una  scoperta  scientifica  intorno  aUa  quale  avevano  me- 
nato' gran  rumore  i  giornali  tedeschi  nei  mesi  di  agosto 
e  settembre  1914:  essere  la  teorìa  della  equilibrio  delle 
potenze  »  sul  continente  europeo  un  idolo  a  cui  ora 
si  immolano  i  popoli  ».  Questa  teoria  sarebbe  nata  non 
in  Germania  ma  in  Inghilterra,  e  sarebbe  un  congegno 
conservatore  dell' imperialismo  inglese,  ora  contro  la  Ger- 
mania, ora  contro  la  Russia,  ora  contro  la  Francia.  L'In- 
ghilterra avrebbe  consolidato  sempre  la  sua  posizione 
egemonica  sugli  altri  popoli  europei  scagliandoli  in  guer- 
ra l'uno  contro  l'altro. 

Questa  concezione  della  guerra  si  può  chiamare  «  vol- 
gare »  come  quella  che  non  richiede  alcuno  sforzo  di 
pensiero  e  risulta  dall' applicazione  ai  grandi  avvenimen- 
ti storici  dei  metodi  di  ragionamento  propri  di  coloro 
i  quali  non  badano  ad  altro  che  al  vantaggio  pecuniario 
immediato.  Il  contadino  ignorante,  il  quale  vuole  spie- 
garsi la  ragione  per  cui  certi  «  signori  »  richiedono  il 
suo  voto  per  riuscire  deputati  o  fanno  pubblica  propa- 
ganda per  il  prestito  nazionale,  non  sa  trovarne  altra 
fuor  della  speranza  che  coloro  abbiano  di  fare,  con  quel 
metodo,    denari.    Egli    invero    non    concepisce   vi   possa 


—  156  — 

essere  altro  movente  all'azione  degli  uomini  fuorché  il 
desiderio  del  denaro.  Così  gli  uomini  digiuni  di  ogni 
cultura  storica  ed  economica,  i  quali  costituiscono  trop- 
pa parte  della  classe  politica  italiana,  non  sapendo  com- 
prendere perchè  l'Inghilterra  si  sia  voluta  impacciare  in 
faccende  che  non  la  riguardano,  come  l'annessione  del 
Belgio  e  della  Serbia  o  la  cessione  delle  colonie  fran- 
cesi a  vantaggio  della  Germania,  dicono  che  l'Inghilterra 
si  decise  alla  guerra  per  lucrare  alle  spalle  dell'Europa 
divisa,  mutuando  denari  a  forte  interesse,  impadronen- 
dosi delle  colonie  tedesche  e  facendosi  pagare  cari  noli 
e  carbone.  Poiché  queste  spiegazioni  da  montanaro 
dalle  scarpe  grosse  possono  non  sembrare  ai  lettori  raf- 
finati abbastanza  eleganti,  i  giornali  tedeschi  prima  ed 
ora  alcuni  italiani  hanno  pensato  di  sostituirle  con  «  l'i- 
dolo atroce  e  funesto  »  dell'equilibrio  europeo,  grazie 
al  quale  l'Inghilterra  diventerebbe  gigante  fomentando 
la  discordia  tra  i  popoli  europei. 


Non  farò  appello  alla  ricca  letteratura,  la  quale  pro- 
va il  magnifico  svolgimento  che  in  Inghilterra  hanno 
avuto  le  idee  di  libertà  politica  e  di  indipendenza  delle 
nazioni,  e  quale  profonda  influenza  quelle  idee  hanno 
avuto  sull'azione  degli  uomini  politici  inglesi.  Non  ri- 
corderò che  l'impero  inglese  è  divenuto  grande  perchè  è 
il  maggiore  conglomerato,  conosciuto  nella  storia,  di 
nazioni  libere  ed  indipendenti  le  une  dalle  altre  e  dalla 
madrepatria.  Non  ricorderò  neppure  come  l'esperienza 
della  guerra  attuale  abbia  provato  quanto  fervore  di  pa- 
triottismo   siasi   manifestato,     senza     alcuna     costrizione 


—  157  — 

dalla  madrepatria,  nel  Canada,  nell'Australia,  nel  Sud- 
Africa,  nell'India  stessa.  Non  ricorderò  come  siano  state 
crudelmente  deluse  le  speranze  di  coloro  i  quali  spera- 
vano vedere  sollevarsi  l'India  o  per  lo  meno  rompersi  i 
vincoli  di  unione  fra  l'Inghilterra  e  la  boera  Africa  del 
Sud.  Tutto  ciò  —  agli  occhi  dei  mercanti  di  buoi,  dei 
montanari  dalle  scarpe  grosse  e  dei  giornalisti  sopraf- 
fini, i  quali  avrebbero  preteso  che  l'on.  Salandra  contrat- 
tasse con  l'Inghilterra  prima  della  nostra  dichiarazione 
di  guerra  la  fornitura  gratuita,  o  il  che  fa  lo  stesso,  a 
50  lire  per  tonnellata,  di  tanti  milioni  di  tonnellate  di 
carbone  reso  a  Genova  —  appartiene  al  mondo  delle 
idee  e  delle  sentimentalità  e  non  conta  nulla. 

E  sia.  Atteniamoci  al  puro  interesse.  La  teoria  vera 
dell'equilibrio,  spoglia  di  ogni  elemento  ideale  di  sim- 
patia verso  le  nazionalità  oppresse,  dal  punto  di  vista 
inglese  è  la  seguente  :  «  è  necessario  per  la  salvezza  del- 
l'Inghilterra e  del  suo  impero  che  nessuno  Stato  euro- 
peo diventi  talmente  forte  da  potere  dominare  su  tutta 
l'Europa.  Perchè,  se  ciò  accadesse,  l'Inghilterra  in  un 
momento  successivo  diventerebbe  preda  dello  Stato  ege- 
monico e  sarebbe  finita  la  sua  esistenza  come  nazione 
indipendente  ». 

Non  vi  è  dubbio  che  la  teoria  dell'equilibrio,  così 
concepita  : 

—  risponde  ad  una  necessità  assoluta  per  1* Inghil- 
terra, fino  a  quando  almeno  si  creda  che  uno  Stato  agi- 
sca in  modo  da  potere  continuare  a  vivere; 

—  risponde  all'interesse  più  evidente  di  tutti  gli. 
Stati  europei,  salvo  di  quell'uno,  il  quale  vuole  acqui- 
stare dominio  sugli  altri; 

—  non  è  in  contrasto  con  l'idea  della  nazionalità; 


—  158  — 

poiché  in  um  continente  così  vario  per  razze,  lingue,  tra- 
dizioni come  l'Europa,  il  rispetto  delle  nazionalità  non 
può  non  lasciare  sussistere  una  varietà  grande  di  Stati 
sovrani,  incompatibile  con  il  predominio  di  uno  solo; 
—  non  è  in  contrasto  con  l'ideale  di  una  futura 
federazione  europea;  poiché  siffatta  federazione,  se  non 
imposta  da  uno  Stato  egemonico,  non  potrà  non  essere 
rispettosa  degli  ideali,  della  civiltà,  della  lingua  e  degli 
interessi  di  ogni  nazione  federata.  Contro  una  federa- 
zione di  simile  genere  la  teoria  inglese  dell'equilibrio  — 
quella  vera,  non  quella  inventata  dai  pseudo  storici  te- 
deschi recenti  —  non  ha  più  obbiezioni  da  fare.  L'im- 
pero inglese  è  anzi  il  tipo,  oggi  vivente  e  dalla  guerra 
rafforzato,  di  queste  libere  federazioni  di  Stato;  ne  si 
vede  la  ragione  per  cui  tra  l'impero  inglese  e  la  even- 
tuale federazione  europea  non  possano  stabilirsi  vincoli 
politici  in  forme  che  oggi  non  è  possibile  immaginare, 
ma  che  i  politici  dell'avvenire  saprebbero  escogitare. 

*** 

Queste  sono  vecchie  verità,  note  a  quanti  hanno  letto 
qualche  libro  di  storia.  Io  ho  tra  mani  un  interessante 
opuscolo  politico  di  Paul  de  Thoyras  Rapin,  storico  fran- 
cese, ugonotto,  cacciato  di  Francia  dopo  la  revoca  del- 
l'editto di  Nantes  (1686),  emigrato  in  Inghilterra  e  morto 
nel  1723  in  Olonda.  L'insigne  autore  di  una  delle  prime 
storie  scientifiche  dell'Inghilterra  in  questa  sua  Disscr- 
tation  sur  les  whtgs  et  les  torys  (A  la  Haye,  1717)  ha 
alcune  pagine  che  spiegano  benissimo  la  ragion  d'essere 
della  politica  d'equilibrio  seguita  già  allora  da  secoli 
dall'Inghilterra. 


159 


«  Dopo  l'ingrandimento  della  Casa  d'Austria  —  scri- 
veva lo  storico  francese  nel  1717,  ossia  subito  dopo  la 
fine  della  guerra  di  successione  d'Austria  durata  dal  1701 
al  1713  —  ossia  da  circa  duecent'anni  in  qua,  l'Inghil- 
terra ha  sempre  potuto  far  pendere  la  bilancia  o  dal 
lato  di  Casa  d'Austria  o  dal  lato  della  Francia,  secondo 
il  partito  che  essa  riteneva  migliore.  Ma  il  suo  interesse 
costante  e  perpetuo  è  stato  di  conservare  l'uguaglianza 
fra  questi  due  poteri.  È  questo  il  perno,  su  cui  da  due 
secoli  ha  girato  tutta  la  politica  dei  Re  d'Inghilterra  ». 
Se  Luigi  XIV  ha  fatto  tanti  tentativi  per  impedire  agli 
inglesi  di  prendere  partito  contro  di  lui,  ciò  fu  dovuto 
«  soltanto  ai  vasti  disegni  che  egli  aveva  formato  con- 
tro la  libertà  dell'Europa.  Senza  di  ciò,  egli  non  avreb- 
be avuto  bisogno  di  preoccuparsi  degli  inglesi.  Tutti 
sanno  che  Luigi  XIV  aveva  concepito  il  progetto  di  sta- 
bilire una  monarchia  universale  in  Europa.  Siccome  egli 
non  ignorava  che  l'interesse  dell* Inghilterra  era  di  man- 
tenere la  bilancia  dell'Europa  in  equilibrio  e  che  gli  in- 
glesi consideravano  questa  massima  come  il  fondamento 
principale  della  loro  sicurezza,  era  da  temersi  che  essi 
si  sarebbero  opposti  alla  esecuzione  dei  suoi  disegni  ». 
Di  qui  gli  intrighi  francesi  rivolti  a  profittare  del  desi- 
derio di  Carlo  II  di  ristabilire  il  potere  assoluto  in  In- 
ghilterra per  farlo  annuire  alla  sua  campagna  contro 
l'Olanda;  di  qui  la  protezione  concessa  dappoi  ai  pre- 
tendenti Stuardi  affine  di  tener  occupati  gli  inglesi  a 
casa  loro  ed  impedire  ad  essi  di  intervenire  negli  affari 
europei  mentre  egli  cercava  di  stabilire  sul  continente 
la  sua  egemonia.  Di  qui  le  diversioni  in  Irlanda,  dopo 
1*  cacciata  di  Giacomo  II.  Il  Re  di  Francia,  conclude  il 
TJioyras-Rapin,     ha     ragione     di     temere     l'Inghilterra 


—  160  — 

«  quando  egli  nutre  qualche  progetto  contro  il  resto  del- 
l'Europa.  Ma  se  egli  ha  per  iscopo  soltanto  di  vivere  in 
pace  e  di  difendersi  semplicemente,  nel  caso  egli  fosse 
attaccato,  nulla  può  essergli  tanto  vantaggioso  come  di 
coltivare  l'amicizia  dei   Re  d'Inghilterra  ». 


Sostituiamo  Filippo  II  di  Spagna,   Napoleone  ovvero 
la  Germania  odierna  a  Luigi  XIV  e   noi  abbiamo  nelle 
parole    del    Thoyras-Rapin    la    spiegazione    logica    della 
condotta   dell'Inghilterra   da   Elisabetta  ai    giorni   nostri. 
Essa   non    ha    alcun    interesse    a    mescolarsi    delle    cose 
europee,   se  non  quando  alcuno   degli  Stati   continentali 
((  nutra  qualche  progetto  contro  la  libertà  del  resto  del- 
VEuropa  ))   e   minacci   di   «  stabilire   una  monarchia  uni- 
versale sul  continente  ».  Per  impedire  la  monarchia  uni- 
versale  europea  l' Inghilterra  ha  profuso   miliardi   ed  ha 
versato   il  miglior  sangue  dei   suoi   figli.    Ne   è  possibile 
negare    che,   grazie    all'ostinazione   inglese    contro    Luigi 
XIV  ed  ai  sussidi  britannici,  il  Piemonte  potè  conservare 
la  sua  indipendenza  ed  il  suo  valoroso  principe,  Vittorio 
Amedeo    II,    potè   continuare   a   far  la   guerra   di   bande 
contadine  contro    gli   eserciti   di   Catinat,    fino    alla  pace 
del  1696  e  poi  nella  nuova  guerra  contro  la  Francia,  fino 
alla  liberazione  di  Torino  nel   1706.   Chi,  senza  l'ostina- 
zione   disperata    del    Piemonte  e  la  pertinacia    inglese 
avrebbe  potuto   impedire   alla  Francia  di   Luigi   XIV   di 
estendere  praticamente  il  suo  dominio  su  tutta  l'Italia? 
Alla  teoria  inglese  dell'equilibrio  non  dobbiamo  perciò 
forse  la  indipendenza  e  la  forza  del  Piemonte  prima  e 
l'indipendenza  italiana  poi? 


—  161  — 

Un  secolo  dopo  la  medesima  esperienza  si  ripete. 
Senza  l'ostinazione  inglese,  la  Germania  ben  difficil- 
mente avrebbe  potuto  scuotere  il  giogo  napoleonico. 
Nessuno  vuol  sminuire  l'abnegazione  e  le  virtù  civiche 
della  piccola  Prussia,  dove  sotto  le  ceneri  covava  il  fuo- 
co delia  rivolta  e  dove  insigni  statisti,  nei  momenti  del 
servaggio  più  duro,  apparecchiavano  i  mezzi  per  la  ri- 
scossa. Ma  è  certo  che,  senza  il  blocco  inglese,  senza 
l'annientamento  della  potenza  marittima  francese  a  Tra- 
falgar,  senza  gli  aiuti  forniti  dall'Inghilterra  alla  Russia, 
alla  Spagna,  all'Austria,  il  sogno  di  dominio  universale 
sull'Europa  era  prossimo  ad  avverarsi  con  Napoleone. 
L'Inghilterra  salvò  se  stessa,  lottando  contro  Napoleone: 
ma  nel  tempo  stesso  salvò  la  causa  della  nazionalità 
tedesca  e  di  quella  italiana.  Appunto  perchè  grandi  era- 
no gli  impulsi  al  rinnovamento  venuti  di  Francia,  gran- 
dissimo era  il  pericolo  che  l'Italia  divenisse  francese,  ri- 
nunciando alla  sua  autonomia  nazionale.  Fu  d'uopo  il 
duro  servaggio  autriaco  per  far  rifulgere  quella  coscien- 
za nazionale,  che  prima  era  obliterata  e  le  cui  lievi  trac- 
eie  facilmente  andavano  cancellandosi  nel  fulgore  del- 
l'impero napoleonico. 

Due  volte  l'Inghilterra,  durante  il  secolo  XIX,  rinun- 
ciò a  far  valere  la  teoria  dell'equilibrio.  Mal  ne  incolse 
a  lei  ed  all'Europa.  La  prima  volta  fu  quando  essa  as- 
sistette inerte  allo  smembramento  delle  contrade  danesi 
dello  Schleswig-Holstein  dalla  Danimarca.  Non  avere 
impedito  che  Austria  e  Prussia,  unite  per  allora  nella 
brutta  impresa,  togliessero  alla  Danimarca  anche  le  pro- 
vince prettamente  danesi  del  disputato  territorio,  dimi- 
nuì grandemente   il   prestigio   inglese   nella  Scandinavia. 


—  162  — 

La  seconda  volta  fu  quando  non  osò  intervenire  a  dispu- 
tare alla  Prussia  la  appropriazione  dell'Alsazia  Lorena. 

In  ambedue  questi  casi  di  assenteismo  dell'Inghil- 
terra si  ebbero  ferite  profonde  all'ideale  di  nazionalità 
ed  agli  interessi  della  pace  europea  duratura. 

No;  la  teoria  inglese  dell'equilibrio  non  è  un  idolo 
atroce  e  funesto;  ma  è  una  forza  benefica  contro  la  pre- 
potenza egemonica  di  uno  Stato  prepotente  sugli  altri 
Stati  europei.  Fino  a  quando  il  sorgere  di  una  federa- 
zione europea,  avente  comunanza  di  ideali  e  di  interessi 
con  la  federazione  britannica  non  la  renda  inutile,  la  teo- 
ria dell'equilibrio,  concepita  nel  modo  vero  inglese,  ossia 
sotto  la  forma  negativa  di  lotta  contro  l'egemonia  di  una 
sola  potenza  continentale,  rimane  la  garanzia  più  salda 
della  libertà  delle  nazioni  di  cui  l'Europa  si  compone. 
Hanno  «  l'ansia  penosa  di  rimanere  soffocati  »  da  que- 
sta teoria  soltanto  i  popoli  e  gli  Stati  i  quali  meditano 
di  dominar  gli  altri;  non  quelli  i  quali  aspirano  soltanto 
a  vivere  liberi  e  composti  in  unità  nazionale. 

(Dal  Corriere  della  Sera,   1°  febbraio   1917). 


L'IDEA  DELLO  STATO  COME  FORZA 

ENRICO  VON  TREITSCHKE  :  La  politica,  traduzione  di 
Ettore  Ruta;  voi.  I.  L'essenza  dello  Stato,  pag.  XV- 191; 
voi.  II.  Le  basi  sociali  dello  Stato,  pag.  189;  voi.  III. 
La  costituzione  dello  Stato,  pag.  VIII-331;  voi.  IV.  L'am- 
ministrazione dello  Stato.  Lo  Stato  nei  rapporti  tra  le 
nazioni,  pag.  219  (Bari,  Gius.  Laterza  e  figli,  1918. 
Prezzo  L.   25). 

Gli  editori  Laterza,  i  quali  si  erano  già  resi  bene- 
meriti pubblicando  l'anno  scorso  i  due  volumi  del  T. 
su  La  Francia  del  primo  impero  al  J87J  (L.  8),  hanno 
grandemente  accresciuto  le  loro  benemerenze  verso  la 
cultura  italiana  facendo  tradurre  questa  Politica,  che 
insieme  alla  Storia  della  Germania  è  una  delle  opere 
capitali  del  Treitschke. 

Non  ho  sottomano  il  testo  tedesco  e  non  posso  dire 
fino  a  qual  punto  la  traduzione  del  Ruta  sia  fedele. 
Dove  il  T.  parla  di  argomenti  tecnici,  di  diritto,  di  am- 
ministrazione, di  economia  politica  si  sente  il  vago  di 
chi  non  è  padrone  della  materia  e  non  può  quindi  sa- 
pere che  certe  parole  tedesche  si  traducono  con  certe 
altre  italiane,  le  quali  hanno  un  posto  preciso  nella 
terminologia  scientifica.  È  un  errore,  ad  es.,  tradurre 
Ein\ommensteuer  con  «  imposta  di  ricchezza  mobile  » 
o  peggio,  semplicemente  con  «  ricchezza  mobile  »;   che 


—  164  — 

è  traduzione  giornalistica  di  chi  non  ha  visto  che  il  con- 
tenuto delle  due  imposte  è  differente  :  l'imposta  te- 
desca, corrispondente  alla  cosidetta  imposta  globale  o 
di  famiglia,  essendo  sul  reddito  complessivo  della  per- 
sona, e  l'imposta  italiana  cadendo  sui  redditi  mobiliari 
soltanto,  esclusi  quelli  fondiari  e  non  tenendo  conto  del- 
le condizioni  particolari  del  contribuente.  Imposta  «  sul 
reddito  »  si  doveva  tradurre;  ma  ciò  avrebbe  contrastato 
con  una  piccola  manìa  del  Ruta  di  tradurre  con  parole 
italiane  vive,  fresche,  mosse,  talvolta  inventate  da  lui, 
che  vorrebbero  dare  al  testo  spigliatezza  e  brio.  Ed  in 
complesso  egli  si  fa  leggere  volentieri;  e  si  vorrebbe 
sperare  che  egli  renda  lo  stile  del  T.  Che  la  speranza 
sia  una  realtà,  ripeto,  non  so.  Si  stenta  a  credere  che 
l'originale  dia  una  impressione  di  stravaganza  come  tal- 
volta si  ha  dinnanzi  al  testo  italiano,  nel  quale  si  leggo- 
no anche,  per  eccezione,  dei  tedeschismi.  Che  cosa  è, 
ad  es.,  una  disgraziata  «  Cursassonia  »  che  in  italiano 
non  ha  neppur  significato?  Immagino  si  tratti  della  «  Sas- 
sonia elettorale  »;  ma  potrebbe  anche  essere  qual- 
cosaltro. 

Quanto  al  contenuto  del  libro,  non  oserei  essere  d'ac- 
cordo col  Ruta  nel  dire  che  la  sua  pubblicazione 
«  venga  ad  ovviare  al  difetto  in  Italia  di  un  trattato  mo- 
derno di  Scienza  dello  Stato,  con  benefizio  non  scarso, 
oltreché  del  pubblico  e  degli  studiosi  in  generale,  più 
in  particolare  degli  studenti  delle  nostre  università  e  in 
ispecie  degli  aspiranti  alla  carriera  diplomatica  e  con- 
solare, i  quali  vi  apprenderanno  cognizioni  precise  e 
ferme,  non  facili,  una  volta  comprese,  ad  essere  dimen- 
ticate ».  È  certo  che  studenti  e  concorrenti  non  pren- 
deranno   alla   lèttera   il    consiglio   del   traduttore,    poiché 


165 


correrebbero  il  rischio  di  essere  bocciati  all'esame.  La 
Politica  di  Treitschlce  è  un  «  libro  »,  ma  non  è  un  «  trat- 
tato »  per  le  scuole;  non  è  sistematico,  non  dà  una  ela- 
borazione giuridica  degli  istituti,  non  fornisce  quelle 
«  cognizioni  precise  »  di  cui  hanno  bisogno  giuristi  e 
funzonari. 

In  questo  campo,  per  non  uscire  di  Germania,  i  te- 
deschi vantano  una  magnifica  fioritura  scientifica,  di  cui 
citerò  solo  //  diritto  pubblico  dell impero  germanico  del 
Laband,  di  cui  YUtet  va  pubblicando  una  buona  versione 
dovuta  al  Siotto-Pintor.  Ma  trattasi  di  opere  le  quali  non 
hanno  nulla  a  che  fare  con  questa  del  T.  Chi  vuole 
avere  idee  precise  sul  diritto  costituzionale  ed  ammini- 
strativo cerchi  altrove.  Ciò  che  il  T.  dice  intomo  ai  sin- 
goli istituti  politici  non  va  al  di  là  di  quelle  nozioni  ge- 
neralissime,  le  quali  si  trovano  meglio  esposte,  più  nu- 
trite e  precise  nei  trattati  specialmente  ad  essi  con- 
sacrati. 

Gli  studenti,  i  concorrenti  faranno  assai  bene  a  leg- 
gere e  meditare  il  libro  del  T.,  non  per  apprendervi  la 
scienza  delle  costituzioni,  ma  per  la  stessa  ragione  per 
cui  dovrebbero  leggerlo  gli  scrittori  di  trattati  sulla 
scienza  delle  costituzioni,  i  giornalisti,  gli  uomini  poli- 
tici, gli  studiosi  di  storia,  di  economia,  ed  in  genere 
tutte  le  persone  colte  :  per  apprendervi  a  giudicare  gli 
avvenimenti  politici  e  storici  attraverso  un'idea  generale. 
Il  che  è  indispensabile  non  a  sapere  quella  determinata 
scienza  (scienza  delle  costituzioni  o  dell* amministrazio- 
ne o  del  diritto  internazionale),  ma  a  valutare  i  fatti 
che  di  quelle  singole  scienze  sono  l'oggetto,  ad  apprez- 
zare la  portata  delle  costruzioni  giuridiche  che  via  via 
sono    andate    elaborandosi.    I    pubblicisti    hanno    durato 


—  166  — 

lunghe  fatiche  per  elaborare  la  nozione  dell  «  Impero 
germanico  »,  stato  federale,  con  un  imperatore  tedesco, 
primus  inter  pares,  composto  di  Stati  sovrani  e  sovrano 
esso  stesso,  ecc.  Il  T.  guarda  un  po'  con  compatimento 
queste  fatiche  degli  illustri  suoi  colleghi  ed  esclama, 
con  Guglielmo  I  :  «  Ma,  se  l'impero  altro  non  è  che  la 
Prussia  allungata!  ».  Con  la  quale  esclamazione  egli  non 
distrugge  le  teorie  dei  pubblicisti;  le  quali  rimangono  ed 
hanno  una  portata,  anche  pratica,  grandissima,  poiché 
senza  di  esse  non  si  conoscerebbe  il  funzionamento 
reale  della  macchina  statale  tedesca.  Il  T;  vuole  avver- 
tire soltanto  che,  sotto  alla  forma,  sotto  agli  istituti  giu- 
ridici, con  cui  si  è  voluto  facilitare  il  passaggio  dalla 
vecchia  alla  nuova  Germania,  come  spirito  animatore 
e  dominatore  della  complicatissima  struttura  dello  Stato 
tedesco  vi  è  la  Prussia  e  nient' altro  che  la  Prussia.  Gli 
Stati  minori  se  ne  ricordino  :  «  la  Prussia  colla  sua  spada 
creò  l'unità  tedesca,  e  colla  spada  la  manterrà,  anche 
contro  le  velleità  di  fronda  della  Baviera  o  del  Baden  o 
del  Wurtemberg  ». 

L'idea-madre  della  Politica  dì  T.  è  nota  :  «  Lo  Stato 
è  la  pubblica  forza  coordinata  a  difesa  ed  offesa  ».  Idea 
profondamente  vera,  quella  stessa  del  «  Principe  »  di 
Machiavelli;  e  che  non  giova  respingere  con  grida  di 
orrore,  come  è  di  moda  adesso  presso  la  gente  svene- 
vole. Il  T.  si  incarica  egli  stesso  di  chiarire  e  di  com- 
mentare :  Machiavelli  disse  una  verità  profonda  quando 
ai  vani  simulacri  degli  Stati  di  diritto,  degli  Stati  morar 
lizzanti,  degli  Stati  che  si  raccomandano  alla  pietà,  al 
sentimento  di  giustizia  e  di  umanità  contrappose  l'idea 
dello  Stato-forza.  Ma  il  suo  Duca  del  Valentino  non  po- 
teva ridurre  a  Stato   1* Italia,   perchè   egli  l'avrebbe   fon- 


—  167  — 

data  sulla  forza  pura;  la  sua  costruzione  statale  cadde 
perchè  egli  ammazzava  i  nemici  solo  perchè  erano  ne- 
mici e  per  mettersi  lui  al  loro  posto.  Finche  fu  il  più 
forte,  lo  Stato  suo  crebbe;  quando  la  forza  gli  mancò, 
anche  lo  Stato  suo  ruinò  miseramente.  «  Lo  Stato  non 
è  forza  fìsica  come  fine  a  sé  stesso;  è  forza,  per  proteg- 
gere e  promuovere  i  supremi  beni  degli  uomini  ». 

Se  noi  partiamo  da  questa  idea-madre,  si  spiegano 
tutti  gli  atteggiamenti  di  T.  :  la  passione  del  suo  amore 
fervidissimo  per  la  Prussia  e  per  la  dinastia  degli 
Hoenzollern,  rude,  povera,  pertinace,  riuscita,  a  tra- 
verso secoli  di  sforzi  perseveranti,  a  dare  unità  alla 
Germania,  prima  campo  di  battaglia  delle  grandi  po- 
tenze europee.  Si  spiega  l'odio  inestinguibile  contro 
l'Austria,  questa  maschera  ipocrita  di  Stato,  priva  di 
contenuto  morale  e  spirituale,  sopravvivenza  degli  an- 
tichi Stati  a  tipo  orientale;  la  simpatia  accesa  verso 
l'Italia,  questa  «  nazione  »,  risorta  anch'essa  perchè 
seppe  avere  nel  Piemonte  la  sua  Prussia  unificatrice  e 
nella  Dinastia  di  Savoia  una  stirpe  di  capitani  e  di  poli- 
tici capaci  di  attuare  una  grande  idea;  l'Italia  a  cui  per 
diventare  una  grande  potenza  manca  (1892)  una  cosa 
sola  :  battersi.  Da  questa  sua  idea,  dello  Stato  che  è 
forte  perchè  vuole  conseguire  un  ideale  morale,  proven- 
gono anche  le  male  parole  contro  gli  Stati  Uniti,  che 
tolgono  il  respiro  agli  uomini  fini  con  la  loro  caccia  al 
dollaro,  e  contro  l'Inghilterra,  che  egli  sovratutto  con- 
cepisce come  adoratrice  del  borsellino.  Ed  in  questo  di- 
sprezzo egli  ha  torto;  ma  non  per  mala-fede  o  passione 
nazionale.  Semplicemente  per  ignoranza.  La  lettura  del 
suo  libro  persuade  che  il  T.,  fuor  di  una  conoscenza  or- 
dinaria della  storia   costituzionale   e  politica  dell' Inghil- 


—  168  — 

terra  e  degli  Stati  Uniti,  ignora  quei  paesi.  Ne  parla 
come  un  qualunque  neutralista  italiano,  il  quale  conosca 
l'Inghilterra  e  gli  Stati  Uniti  attraverso  le  sterline  ed  i 
dollari,  che  avrebbe  voluto,  almeno  almeno,  vedersi  ca- 
pitare in  tasca  senza  fatica  come  prezzo  dell'essere  scesi 
in  guerra.  Ma  è  rimasto  assente  dalla  letteratura,  dalla 
filosofia,  dalla  scienza  economica  inglese;  parla  della 
scuola  di  Manchester,  come  un  protezionista  volgare 
—  egli  che  pure  non  era  tale!  —  ne  può  dirsi  che  egli 
sia  penetrato  nello  spirito  di  Adamo  Smith  e  di  Ricardo. 
Nonostante  le  sue  incomprensioni  il  T.  è  un  grande 
scrittore.  Scrittore  di  aforismi,  che  gittano  luce  sui  pro- 
blemi della  storia,  della  guerra,  della  pace,  che  mettono 
a  nudo  la  vanità  delle  frasi,  delle  ipocrisie,  delle  teorie 
con  cui  i  partiti  ed  i  politici  spiegano  le  loro  azioni. 
Dicono  che  il  T.,  sordo,  parlasse  a  scatti,  in  falsetto, 
con  effetti  di  voce  e  di  intonazione  curiosi  ed  impen- 
sati, con  invettive  e  sarcasmi  feroci  contro  i  sassoni, 
i  bavaresi,  i  russi,  gli  austriaci  che  affollavano  la  sua 
aula.  Così  è  anche  lo  stile  della  Politica,  raccolta  viva 
di  lezioni  compilata  dai  suoi  studenti.  È  una  corsa  attra- 
verso ai  problemi  fondamentali,  che  sono  discussi  nei 
trattati  di  Scienza  di  Stato  e  del  Diritto  pubblico,  com- 
piuta da  chi  vuol  vedere  la  verità  vera,  nuda,  semplice 
sotto  alla  vernice  di  frasi  ed  ali* appello  alle  teorie. 
T.  smaschera  falsità  ed  ipocrisie  su  questo  o  quel  pro- 
blema e  passa  oltre.  Mette  alla  luce  il  tronco  vivo  della 
verità  storica  e  va  innanzi,  senza  indugi arvisi.  Contro  a 
quelli  che  non  vogliono  più  fare  la  storia  politica  e  di- 
sprezzano i  re,  i  capitani  e  le  battaglie  e  vogliono  solo 
parlare  del  popolo  e  delle  istituzioni  e  condizioni  sociali 
grida  irritato  :   «  Gli  uomini  fanno  la  storia,  uomini  come 


—  169  — 

Lutero,  Federico  e  Bismarck  ».  Contro  gli  assertori  della 
sanità  dei  trattati  butta  in  faccia  :  «  Forsechè  fu  ingiusto 
che  la  Prussia  rompesse  il  trattato  di  1  ilsitt  ed  il  Pie- 
monte la  pace  imposta  a  Novara?  ».  Ed  ancora,  contro 
il  feticcio  dei  trattati  perpetui  :  «  Il  superbo  «  noi  riprin- 
cipieremo  »  dei  piemontesi  battuti  manterrà  sempre  il 
suo  posto  nella  storia  dei  popoli  nobili  ».  Contro  coloro, 
i  quali  per  impedire  l'abbassamento  del  giornale  voglio- 
no sottoporre  i  giornalisti  ad  esame,  rinfaccia  :  «  Non 
è  l'intelligenza  che  fa  difetto  ai  catilina  della  penna,  ma 
il  carattere  ».  A  Buckle,  il  quale  spiegava  la  civiltà  con 
le  condizioni  geografiche,  contrappone  Pericle  a  cui  Tu- 
cidide aveva  fatto  dire  :  «  Non  il  paese  fa  l'uomo,  ma 
l'uomo  fa  il  paese  ».  A  coloro,  i  quali  credono  di  potere 
con  la  forza  pura  soggiogare  i  popoli,  ricorda  l'esercito 
di  Cromwell,  il  quale  si  sciolse  da  sé,  quando  la  na- 
zione volle  il  ritorno  di  Carlo  II  ed  aggiunge  :  «  La  forza 
fisica  dell'esercito  riesce  a  molto  meno  di  quanto  opi- 
nano i  dottrinari  contro  la  volontà  dichiarata  di  una 
nazione  ».  A  proposito  della  pena  di  morte  :  «  Una  isti- 
tuzione giudicata  barbara  dal  sentimento  universale,  ad 
es.,  la  tortura,  non  ritoma.  Invece  la  pena  di  morte 
ritorna,  perchè  giudicata  barbara  solo  dalla  pipa  pa- 
cifica dei  filantropi  ». 

Non  dunque  «  un  trattato  moderno  di  Scienza  dello 
Stato  »,  come  lo  definisce  il  traduttore,  è  l'opera  di  T.; 
ma  un  libro,  a  cui  i  trattatisti  hanno  attinto  ed  ancora 
attingeranno  le  idee  con  cui  si  scrivono  i  trattati  sistema- 
tici. Perciò  bisogna  leggerlo  e  meditarlo  con  altra  ani- 
ma di  quella  con  cui  gli  studenti  si  preparano  all'esame 
ed  alle  carriere:  con  reverenza  per  le  idee  informatrici. 
per  lo  spirito   vivificatore,   senza  badar   troppo    ai   parti- 


—  170  — 

colari,  senza  insistere  sulle  passioni,  sulle  assenze,  sulle 
ignoranze  dell'autore.  Egli  ha  voluto  dare  una  chiave 
per  interpretare  i  fatti  della  storia  :  la  forza  messa  al 
servizio  di  un  ideale  ed  ha  predicato  quindi  un  van- 
gelo :  conservarsi  o  diventare  forti  per  attuare  un  ideale 
morale.  Quale  sia  questo  ideale  morale  poco  si  vede. 
È  questa  la  lacuna  vera  dell'opera  del  T.  Egli  non  è 
un  adoratore  della  pura  forza.  Sente  che  la  vera  forza 
è  quella  messa  al  servizio  di  un'idea.  Ma  quale  sia 
questa  idea,  non  è  chiaro.  Perciò  il  suo  non  si  può  an- 
cora dire  un  trattato  di  politica.  A  tanta  opera  gli  man- 
cava, forse,  lo  spirito  filosofico.  Distrugge,  abbatte  le 
false  politiche  basate  su  ideologie  vacue.  Epperciò  è 
una  pietra  miliare.   Ma  non  vi  è  la  creazione  nuova. 

Che  cosa  egli  direbbe  se  fosse  vivo  oggi,  non  so. 
Quasi  certamente,  dato  il  senso  profondo  di  disciplina 
che  lo  anima,  parteggerebbe  coi  tedeschi.  Ma  non  po- 
trebbe neppure  misconoscere  che  francesi,  italiani,  in- 
glesi ed  americani  sono  degni  avversari  della  Germa- 
nia, perchè  essi  sono  sorti  in  armi  e  lottano  fieramente 
per  difendere  quelli  che  loro  sembrano  ideali  nobili  ed 
alti.  Le  sole  parole  acerbe  sue  andrebbero  contro  la 
Russia  e,  forse,  anche  contro  l'Austria.  Almeno,  que- 
sto, parmi,  sarebbe  il  giudizio  di  un  Treitschke  coerente 
sulla  guerra  attuale. 

(Da  La  Riforma  Sociale  del  settembre-ottobre  1918 
e  da  L'Italia  che  scrive,   settembre    1918). 


le  càuse  dello  scisma 

e  le  tendenze  verso  una  intesa 

dei  popoli  di  lingua  inglese 

Il  Beer  è  lo  scrittore  delle  tre  opere  :  Origins  oj  the 
British  Colonici  System  (1578-1660),  The  Old  Colonia! 
System  (1660-1754,  di  cui  però  è  venuta  fuori  sinora 
soltanto  la  prima  parte,  dal  1660  al  1688,  in  due  vo- 
lumi) e  The  British  Colonial  Policy  (1754-1765),  tutte 
pubblicate  dagli  editori  Macmillan  di  New  York;  ed 
in  esse  egli  ha  gittato  nuova  luce  sulle  origini  e  sulla 
vita  del  vecchio  sistema  coloniale  inglese  nelle  isole 
occidentali  ed  in  quelle  che  poi  diventarono  le  tredici 
colonie  originarie  nord-americane.  Ricerche  pazienti  di 
archivio  e  studio  della  letteratura  contemporanea  gli 
permisero  di  giungere  a  conclusioni  in  parte  nuove  e 
sempre  documentate  intorno  ai  rapporti  fra  madre-pa- 
tria e  colonie.  Principalissima  tra  le  conclusioni  a  cui 
il  Beer  giunse  in  quei  suoi  quattro  volumi,  modello  di 
seria  indagine  economica,  in  cui  l'erudizione  più  scru- 
polosa si  sposa  ad  una  penetrante  visione  storica,  sem- 
bra a  me  quella  secondo  cui  la  secessione  delle  tre- 
dici colonie  della  madre-patria  non  fu  dovuta,  come 
dice  la  tradizione  volgare,  ad  una  deliberata  oppres- 
sione fiscale  esercitata  dall'Inghilterra  sulle  colonie.  Il 
celebre  principio  no  taxation  without  representation  ha 


—  172  — 

un  significato  più  complesso  di  quanto  comunemente 
si  crede.  La  madre-patria  non  intendeva  imporre  tributi 
a  suo  arbitrio  ed  a  suo  beneficio  sulle  colonie.  Essa  in- 
tendeva risolvere  un  problema  impellente  :  come  far 
contribuire  le  colonie  alle  spese  che  la  madre-patria  so- 
steneva per  la  loro  difesa  contro  gli  Indiani  e  contro  i 
francesi  del  Canada  e  della  Luisiana?  La  madre-patria 
era  disposta  a  sostenere  l'onere  maggiore  di  quelle  spe- 
se, considerandole  utili  all'impero  in  generale;  ma  de- 
siderava che  la  parte  minore  fosse  sostenuta  dalle  co- 
lonie, a  cui  vantaggio  diretto  esse  ricadevano.  Ne  le  co- 
lonie, specie  quando  erano  premute  dai  pellirosse  o 
quando  i  francesi  minacciavano  alla  frontiera,  discono- 
scevano la  giustizia  del  richiesto  pagamento.  Ma  erano 
tredici,  indipendenti  le  une  dalle  altre,  prive  di  un  si- 
stema comune  di  imposte,  prive  anzi  di  "un  comune  si- 
stema di  rappresentanza  di  governo,  con  interessi  par- 
ziali divergenti,  sicché  non  riuscivano  a  mettersi  d'ac- 
cordo. Alcuni  tra  i  più  eminenti  coloni,  come  Beniami- 
no Franklin,  lamentavano  il  fatto  ed  avrebbero  voluto 
che  la  madre-patria  si  facesse  iniziatrice  di  una  orga- 
nizzazione statale  superiore,  capace  di  risolvere  il  com- 
plesso problema.  Putroppo  però  nel  secolo  XVIII  non 
si  erano  ancora  compiuti  gli  esperimenti  di  governo  fe- 
derale che  nel  Canada,  nell'Australia  e  nell'Africa  del 
Sud  diedero  alle  colonie  lo  strumento  di  un'azione  comu- 
ne. Quello  che  era  un  onesto  tentativo  di  ripartire  equa- 
mente le  imposte  e  di  creare  un  governo  coloniale  fe- 
derale parve  ai  coloni  tirannia  ed  oppressione  fiscale. 
La  madre-patria,  che  guardava  agli  interessi  generali 
ed  ai  rapporti  internazionali,  non  riuscì  ad  intendersi 
con   i   coloni,   la  cui   visione   del   mondo   era   ristretta   al 


—  173  — 

territorio  locale  ed  il  cui  interesse  a  contribuire  alle  spe- 
se comuni  era  diminuito  il  giorno  in  cui  la  Francia  ce- 
dette il  Canada  all'Inghilterra  e  venne  a  mancare  la  più 
forte  minaccia  alla  sicurezza  dei  coloni.  La  rivoluzione 
americana  fu  il  trionfo  del  municipalismo  e  della  ri- 
strettezza di  vedute  del  colono  avaro  contro  la  coscien- 
za degli  interessi  generali  che,  sebbene  imperfettamen- 
te, era  sentita  dagli  statisti  inglesi.  E  ben  lo  seppe  Wa- 
shington, il  quale  dovette  lottare  a  lungo  contro  la  ri- 
pugnanza delle  singole  colonie  ad  unirsi,  a  mantenere 
un  esercito  comune,  e  fare  le  spese  del  governo  federa- 
le: e  solo  vi  riuscì,  quando,  abbandonando  il  primo  ten- 
tativo di  federazione  di  Stati,  si  accolse  nel  1787  il  con- 
cetto di  un  unico  Stato  federale,  capace  dì  emanare  leg- 
gi proprie  e  di  ripartire  imposte  e  di  mantenere  un  eser- 
cito ed  una  flotta.  La  costituzione  del  1787,  tuttora  vi- 
gente, fu  la  rivendicazione  dell'Inghilterra,  poiché  que- 
sto e  non  altro  voleva  la  madre-patria  quando  tentò  di 
stabilire,  forse  con  scarsa  abilità,  ma  con  indubbio  di- 
sinteresse, un  sistema  generale  d'imposte  nelle  colonie. 

La  separazione  delle  colonie  dalla  madre-patria  fu 
inevitabile,  data  la  incapacità  in  cui  le  due  parti  della 
medesima  nazione  erano  di  comprendersi.  Forse  fu  an- 
che benefica,  perchè  consenti  alle  due  parti  di  svilup- 
pare caratteristiche  proprie  e  feconde.  Ma  è  possibile 
che  essa  abbia  oramai  dato  tutti  i  frutti  di  cui  era  ca- 
pace; e  che  oramai  il  processo  storico  abbia  a  ritornare 
su  se  stesso,  dando  luogo  ad  una  nuova  unione,  in  for- 
ma diversa  ed  adatta  ai  tempi,  tra  i  due  grandi  rami 
della  famiglia  anglo-sassone. 

Dieci  anni  fa,  nella  conclusione  di  The  British  Co- 
lonial  Policy,  il  Beer  scriveva  :  «  Si  può  immaginare  fa- 


—  174  — 

cilmente  e  non  è  affatto  improbabile,  che  la  evoluzione 
politica  dei  prossimi  secoli  possa  avere  un  andamento 
siffatto  che  la  rivoluzione  americana  perda  la  grande 
significazione  che  oggi  essa  ha  ed  appaia  semplicemen- 
te una  separazione  temporanea  di  due  popoli  congiunti, 
la  cui  intima  somiglianza  fu  oscurata  da  differenze  su- 
perficiali nascenti  da  condizioni  economiche  e  sociali 
diverse  ». 

La  guerra  mondiale  ha  presentato  all'attenzione  di 
tutti  quello  che  era  un  problema  visto  dà  pochi  pensa- 
tori e  storici.  Parlare  oggi  di  unione  fra  Stati  Uniti  ed 
Impero  inglese  è  prematuro;  ma  non  è  prematuro  par- 
lare di  intesa  ed  alleanza  fra  le  due  sezioni  dei  popoli 
parlanti  lingua  inglese,  che  col  tempo  potrà  dar  luogo 
a  forme  nuove  e  superiori  di  organizzazione  statale.  Il 
tentativo  gigantesco  di  predominio  della  Germania  sul- 
l'Europa prima  e  poi  sul  mondo  è  una  minaccia  diretta 
al  tipo  di  civiltà  britannico  e  nord- americano  ed  ha 
costretto  gli  Stati  Uniti  ad  uscire  dal  loro  isolamento  su- 
perbo, persuadendoli  che  1* americanismo  era  un  ideale 
antiquato  e  che  la  vecchia  dottrina  di  Monroe  non  sod- 
disfaceva più  alle  esigenze  nuove  della  politica  mon- 
diale, a  cui  gli  Stati  Uniti  non  possono  non  partecipare. 

Sarebbe  impossibile  esporre  compiutamente  il  pen- 
siero del  Beer,  misurato,  alieno  da  voli  lirici,  immune 
dalle  passioni  belliche,  le  quali  scemano  il  valore  per- 
manente di  tanta  parte  della  letteratura  provocata  dalla 
guerra.  Anche  questo  è  un  libro  d'occasione;  ma  scritto 
da  uno  storico  insigne,  il  quale  guarda  alle  grandi  cor- 
renti ed  ai  fatti  essenziali  che  la  guerra  mise  in  più 
chiaro  rilievo.  Ricorderò  solo  qualcuno  dei  punti  essen- 
ziali che  la  lettura  dell* opera  del  Beer  fa  risaltare  : 


75 


1)  Un'intesa  fra  i  due  grandi  rami  della  famiglia 
parlante  lingua  inglese  è  divenuta  più  facile  ora  che  gli 
Stati  Uniti  non  sono  più  un  paese  debitore  verso  la 
Gran  Bretagna  e  non  sono  quindi  più  mossi  da  quei 
sensi  di  invidia,  di  animosità  e  di  ribellione  che  spin- 
gono i  debitori  contro  i  creditori.  Già  da  due  decenni 
gli  Stati  Uniti  avevano  sostanzialmente  cessato  di  es- 
sere un  paese  debitore.  La  guerra  ha  accelerato  il  pro- 
cesso di  liberazione  ed  ha  creato  nuovi  vincoli  inversi, 
non  pericolosi,  ed  atti  a  stringere  i  legami  economici 
fra  le  due  parti; 

2)  L'intesa  non  si  deve  compiere  più  fra  gli  Stati 
Uniti  e  l'Inghilterra  ma  fra  gli  Stati  Uniti  e  la  Britlsh 
Commonwealth,  of  Nations,  quella  comunità  britannica 
di  nazioni  indipendenti  che  è  la  maggiore  creazione  po- 
litica del  secolo  XIX.  Non  è  l'intesa  fra  l'antica  madre- 
patria e  le  antiche  colonie,  ma  fra  due  grandi  confede- 
razioni mondiali,  appartenenti  alla  medesima  famiglia 
storica.  L'intesa  deve  in  sostanza  «  fondarsi  sul  fatto 
immutabile  che  questi  popoli  sono  strettamente  affini  ed 
hanno  essenzialmente  i  medesimi  ideali  ed  istituzioni 
politiche  »,  parlano  la  medesima  lingua,  hanno  la  stessa 
letteratura,  pensano  alla  stessa  maniera,  obbediscono 
alla  uguale  norma  dell'ossequio  alla  volontà  della  mag- 
gioranza concretata  nella  legge; 

3)  In  nessuna  parte  del  mondo  i  loro  interessi  sono 
in  conflitto;  e  nei  punti  essenziali  essi  collimano  :  porta 
aperta  nella  Cina,  serbata  indipendente,  difesa  degli 
Stati  dell'America  meridionale  contro  le  oppressioni  al- 
trui, difesa  della  Francia,  dell'Italia,  del  Belgio,  dell'O- 
landa, della  Scandinavia  e  della  Grecia  contro  la  mi- 
naccia   di    predominio    politico    delle   potenze    centrali. 


—  176  — 

Il  mezzo  per  raggiungere  lo  scopo  è  unico  :  la  conser- 
vazione del  dominio  dei  mari  in  caso  di  guerra.  Sepa- 
rati, i  due  rami  della  famiglia  inglese  soccomberebbero 
sotto  al  peso  schiacciante;  uniti,  essi  sono  certi  di  rag- 
giungere la  sicurezza  quasi  assoluta  del  proprio  svilup- 
po avvenire,  grazie  ad  una  marina  da  guerra  e  ad  una 
marina  mercantile  invincibili.  Il  che  metterà  l'intesa  dei 
popoli  di  lingua  inglese  al  riparo  dalla  necessità  di  man- 
tenere enormi  eserciti  stanziali,  con  il  conseguente  pe- 
ricolo di  creare  uno  stato  di  spirito  militarista  ed  ag- 
gressivo. Basterà  la  nazione  armata,  con  larghissimi  qua- 
dri,  da  riempire  in  occasione  di   guerre; 

4)  L'antica  teoria  dello  Stato,  sovrano  assoluto  ed 
indipendente  entro  i  limiti  del  proprio  territorio,  si  di- 
mostra sempre  più  in  contrasto  con  le  necessità  attuali 
e  feconda  di  pericolosi  conflitti.  Essa  porta  allo  Stato 
isolato,  e  poiché  questo  è  una  assurdità  economica, 
conduce  al  bisogno  di  «  sicurezze  »  e  di  «  garanzie  » 
esterne.  L'idea  dello  Stato  che  non  riconosce  vincoli  su 
di  se,  che  esige  obbedienza  incondizionata  ed  esclu- 
siva dai  proprii  sudditi  contrasta  col  fatto  che  i  sudditi 
in  misura  crescente  hanno  relazioni  economiche,  intel- 
lettuali, morali  fuori  del  territorio  statale.  Per  garantire 
quelle  relazioni,  lo  Stato  vuole  diventare  bastevole  a  se 
stesso;  vuole  mettere  le  mani  sulle  foci  dei  fiumi,  sulle 
miniere,  sulle  foreste,  sui  mari,  sulle  colonie.  È  il  ce- 
lebre ritornello  tedesco  dell' a  aria  che  manca  »,  del 
«  posto  al  sole  »,  delle  «  garanzie  reali  »,  le  quali  con- 
ducono fatalmente  al  dominio  del  mondo  da  parte  di 
una  razza  privilegiata  e  predestinata.  Non  vi  è  via  di 
mezzo  :  o  si  conserva  l'idea  dello  Stato  formatasi  nei 
secoli  dal  XVI   al  XIX,   Stato   sovrano,   chiuso,  perfetto, 


—  177  — 

e  si  giunge  fatalmente  allo  Stato  egemonico  mondiale. 
Ovvero  si  riconosce  che  quell'idea  è  antiquata;  che  vi 
è  una  necessaria  interdipendenza  fra  Stati;  che  nessuno 
di  essi  può  aspirare  alla  sovranità  assoluta  ed  illimi- 
tata, ma  anzi  i  legami  interstatali  sono  la  necessaria  con- 
dizione per  un  più  ricco  e  largo  sviluppo  dell'attività  dei 
singoli  Stati  e  noi  giungiamo  all'idea  della  società  delle 
nazioni. 

Ma  questa  per  oggi  rimane  un  ideale  lontano,  a  cui 
si  deve  giungere  per  gradi.  Un  passo  gigantesco  sulla 
via  della  società  di  nazioni  uguali  fu  compiuto  con  la 
creazione  della  British  Commonwealth  of  Nations,  che 
male  si  esprime  con  la  espressione  comune  di  «  impero 
inglese  »,  quando  non  di  un  impero  si  tratta,  ma  di  una 
società  di  Stati  liberi,  indipendenti  ed  uguali.  Un  passo 
ulteriore  sarà  compiuto  con  la  conclusione  dell'intesa  od 
alleanza  anglo-americana.  E  se  d'altro  canto  sorgerà 
una  lega  latina  —  Francia  ed  Italia,  a  cui  potranno  ag- 
giungersi poi  la  Spagna,  il  Portogallo  e  forse  gli  Stati 
dell'America  meridionale  —  la  creazione  di  una  unione 
germanica  centrale  non  potrà  più  riuscire  pericolosa. 
Anzi  le  varie  unioni  saranno  il  più  saldo  fondamento 
pensabile  alla  futura  società  delle  nazioni.  «  Quando  si 
studia  il  corso  della  evoluzione  storica,  diventa  chiaro 
che  l'instaurazione  della  legge  e  della  giustizia  nei  rap- 
porti fra  uomo  e  uomo  e  fra  gruppo  e  gruppo  è  dive- 
nuta possibile  solo  grazie  alla  formazione  di  aggregati 
politici  sempre  più  ampi.  Quando  questo  processo  è 
volontario,  esso  è  indice  di  progresso.  Il  mondo  comin- 
cia appena  ora  a  comprendere  che  lo  Stato  non  è  uni- 
cellulare e  che  possono  entro  di  esso  coesistere  parec- 
chie  e   concorrenti  sudditanze.   L'ideale  dello  Stato  na- 


—  178  — 

zionale  è  sempre  vigoroso,  ma  la  comunità  britannica 
delle  nazioni  (British  Commonwealth  of  Nations)  dimo- 
stra concretamente  che  può  esistere  un  più  alto  tipo  di 
associazione  politica  in  cui  la  legge  e  la  giustizia  for- 
mano una  congerie  disseminata  di  popoli,  ad  ognuno  dei 
quali  è  assicurato  il  libero  ed  intiero  sviluppo  dei  loro 
proprii  ideali.  Le  prospettive  di  un  eventuale  regno  del- 
la legge  e  del  governo  della  ragione  nel  mondo  sareb- 
bero in  verità  ben  negre  se  l'avvenire  non  recasse  in 
grembo  organizzazioni  politiche  ancora  più  vaste,  le 
quali  permettano  la  più  ampia  libertà  alle  nazioni  ed 
agli  Stati,  unendoli  nel  tempo  stesso  per  il  raggiungi- 
mento dei  comuni  scopi  dell'umanità.  In  una  intesa  dei 
popoli  parlanti  lingua  inglese  si  possono  vagamente  in- 
tuire i  lineamenti  di  una  nuova,  non  mai  vista  forma  di 
associazione  politica,  la  quale,  preservando  ad  ogni 
parte  la  sua  intiera  libertà,  tutte  le  unisca  permanente- 
mente non  solo  per  la  difesa  della  comune  civiltà  e  dei 
comuni  ideali,  ma  anche  in  difesa  della  libertà  di  tutti 
i  popoli  minacciati  dalle  spade  di  coloro  i  quali  si  pro- 
stemano  dinanzi  al  tabernacolo  della  forza  organiz- 
zata ». 

(Da    a  La   Riforma   Sociale  »,    fase.    7-8,    luglio-ago- 
sto  1918). 


IL  RITORNO  DELLA  "FIOR  DI  MAGGIO,, 

Nous  voici  Lafayette!  corre  già  la  leggenda  abbiano 
detto  gli  americani  salutando  i  camerati  francesi  allo 
sbarco  sulla  bella  terra  di  Francia.  The  return  o/  the 
Mayflower,  hanno  intitolato  gli  inglesi  l'arrivo  delle 
navi  da  guerra  americane  sulle  sponde  dell'antica  ma- 
drepatria, da  cui  era  salpata  la  nave  sulla  quale  i  puri- 
tani, ruggendo  alle  persecuzioni  religiose  degli  Stuardi, 
cercavano  asilo  sulla  libera  terra  americana.  Ambi  i 
motti  hanno  un  nobile  significato  storico  :  vuol  dire  il 
primo  che  gli  americani  vengono,  dopo  142  anni,  a  re- 
stituire ai  francesi  l'aiuto  porto  un  tempo,  duce  La- 
fayette,  per  la  conquista  della  indipendenza  e  della  li- 
bertà. Dice  il  secondo  che,  dimenticata  l'antica  discor- 
dia, dopo  un  secolo  di  pace  ininterrotta,  i  discendenti 
dei  coloni  americani  hanno  sentito  profonda  l'unità  di 
cultura,  di  ideali,  di  lingua  che  li  univa  all'Inghilterra 
e  sono  accorsi  a  difendere  in  Europa  quegli  ideali, 
quella  cultura  e  quella  lingua  contro  il  pericolo  minac- 
ciante. Fra  i  due,  il  primo  è  più  chiaro  e  semplice  e 
commovente  :  ed  il  tema  della  riconoscenza  dei  popoli 
avrà  in  avvenire  un'esemplificazione  stupenda  nel  sim- 
bolico ritorno  di  Lafayette  in  Francia.  I  francesi  del 
secolo  XVIII,  i  quali  cavallerescamente  accorrono  in  di- 
fesa dei  coloni  insorti;  e  gli  americani  del  secolo  XX, 
i    quali,   trascurando    guadagni    e    comodi,    restituiscono 


—  180  — 

oggi  l'aiuto  ricevuto.  Due  repubbliche  sorelle,  due  po- 
poli i  quali  a  distanza  di  secoli  si  soccorrono  fraterna- 
mente nella  lotta  contro  lo  spinto  di  tirannia  e  di  con- 
quista. 

Meno  commovente  ma  forse  più  profonda  è  la  si- 
gnificazione del  motto  che  si  intitola  al  ritorno  della 
nave  puritana  «  Fior  di  maggio  ».  Ricordiamo.  Alla  vi- 
gilia della  guerra  dell'indipendenza  americana,  l'impero 
inglese  era  già  divenuto  il  più  potente  dominio  colo- 
niale del  mondo.  Distrutta  la  potenza  marittima  spa- 
gnuola,  espulsi  o  quasi  i  francesi  dalle  Indie  e  dal  Ca- 
nada, ridotti  il  Portogallo  e  l'Olanda  ad  una  posizione 
di  second'ordine,  ben  si  poteva  dire  che  il  sole  non 
tramontava  mai  sui  dominii  della  Gran  Bretagna.  La 
storia  corrente  vuole  che  essa  sia  stata,  per  libidine  di 
tirannia,  sul  punto  di  perdere  i  vantaggi  acquistati.  Le 
ingiuste  esazioni  degli  inglesi  nell'America  del  Nord 
avrebbero  fatto  divampare  la  rivolta  tra  i  coloni  i  quali, 
aiutati  dai  francesi,  conquistarono  l'indipendenza,  to- 
gliendo così  alla  madrepatria  la  più  promettente  e  po- 
polosa delle  sue  colonie.  Alla  pace  di  Parigi,  il  domi- 
nio mondiale  dell'Inghilterra  pareva  davvero  scosso  : 
l'India  non  ancora  abbastanza  apprezzata  e  quasi  con- 
siderata solo  adatta  a  fondaci  di  mercanti,  inesistente 
l'Australia,  olandese  l'Africa  del  Sud,  un  deserto  di 
ghiaccio  il  Canada.  Fu  l'ostinazione  ventennale  contro 
Napoleone  che  ridiede  all'impero  inglese  l'antico  splen- 
dore. Ma  nella  sua  storia  la  rivolta  delle  tredici  colonie 
è  un  punto  d'arresto;  il  quale  divenne  il  principio  del 
risorgimento  solo  grazie  al  senno  politico  della  vecchia 
Inghilterra,  Ammaestrata  invero  dal  rischio  corso  nel 
volare  imporre  la  sua  volontà  alle  colonie  recalcitranti, 


—  181  — 

essa  concesse  alle  colonie  rimastele  ed  a  quelle  nuove, 
una  dopo  l'altra,  governo  autonomo,  anzi  indipendente  : 
sicché  oggi  l'impero  britannico  è  una  sciolta  federazio- 
ne di  Stati  gli  uni  indipendenti  dagli  altri,  liberi  di  par- 
tecipare o  non  alle  guerre  della  madrepatria,  immuni 
da  tributi,  uniti  solo  dal  tenuissimo  vincolo  dell'omag- 
gio di  sudditanza  reso  a  Giorgio  V,  simbolo  della  unità 
imperiale.  Lo  spettro  della  rivolta  delle  tredici  colonie 
turbò  i  sonni  degli  statisti  inglesi  per  tutto  il  secolo 
XIX,  sicché  gli  uni  già  si  adattavano  al  pensiero  che  le 
colonie  quali  frutti  maturi  si  dovessero  ad  un  certo  mo- 
mento fatalmente  distaccare  dall'albero  della  madrepa- 
tria; e  gli  altri  le  volevano  conservare  solo  come  sorelle 
minori  e  indipendenti  di  un  vago  complesso  di  Stati 
sovrani    e   tra   di   loro   appena   nominalmente    federati. 

Se  questa  concezione  storica  fosse  la  sola  vera  o 
quella  compiutamente  vera,  che  cosa  significherebbe  il 
ritorno^  nei  mari  britannici  della  mitica  nave  puritana? 
Nulla  più  che  il  rinsaldarsi  dei  vincoli  ideali  di  sangue 
e  di  fratellanza  sempre  esistiti  fra  Inghilterra  e  Stati 
Uniti,  sebbene  talvolta  dimenticati  nel  calore  dei  litigi 
fraterni.  Molto,  sì,  ma  nulla  di  ben  profondo  e  inno- 
vatore. 


Ma  quella  concezione  storica,  se  non  è  erronea,  è 
però  incompiuta.  La  rivolta  delle  tredici  colonie,  che 
parve  rompere  per  sempre  i  vincoli  fra  le  due  parti  del 
mondo  anglo-sassone,  fu  un  fatto  storico  probabilmente 
e  certamente  fecondo.  Grazie  ad  esso  gli  Stati  Uniti 
svilupparono  uno  speciale  tipo  di  civiltà,  diverso  da 
quello   primitivo    anglo-sassone,    diedero    luogo    ad   uno 


—  182  — 

sperimento  di  governo  federale,  che  ebbe  un  grande 
successo;  mentre  l'Inghilterra,  ammaestrata,  a  poco  a 
poco  riuscì  a  creare  un  tipo  di  impero,  che  non  ha  ri- 
scontro nella  storia  e  che  è  la  prima  attuazione  effet- 
tiva di  quell'ideale  della  consociazione  delle  nazioni  che 
è  stato  il  sogno  e  il  tormento  di  tanti  pensatori.  Tutto 
ciò  è  stato  il  frutto  della  rivolta. 

(  Oggi  però  quel  frutto  è  stato  colto;  e  fa  d'uopo  pro- 
cedere innanzi,  se  non  si  vuole  che  l'albero  isterilisca. 
Lo  storico  della  politica  coloniale  britannica  fin  da  dieci 
anni  fa  scriveva  :  «  È  immaginabile  e  per  nulla  impro- 
babile che  la  evoluzione  politica  dei  prossimi  secoli 
possa  assumere  un  andamento  siffatto  che  la  rivolu- 
zione americana  perda  del  grande  significato  che  oggi 
le  è  attribuito  ed  appaia  meramente  essere  la  separa- 
zione temporanea  di  due  popoli  affini, •  la  cui  intima 
simiglianza  fu  oscurata  da  superficiali  differenze  risul- 
tanti dalla  diversità  delle  condizioni  economiche  e  so- 
ciali »  (brano  nuovamente  riprodotto  dal  medesimo  au- 
tore G.  L.  BEER  in  The  English  Speaking  Peoples.  New 
\ork,  Macmillan,  1917).  Le  indagini  storiche  compiute  da 
Beer  e  da  altri  hanno  invero  dimostrato  che  non  di  op- 
pressione inglese  si  deve  parlare,  non  di  volontà  di  esi- 
gere imposte  a  favore  della  madre-patria  e  contro  la 
volontà  delle  colonie,  ma  di  una  incapacità  reciproca 
di  comprendersi  tra  due  rami  dello  stesso  popolo  giunti 
ad  un  momento  diverso  del  proprio  sviluppo.  Potenza 
mondiale  la  madrepatria  fin  dal  secolo  XVIII,  era  ben 
persuasa  che  ad  essa  incombesse  l'obbligo  e  l'onore  di 
difendere  l'Impero;  ma  non  sapeva  persuadersi  che, 
nell'America  settentrionale,  ad  essa  toccasse  esclusiva- 
mente l'onere  di  difendere  i  beni  e  le  persone  dei  co- 


183 


Ioni  contro  le  aggressioni  degli  indiani  pellirosse  e  con- 
tro i  francesi  del  Canada  e  della  Luisiana.  E  ad  ogni  per- 
sona imparziale  tra  i  coloni  medesimi  —  e  valga  per 
tutti  il  nome  di  Beniamino  Franklin  —  la  pretesa  dei 
coloni  di  essere  difesi  a  spese  altrui  appariva  priva  di 
qualsiasi  fondamento.  Ma  le  colonie  erano  tredici,  divise 
ed  indipendenti  le  une  dalle  altre,  reciprocamente  ge- 
lose e  sospettose,  sicché  fu  impresa  impossibile  metterle 
d'accordo  per  costituire,  a  spese  comuni,  un  esercito 
ed  una  amministrazione  comune.  Neppure  coll'offerta 
di  assumere  a  suo  carico  la  parte  maggiore  delle  spese 
coloniali  di  difesa  e  di  carattere  generale  potè  l'Inghil- 
terra indurre  le  colonie  alla  concordia  ed  all'unione. 
Era  il  dissidio  insanabile  fra  la  concezione  politica  mon- 
diale ed  unitaria  della  madrepatria,  e  quella  municipale 
e  ristretta  delle  colonie.  La  concordia  venne  meno  e  la 
federazione  nord- americana  fu  creata  per  virtù  della 
guerra  civile;  che  tale  fu  la  guerra  fra  l'Inghilterra  e 
le  colonie  rivoltose.  Sotto  la  pressione  della  guerra,  in- 
fiammate dall'ardore  dell'ideale  dell'indipendenza,  le 
tredici  colonie  si  unirono  e  crearono  la  federazione. 
Fu  il  frutto  della  rivolta;  e  per  esso,  come  per  l'esem- 
pio dato  alla  formazione  delle  federazioni  canadese, 
australiana,  africana,  e  poi  della  comunità  britannica  di 
nazioni    quella   rivolta    è   storicamente    giustificata. 


Oggi,  il  grande  equivoco  storico,  da  cui  nacque 
la  rivoluzione  americana,  non  ha  più  ragione  d'essere. 
I  due  rami  del  popolo  anglosassone  hanno  raggiunto 
un   medesimo   grado   di   sviluppo  politico.    Due   potenze 


—  184  — 

mondiali,  come  la  Comunità  delle  nazioni  britanniche 
e  gli  Stati  Uniti,  non  possono  rimanere  dissociate. 
Il  ritorno  della  «  Fior  di  maggio  »  ha  questo  significato  : 
che  americani  del  nord  ed  inglesi  —  gli  inglesi  della 
federazione  di  nazioni  componenti  il  cosidetto  im- 
pero »  e  non  gli  inglesi  della  piccola  madrepatria  d'un 
tempo  —  riconoscono  di  dovere  agire  concordi  per  il 
conseguimento   di   comuni    ideali    politici. 

Spiritualmente,  essi  formano  un  solo  popolo,  par- 
lante la  medesima  lingua  ed  orgoglioso  per  la  mede- 
sima  letteratura. 

Economicamente,  essi  hanno  interesse  alla  costitu- 
zione di  un  unico  grande  mercato,  dove  i  rispettivi 
prodotti  si   scambino  liberamente. 

Politicamente,  essi  sono  persuasi  della  necessità  di  op- 
porre una  fronte  comune  per  la  difesa  dei  propri  ideali 
spirituali  e  dei  propri  interessi  economici  contro  il  comu- 
ne nemico,  il  quale  oggi  è  la  Germania  e  domani  potrà 
essere  qualche  altro  aggregato  politico  forse  extra- 
europeo. Inglesi  ed  americani  sulle  rive  della  Marna 
difendono  il  suolo  francese  e,  difendendo  questo,  sanno 
di  combattere  in  difesa  della  propria  esistenza  politica 
indipendente.  Fu  il  pericolo  della  diminuzione  oggi  e 
della  distruzione  domani,  il  quale  ridestò  i  vincoli  del 
sangue,  e  quel  pericolo  li  cementerà  vieppiù  col  tempo. 
Le  tredici  colonie  sa  erano  separate  dall'Inghilterra 
perchè  il  Canada  francese,  diventato  dopo  il  1754  do- 
minio inglese,  più  non  le  minacciava  a  tergo.  Oggi  il 
sorgere  dello  spettro  della  egemonia  mondiale  germa- 
nica ha  persuaso  i  cugini  anglo-sassoni  a  stringersi  nuo- 
vamente insieme.  Uniti,  essi  sono  probabilmente  in- 
vincibili per  secoli.   Nessuna  nazione   al  mondo,    anche 


85 


se  diventasse  la  potenza  egemonica  europea,  anche 
se  il  sogno  medio-europeo  si  realizzasse,  potrà  strap- 
pare al  popolo  anglo-sassone  unito  il  dominio  del  mare  : 
poiché  nessun  popolo  potrà  avere  altrettanti  marinai 
ed  altrettanti  navi  mercantili,  che  sono  il  vero  nerbo 
della  forza   militare   marittima. 

Uniti,     essi      possono      difendere    il    principio    della 
porta   aperta  in   Cina   e   quello    di    Monroe    in   America, 
i  quali  dipendono,  per  la  loro  esistenza,  dalla  conserva- 
zione   del    dominio    dei    mari    da   parte   di    una    potenza 
decisa  a  non  sopraffare   altrui. 

Se  le  due  grandi  federazioni  di  popoli  liberi  proce- 
dono concordi  ed  unite,  l'India  potrà  a  grado  a  grado 
evolvere  verso  la  comunità  britannica,  a  parità  con  le 
altre  nazioni  e  senza  alcuna  rinuncia  alle  proprie  carat- 
teristiche   nazionali. 

La  permanenza  di  una  lega  delle  due  federazioni 
anglo-sassoni  è,  finalmente,  la  condizione  essenziale 
per  la  libertà  dell'Italia,  della  Francia,  del  Belgio,  del- 
l'Olanda, dei  Paesi  scandinavi,  della  Grecia  e  della 
Spagna.  La  lega  anglo-sassone  non  ha  alcun  interesse 
ad  asservire  le  nazioni  europee,  ed  ha  invece  inte- 
resse grandissimo  ad  impedire  che  un  potere  egemo- 
nico possa  organizzare  1* Europa  e  parte  dell'Asia  per 
minacciare  la  sua  esistenza  medesima.  Data  la  scom- 
parsa per  un  tempo  indefinito  dalla  grande  scena  po- 
litica del  mondo  slavo,  l'unica  speranza  di  impedire 
l'egemonia  germanica  in  Europa  e  nel  mondo  sta  nella 
riunione  delle  due  frazioni  del  popolo  anglo-sassone. 
Noi  non  sappiamo  qual  forma  quella  riunione  assu- 
merà;  probabilmente  non  di  vera  riunione  politica,   ma 


—  186  - 

di    lega   indirizzata    a    certi    scopi    di    polizia    internazio- 
nale  e  di  difesa  della  vera  libertà  dei  mari. 

Se  questo,  che  è  un  programma  imposto  dalla  ne- 
cessità di  difesa  e  di  vita,  è  destinato  ad  avverarsi, 
un'altra  necessità  si  impone  :  la  federazione,  o  la  lega, 
o  la  riunione  franco-italiana.  Nel  mondo  dei  colossi  di 
domani,  non  vi  è  posto  per  le  nazioni  mediocri.  Fran- 
cia e  Italia,  se  non  vogliono  diventare  dei  Belgio  e 
delle  Grecie  di  dimensioni  territoriali  un  po'  più  vaste, 
viventi  per  le  gelosie  dei  potenti  vicini,  devono  riu- 
nirsi. Divise,  esse  sono  destinate  a  diventare  nazioni  in- 
significanti, oggetti  di  curiosità  storica;  riunite,  esse  co- 
stituiscono il  nucleo  di  un  rinnovato  Impero  Romano 
d'Occidente,  verso  cui  dovrà  gravitare  la  Spagna  e  con 
la  Spagna  forse  le  nazioni  italo-spagnuole  dell'America 
meridionale,  in  cui  già  sorgono  voci  per  il  rinsalda- 
rnento  dei  vincoli  con  l'antica  madrepatria.  La  guerra 
odierna  pone  problemi  solenni.  Guai  a  quei  paesi  i 
quali  non  ne  hanno  sentore  e  lasciano  passare  l'ora, 
la  quale  può  decidere  del  loro  destino  per  secoli! 

(Dalla  Minerva,    16   agosto    1918). 


IL  PROBLEMA  FINANZIARIO 
DELLA  SOCIETÀ'  DELLE  NAZIONI 

Forse  uno  dei  problemi  più  difficili  da  somontare 
per  la  costituzione  della  lega  delle  nazioni  è  quello  di 
creare  la  sua  finanza.  Nessun  corpo  politico  può  esi- 
stere senza  il  fondamento  di  un  bilancio  di  entrate 
e  di  spese.  Una  lega  delle  nazioni,  la  quale  non  avesse 
redditi,  non  potrebbe  spendere,  e  quindi  non  potrebbe 
efficacemente  esercitare  quella  qualunque  autorità  che 
gli   Stati   collegati   volessero   delegarle. 

Se  la  polizia  dei  mari  sarà  un  compito  della  lega, 
essa  dovrà  costruire  navi  proprie  da  guerra,  ripararle, 
mantenere  gli  equipaggi  e  lo  stato  maggiore.  Non  gio- 
verebbe che  un  consiglio  internazionale  di  ammiragli 
sovraintendesse  ad  unai  flotta  mista  di  navi  apparte- 
nenti alle  nazioni  collegate.  Gelosie,  confusione,  inef- 
ficacia, sarebbero  le  conseguenze  inevitabili  della  man- 
canza di  unità  di  comando  e  di  esecuzione.  Avrà  la 
lega  l'ufficio  di  decretare  il  boicottaggio  commerciale 
di  uno  Stato  recalcitrante  alle  regole  comuni?  Siccome 
il  boicottaggio  danneggia,  insieme  al  paese  messo  al- 
l'indice, anche  i  paesi,  i  quali  prima  esportavano  verso 
di  esso,  e  li  danneggia  in  misura  diversa,  così  dovrà 
escogitarsi  qualche  mezzo  per  ripartire  uniformemente 
sui    confederati    il    danno    prodotto     dall'azione     voluta 


—  188  — 

nell'interesse  di  tutti;  così  da  evitare  i  malcontenti  e  gli 
screzi  di  una  incidenza  disuguale  sui  singoli.  E  così  via. 

Qualunque  funzione,  di  gestione  dei  porti  interna- 
zionali, dei  fiumi,  dei  canali,  degli  stretti;  di  ammini- 
strazione delle  colonie;  di  tutela  della  proprietà  indu- 
striale ed  artistica;  delle  poste,  dei  telegrafi  e  dei  te- 
lefoni, implica  una  spesa  e  quindi  un'entrata  corri- 
spondente. 

Talvolta,  l'entrata  è  fornita  dal  servizio  stesso,  come 
nel  caso  delle  poste,  dei  canali,  dei  fiumi  ecc.;  ma 
tal' altra  no,  come  per  compiti  politici  di  polizia  inter- 
nazionale. 

Due  sistemi  principali  possono  <  essere  messi  innanzi 
per  provvedere  alla  formazione  di  una  finanza  della 
costituenda  lega  delle  nazioni  :  quello  che  italiana- 
mente si  direbbe  dei  ratizzi  e  quello'  delle  imposte 
proprie. 


Dicesi  sistema  dei  ratizzi  quello,  per  cui  le  nazioni 
collegate  si  obbligherebbero  a  versare  in  un  fondo  co- 
mune un  contributo  annuo  determinato  in  ragione  della 
popolazione,  superficie,  ricchezza  o  reddito  nazionale 
rispettivo.  Il  metodo  delle  imposte  proprie  si  ha  quando 
la  lega  delle  nazioni  direttamente  si  rivolge  ai  citta- 
dini degli  Stati  collegati,  e  loro  richiede  tributi,  che  i 
cittadini  versano  nella  cassa  della  lega,  senza  passare 
attraverso  alle  casse  del  proprio  Stato.  Col  primo  si» 
stema  i  contribuenti  sono  i  singoli  Stati;  col  secondo 
invece  i  contribuenti  sono  i  cittadini  degli  Stati  col- 
legati. Il  primo  metodo  è  meglio  ossequente  all'idea 
della  sovranità  statale:   il  secondo  suppone  che  i  citta- 


—  189  — 

dinx  si  considerino  nel  tempo  stesso  sudditi  del  proprio 
Stato,  ad  esempio,  l'Italia,  e  dello  Stato  mondiale,  detto 
della   lega   delle    nazioni. 

Pare  più  agevole  accogliere  il  metodo  dei  ratizzi, 
come  quello  che  meno  perturba  l'assetto  vigente,  meno 
urta  il  senso  di  indipendenza  delle  singole  nazioni,  e 
non  richiede  la  formazione  di  un  sistema  tributario 
superstatale,  con  proprie  imposte,  propri  esattori,  con- 
trollori e  proprie  tassazioni  per  i  contribuenti.  Costoro 
non  si  inquieterebbero  troppo,  qualora  potessero  su- 
perficialmente riflettere  che  chi  paga  le  spese  della 
nuova  società  delle  nazioni  è  lo  Stato;  mentre  potreb- 
bero rimanere  sorpresi  nel  vedere  che  il  primo  e  più 
tangibile  risultato  della  costituzione  della  lega  è  stata 
l'iscrizione  nella  bolletta  delle  imposte  dell'esattore  di 
una  quarta  finca,  accanto  a  quelle  del  comune,  della 
provincia  e  dello  Stato,  recante  l'imposta  dovuta  alla 
lega   delle   nazioni. 

Il  metodo  dei  ratizzi,  più  semplice,  più  agevole  ad 
introdursi,  meno  urtante  contro  i  sentimenti  comune- 
mente nutriti  dagli  uomini  di  oggi,  offre  tuttavia  il 
fianco  ad  obbiezioni  gravi.  Le  hanno  sentite  tutti  gli 
uomini  di  Stato  i  quali  hanno  dovuto  lavorare  e  go- 
vernare  alla  sua  mercè. 

Si  potrebbero  moltiplicare  gli  esempi  storici.  Io  mi 
limiterò  a  qualche  citazione,  indubbiamente  cara  al 
presidente  Wilson.  Scriveva  Alessandro  Hamilton 
(Works,  voi.  I,  p.  262)  che  in  una  società  politica  il 
potere  senza  entrate  è  un  puro  nome.  Ed  Alessandro 
Hamilton  è  una  grandissima  autorità  in  argomento, 
poiché  fu  egli  massimamente  che,  insieme  con  Jay  e 
Madison,    col  suo   giornale   The  federatisi,   promosse   la 


—  190  — 

trasformazione  della  Confederazione  delle  13  colonie 
nord-americane  del  1781,  retta  col  metodo  dei  ratizzi, 
nello  Stato  federale  del  1787,  governato  col  metodo 
della  finanza  propria.  Eransi  bensì  nel  1781  gli  Stati 
obbligati  ad  obbedire  alle  leggi  del  congresso  dei  de- 
legati, e  ad  osservare  in  perpetuo  le  norme  fondamen- 
tali della  costituzione  federale.  Di  fatto  gli  Stati  non 
ubbidivano,  la  costituzione  non  era  osservata  :  sicché 
in  pochi  anni  l'unione,  la  quale  intendeva  essere  «  per- 
petua »,  sembrava  «  destinata  a  cadere  sul  capo  di  co- 
«  loro,  che  l'avevano  formata,  ed  a  schiacciarli  sotto  le 
«  sue  rovine  »  (The  federalist,  N.  XV).  Washington, 
il  grande  fondatore  dell'Unione,  era  ridotto  alla  dispe- 
razione dagli  ostacoli  frapposti  dagli  Stati  a  pagare 
puntualmente  i  loro  ratizzi,  e  dalle  condizioni  impossi- 
bili, a  cui  subordinavano  il  pagamento.  «  Malgrado  la 
«  grandezza  del  compito  —  scrisse  il  suo  biografo 
«  Marshall  —  la  urgenza  dei  bisogni  e  la  influenza  be- 
«  nerica  che  un  reddito  sicuro  in  mano  del  governo 
a  avrebbe  avuto  sulla  guerra,  mai  accadde,  finche  durò 
((  la  confederazione  (del  1781),  che  gli  Stati  si  mettes- 
«  sero  d'accordo  per  attribuire  al  congresso  i  poteri 
«  richiesti;  tanto  mal  disposti  sono  gli  uomini  prowe- 
<(  duti  di  potere  ad  investirne  altri,  e  tanto  difficile  è  di 
«  fare  qualunque  cosa,  anche  importantissima,  la  quale 
«  dipenda  dal  consenso  concorde  di  parecchie  distinte 
«  sovranità  ».  Il  biografo  riassume  in  tratti  lapidari  le 
lagnanze  di  cui  riboccano  le  lettere  di  Washington  : 
<(  Su  qual  parte  del  nostro  continente  troveremmo  un 
((  uomo  od  un  corpo  di  uomini,  il  quale  non  arrossisca 
«  nel  proporre  provvedimenti  calcolati  appositamente 
«  per   derubare   i    soldati   del   loro    soldo    ed   i   pubblici 


—  191  — 

«  creditori  delle  somme  loro  dovute?...  Nessuna  visione 
«  più  melanconica  e  pungente  di  quella  degli  uomini, 
((  i  quali  hanno  versato  il  sangue  o  sono  rimasti  mu- 
ti tilati  ai  servizio  del  paese,  rimasti  senza  asilo,  senza 
((  amici,  privi  dei  mezzi  di  ottenere  le  cose  necessarie 
«  o  confortanti  della  vita,  costretti  ad  elemosinare  di 
«  porta  in  porta  il  pane  quotidiano...  ».  Eppure  agli 
estremi,  così  commoventemente  descritti  in  questo  bra- 
no di  lettera  di  Washington,  conduceva  la  mala  vo- 
lontà degli  Stati  sovrani  nel  pagare  i  dovuti  ratizzi  alla 
cassa  federale. 

Alla  mala  voltnà  degli  Stati  a  privarsi  della  taro  so- 
vranità ed  a  fornire  i  mezzi  di  vita  allo  Stato  federale, 
9Ì  aggiunga  la  perpetua  gelosia  di  uno  Stato  contro 
l'altro.  È  difficilissima  già  la  prima  ripartizione  del 
contingente  totale  tra  i  vari  Stati.  1  criteri  della  super- 
ficie territoriale  e  della  popolazione  sono  troppo  grezzi 
e  riescono  ingiusti  contro  i  popoli  più  poveri.  Il  cri- 
terio della  ricchezza  o  del  reddito  nazionale  rispettivo 
dei  vari  Stati,  si  fonda  su  valutazioni  statistiche  certa- 
mente disformi  e  non  comparabili  G  per  lo  più  anche 
soggette  a  dubbi  gravi  intorno  alla  loro  esattezza.  Ad 
ogni  variazione  delle  basi  di  calcolo  dei  ratizzi,  ad  ogni 
triennio  o  quinquennio,  ogni  Stato  farebbe  sforzi  so- 
vrumani per  dimostrare  la  propria  povertà  ed  impossi- 
bilità a  pagare.  Troppe  volte  vedemmo  irrigidirsi  il 
provento  di  imposte  ripartite  con  questo  metodo  nel- 
l'ambito dei  singoli  Stati,  per  potere  sperare  una  di- 
versa conclusione  nel  caso  della  lega  delle  nazioni.  Ra- 
tizzi irrigiditi,  fissi,  velenose  periodiche  controversie, 
malanimo  fra  gli  Stati  associati,  pagamenti  in  ritardo  o 
mai  fatti  :   ecco  ciò  che  1*  esperienza  storica  ci  insegna 


92 


essere    il    risultato    meglio    probabile    dell'adozione    del 
primo   sistema. 

*** 

«  La  funzione  di  un  ostacolo  è  quella  di  essere  su- 
perato »,  ha  detto  il  Presidente  Wilson  in  una  di  quelle 
sue  frasi  semplici,  scultorie,  destinate  a  restare.  Occorre 
solo  che  l'ostacolo  non  sia  rinascente,  periodico,  ina- 
sprito dalle  meno  buone  qualità  della  natura  umana, 
come   sarebbe   nel    caso   dei    ratizzi. 

Gli  ostacoli  del  secondo  metodo,  quello  delle  im- 
poste proprie,  sono  tutti  iniziali;  sono  di  quelli  che  si 
devono  e  si  possono  superare  con  un  atto  di  volontà 
e  di  rinuncia.  Basta  che  gli  Stati  collegati  rinuncino, 
una  volta  per  sempre,  ad  una  data  entrata  e  la  trasferi- 
scano al  tesoro  della  lega. 

Supponiamo,  ad  esempio,  che  questa  entrata  sia  il 
provento  di  certi  o  di  tutti  i  dazi  doganali,  di  certe  im- 
poste sulla  produzione  di  talune  merci  o  su  date  muta- 
zioni della  ricchezza,  come  le  successioni.  È  un  sacri- 
ficio rinunciare  a  cotal  reddito;  ma  non  è  senza  com- 
penso. Gli  Stati  singoli  dovranno  spendere  meno  per 
l'esercito,  per  la  marina  da  guerra,  per  la  sorveglianza 
degli  Stretti.  Il  bilancio  si  alleggerisce  all'attivo  ed  al 
passivo,    e  le   partite   ritornano   ad   equilibrarsi. 

Dopo  la  rinuncia  iniziale,  il  meccanismo  fiscale  fun- 
ziona da  sé,  ali* infuori  dei  singoli  Stati.  La  lega  delle 
nazioni  non  deve  lottare  con  ognuno  degli  Stati  per 
ottenere  l'aumento  ed  il  pagamento  del  dovuto  ratizzo. 
Tratta  con  i  singoli  contribuenti,  i  quali  più  facilmente 
sono  costretti  a  fare  il  loro  dovere.  Non  sorgono  più 
quistioni    intorno    alla    quota    spettante    ai    singoli    Stati, 


—  193  — 

poiché  essa  è  determinata  automaticamente  dai  paga- 
menti, che  alla  cassa  federale  ogni  «  cittadino  del 
mondo  »  farà  in  ragione  dei  propri  consumi  o  delle 
proprie  ricchezze.  Lo  Stato,  i  cui  cittadini  consume- 
ranno più  carbone  o  più  caffè  —  supponendo  che  queste 
due  merci,  cito  a  caso,  siano  scelte  per  una  tassazione 
federale  —  pagherà  di  più;  quello,  i  cui  cittadini  rice- 
veranno  eredità  più  cospicue,    pagherà  di  più. 

Se  dapprima  il  sistema  tributario  federale  sarà  zop- 
picante, il  difetto  col  passare  dei  decenni  e  coli' accu- 
mularsi dell'esperienza,  sarà  migliorato;  così  come  si 
migliorano   i   sistemi   tributari   statali. 

Il  mglioramento  di  esso  sarà  sempre  un  problema 
di  più  equa  ripartizione  dei  tributi  tra  varie  categorie  di 
contribuenti,  non  mai  tra  Stati,  e  si  potrà  risolvere  sulla 
base  dei  criteri  generali,  con  cui  si  risolvono  tutti  i 
problemi   di   ripartizione   dei   tributi. 

Fa  d'uopo  non  esagerare  neppure  troppo  l'impor- 
tanza degli  ostacoli,  i  quali  dovranno  essere  superati 
nel  mettere  in  moto  la  macchina  fiscale  della  lega.  Ho 
detto  dianzi  che  gli  Stati  dovrebbero  rinunciare  a  qual- 
cuna delle  loro  entrate.  Occorrendo,  basterà  che  trasfe- 
riscano alla  lega  il  diritto  di  imporre,  entro  certi  lìmiti 
di  ammontare  o  di  percentuale,  su  certe  merci  o  certe 
ricchezze;  nulla  vietando  che,  ad  es.,  oltre  il  5  o  il  IO 
per  cento  sul  valore,  riservato  alla  lega,  i  singoli  Stati 
possano  poi  sovrimporre  dazi  o  tributi  addizionali,  così 
come   parrà   opportuno    ai    singoli   legislatori. 

Non  è  nemmeno  necessario  che  la  lega  crei  di  sana 
pianta  una  propria  nuova  amministrazione  fiscale.  Le 
esistenti  amministrazioni  dei  singoli  Stati  —  dogane, 
ricevitorie  del  registro  —  potrebbero  incassare,   insieme 


ts 


—  194  — 

colle  proprie,  le  imposte  federali  e  versarle  nella  cassa 
comune.  La  lega  potrebbe  dapprincipio  contentarsi  di 
mandare  in  giro  propri  controllori  per  verifiche  e  rese 
di  conti  periodiche. 

A  poco  a  poco,  col  crescere  dell'importanza  delle 
funzioni  della  lega,  coli' abituarsi  dei  popoli  alla  soia 
esistenza,  col  graduale  migliore  apprezzamento  dei  suoi 
utili  risultati,  sarà  possibile  creare  una  amministrazione 
finanziaria  federale,  diversa  da  quella  statale.  1  singoli 
problemi    di    applicazione    si    risolvono    strada   facendo. 

Qui  ho  voluto  solo,  in  rapidi  tocchi,  segnalare  l'im- 
portanza del  problema  fondamentale  della  necessità  di 
una  finanza  della  lega,  ed  indicare  i  vantaggi  e  gli  in- 
convenienti precipui  delle  due  vie,  che  si  possono  per- 
correre per  risolvere  quel  problema. 

(Da  L'Unità,    18  gennaio   1919). 


FEDERAZIONE  EUROPEA 
O  SOCIETÀ'  DELLE  NAZIONI? 

G.  AGNELLI  e  A.  CABIATI  :  Federazione  Europea  o 
Lega  delle  Nazioni?  Un  voi.  di  pp.  VII- 126.  In  deposito 
presso  i  Fratelli  Bocca,   Ed.,   Torino,    1918. 

Il  libro,  che  qui  si  annuncia,  scritto  in  collaborazione 
da  un  fine  economista  nostro  collaboratore,  il  prof.  At- 
tilio Cabiati,  e  da  Giovanni  Agnelli,  industriale,  crea- 
tore ed  amministrare  delegato  di  una  delle  maggiori  e 
più  celebri  fabbriche  di  automobili  del  mondo,  la  Fiat, 
viene  in  buon  punto.  Pensato  e  discusso  sin  dalla  fine 
del  1916,  scritto  evidentemente  nel  primo  semestre  di 
quest'anno,  quando  la  Germania,  affermato  il  suo  do- 
minio nelle  Provincie  Baltiche,  vinta  la  Russia,  schiac- 
ciata la  Rumenia,  pareva  avesse  trasformato  in  realtà 
il  sogno  della  Mirtei  Europa  da  Anversa  a  Bagdad  e 
sembrava  dovesse  vincere  le  ultime  resistenze  francesi, 
mentre  l'Austria  tracotante  minacciava  dal  Piave,  è  di- 
venuto di  ancor  più  viva  attualità  oggi  che  le  parti  sono 
mutate  e  l'intesa  ha  vinto.  La  premessa  necessaria  al- 
l'attuazione  del  loro  piano,  che  gli  A. A.  pongono  in 
fine  del  -  volume  :  bisogna  vincere  —  è  un  fatto  com- 
piuto. E  su  questa  base  si  può  cominciare  a  ricostruire. 
Come?  In  una  recensione  non  è  possibile  seguire  lo 
sviluppo  compiuto  del  pensiero  degli  autori,  che  è  fon- 


— ,  1%  — 

dato  sulla  miglior  letteratura  in  proposito  e  nutrito  di 
appropriati  ricordi  storici  e  di  sodi  ragionamenti.  11 
«  nodo  vitale  »  del  problema,  come  lo  chiamano  gli 
A. A.,  è  il  seguente  :  Il  concetto  di  «  società  delle  na- 
zioni »  è  troppo  vago,  instabile  per  potere  dar  luogo 
ad  una  creazione  politica  permanente.  L'esperienza 
storica  è  lì  per  provare  l'impossibilità  di  raggiungere 
fini  concreti  sulla  base  di  una  semplice  lega  di  nazioni  : 
dalla  confederazione  delle  città  greche  del  470  a.  C, 
alle  Provincie  Unite  del  secolo  XVIII,  dal  Sacro  Romano 
Impero  (800-1806)  alla  Confederazione  germanica  del 
secolo  XIX,  dalla  Santa  Alleanza  alla  Confederazione 
nord-americana  del  1776-87.  Tutti  insuccessi  indispu- 
tabili e  necessari  :  perchè  nessun  Stato  può  esistere  lad- 
dove manca  un  potere  centrale  munito  di  mezzi  pecu- 
niari propri  e  di  un  esercito.  Se  le  Federazioni  di  Stati 
conducono  alla  discordia  ed  alla  guerra,  resistono  e 
prosperano  invece  gli  Stati  federali  :  Confederazione 
Svizzera,  Stati  Uniti  d'America  ed  anche  Impero  Ger- 
manico. Bisogna  interpretare  il  concetto  della  società 
delle  nazioni  non  nel  senso  di  una  società  di  Stati  in- 
dipendenti, i  quali  assumerebbero  impegni  di  buona 
amicizia  e  prometterebbero  di  accordarsi  per  punire  i 
recalcitranti  violatori  della  pace  comune  —  che  è  poco 
più  del  vecchio  concetto  della  «  bilancia  delle  po- 
tenze »;  ma  addirittura  nel  senso  di  una  «  Europa  fe- 
derale ».  Stati  indipendenti  e  liberi  di  sviluppare  in 
ogni  senso  le  loro  attitudini  e  le  loro  capacità  di  vita 
e  di  progresso,  salvo-che  in  alcuni  campi  determinati  : 
politica  estera,  forza  armata  di  terra  e  di  mare,  finanza 
federale,  politica  doganale.  Questi  compiti  sarebbero 
arridati  ad  un  potere  centrale,   ad  imitazione  di  ciò  che 


—  197  — 

accade  in  quei  tipi  di  Stati  federali  in  cui  il  governo  cen- 
trale ha  quei  soli  poteri  che  gli  sono  assegnati  dalla 
costituzione.  Forze  potenti  spingono  alla  creazione  di 
questo  ente  superiore  :  1)  la  impossibilità  di  poter  fare 
fronte  alle  conseguenze  finanziarie  della  guerra  altri- 
menti che  col  ridurre  le  forze  armate  alle  poche  de- 
cine di  migliaia  d'uomini  necessari  al  mantenimento 
dell'ordine  pubblico;  2)  la  difficoltà  di  potere  diversa- 
mente distruggere  a  fondo  le  caste  militari  viventi  sulla 
guerra;  3)  la  difficoltà  di  semplificare  la  vita  togliendo 
gli  impacci  ora  esistenti  nei  passaggi  da  Stato  a  Stato; 
4)  la  possibilità,  che  vi  sarebbe,  di  risolvere  il  problema 
delle  colonie,  impedendo  che  queste  diventino  campo 
di  sfruttamento  dei  singoli  Stati;  5)  la  necessità  in  cui 
sarebbero  gli  Stati  federali  più  indietro  nella  legisla- 
zione sociale,  nella  igiene,  nella  istruzione  di  portarsi 
al  livello  dei  paesi  più  progrediti;  6)  i  vantaggi  enormi 
della  unificazione  dei  mercati.  Qui  fa  d'uopo  riprodurre 
la  bella  pagina  scritta  dagli  A. A.,  non  tanto  perchè  essa 
porta  la  firma  del  Cablati,  le  cui  idee  erano  ben  note, 
quanto  perchè  essa  reca  altresì  la  firma  di  uno  dei  più  in- 
traprendenti capitani  industriali  della  nuova  Italia  :  «  In 
Europa  eravamo  arrivati  a  questo  colmo  di  assurdo,  che 
ogni  fabbrica  che  sorgeva  in  uno  Stato  costituiva  una 
spina  nel  cuore  per  ogni  altro  Stato  :  che,  mentre  le  su- 
perbe invenzioni  tecniche  del  vapore  applicato  ai  traspor- 
ti di  terra  e  di  mare,  dell' elettricità  come  forza  motrice, 
del  telegrafo  e  del  telefono  avevano  ormai  annullato  le 
distanze  e  reso  il  mondo  un  unico  grande  centro  e  mer- 
cato internazionale,  i  piccoli  uomini  si  affannavano  con 
ogni  loro  possa  ad  annullare  gli  immensi  benefici  delle 


—  198  — 

grandi  scoperte,  creando  artificiosamente  mercati  iso- 
lati e  piccoli  centri  di  produzione  e  di  consumo. 
E  sembravano  non  accorgersi  che  il  sistema  protezio- 
nista aveva  finito  con  l'uccidere  sé  stesso  e  col  rendere 
il  lavoro  una  tortura  e  non  una  gioia.  Poiché,  volendo 
ogni  Stato  proseguire  gli  stessi  fini,  produrre  di  tutto, 
produrre  su  vasta  scala,  mai  come  nell'ultimo  venten- 
nio quella  concorrenza  che  si  aveva  avuto  in  mira  di 
evitare  si  era  fatta  più  acuta,  più  spasmodica,  più  raffi- 
nata e  violenta.  Si  lavorava  in  grande,  sempre  più  in 
grande,  a  squadre  e  con  fuochi  continui,  con  un  mar- 
gine di  guadagno  sempre  più  ridotto,  con  lo  spavento 
incessante  di  ciò  che  faceva,  di  ciò  che  pensava,  di 
ciò  che  inventava  l'estero.  Solo  l'Europa  federale  potrà 
darci  la  realizzazione  più  economica  della  divisione  del 
lavoro,  con  la  caduta  di  tutte  le  barriere  doganali.  Basta 
pensare  alla  pesantezza  dell' armamentario  artificioso 
che  oggi  grava  su  quasi  tutta  l'Europa  continentale;  ai 
a  doppioni  »  industriali  creati  dalla  protezione;  alla  di- 
struzione quotidiana  di  ricchezze  che  ne  deriva;  agli 
ostacoli  contro  la  rapidità  degli  scambi  e  della  circola- 
zione dei  beni;  alla  farraginosa  legislazione  economica 
che  tutto  ciò  importa,  con  una  non  meno  farraginosa  e 
costosa  burocrazia,  per  comprendere  come  basterebbe 
l' estirpazione  di  questo  cancro  dall'Europa,  per  com- 
pensarci in  breve  degli  sforzi  a  cui  ci  ha  assoggettato 
la  guerra.  Quale  è  la  persona  ragionevole  la  quale  può, 
senza  timore,  prospettare  la  possibilità  che,  dopo  un 
conflitto  così  gigantesco,  si  possa  riprendere  una  poli- 
tica economica  di  preferenze,  di  esclusivismi,  di  loca- 
lizzazione,      riversandone     il     carico     sui     consumatori 


199 


esausti?  Una  economia  europea  la  quale,  sostituendosi 
con  prudenza  e  graduali  adattamenti  alle  economie 
particolaristiche  degli  odierni  singoli  Stati,  realizzi  in 
pieno  la  divisione  del  lavoro,  ci  darà,  col  benefìcio  mas- 
simo dei  produttori,  quel  ribasso  dei  prezzi  che  per- 
metta ai  consumatori  di  sopportare  gli  oneri  finanziari 
della  guerra  senza  un  esaurimento  delle  proprie  forze 
fisiche  e  creative.  11  problema  delle  ripartizioni  delle 
materie  prime,  quello  dei  trasporti,  quello  dei  prodotti 
alimentari,  che  affannano  tutti  i  comitati  europei  per  lo 
studio  del  dopo  guerra,  si  troveranno  automaticamente 
risolti.  E  T ampliarsi  gigantesco  del  mercato  da  nazio- 
nale in  continentale  farà  sì  che  gli  industriali,  superato 
il  primo  periodo  di  assestamento,  troveranno  dinanzi 
a  sé  tali  capacità  insospettate  di  assorbimento,  che  le 
industrie  ne  riceveranno  lo  stesso  slancio  gigantesco 
di  cui  diede  prova  l'industria  americana  dopo  la  guerra 
di  secessione  ».  Quando  gli  industriali  italiani,  che  la 
pensano  come  l'Agnelli,  sapranno  accordarsi  per  una 
linea  d'azione  decisa  o  coerente,  che  sia  di  freno  alle 
pretese  ed  agli  spropositi  dei  loro  colleghi  protezionisti, 
per  Io  più  tali  per  mancanza  di   riflessione? 

Sul  <(  punto  vitale  »  non  v'è  dubbio  che  hanno  ra- 
gione gli  A. A.;  d'accordo  in  ciò  con  tutti  gli  studiosi 
seri  che  si  sono  occupati  dell'argomento.  11  concetto  di 
«  società  delle  nazioni  »  è  utile  come  parola  d'ordine; 
è  una  formula  politica  conveniente  per  chiarire  le  posi- 
zioni, distinguere,  anche  in  seno  alle  nazioni  dell'Intesa, 
coloro  che  vollero  la  guerra  per  fini  di  sopraffazione,  da 
coloro  che  vollero  conseguiti  i  fini  nazionali,  come  ne- 
cessaria premessa  al  raggiungimento  di  nuovi  alti  scopi. 
Ma  è  un   concetto  indubbiamente  indefinito.    Bisognan- 


—  200  — 

do  cominciare  dal  dargli  un  contenuto,  l'unico  conte- 
nuto serio,  vitale  è  quello  dello  «  Stato  federale  ».  Non 
basta  una  associazione  più  o  meno  umanitaria  fra  Stati 
sovrani;  fa  d'uopo  un  super-Stato,  fornito  di  organi 
propri  e  di  forze  finanziarie  adeguate.  Ma  a  quale  ter- 
ritorio si  deve  estendere  questo  Stato  federale?  Ho 
paura  che  nel  momento  presente  lo  «  Stato  federale 
europeo  »,  quale  è  prognosticato  dagli  A. A.,  sia  nel 
tempo  stesso  troppo  e  troppo  poco.  Troppo,  se  si  pon 
mente  alle  profonde  differenze  nazionali  che  interce- 
dono fra  una  contrada  ed  un'altra  dell'Europa.  Italiani, 
francesi,  spagnuoli,  tedeschi,  magiari,  slavi  del  sud,  bul- 
gari, greci,  polacchi,  russi,  rumeni,  scandinavi  sono 
pronti  a  mandare  rappresentanti  ad  un  parlamento  fe- 
derale, a  pagare  imposte  comuni,  a  mantenere  un  solo 
esercito?  Par  dubbio;  e  par  dubbio  perciò  che  l'uomo 
di  Stato  debba  proporsi  di  raggiungere  una  mèta,  la 
quale  non  abbia  probabilità  di  essere  sentita  dai  suoi 
governanti.  Il  processo  di  formazione  di  Stati  nazionali, 
violentemente  impedito  dall'esistenza  di  Stati  anacro- 
nistici, come  l' Austria-Ungheria,  la  Turchia,  la  Russia 
deve  prima  avere  il  suo  compimento.  Questo  vogliono 
i  popoli  che  fin  qui  erano  oppressi  da  popoli  stranieri 
egemonici;  e  non  capirebbero  affatto  si  volesse  sosti- 
tuire al  loro  presente  un  altro  ideale.  Per  essi,  e  forse 
anche  da  un  punto  di  vista  generale,  la  costituzione  di 
un'Europa  federale  sulla  base  degli  Stati  preesistenti 
alla  guerra  sarebbe  stata  una  sventura.  Il  «  troppo  »  sta 
dunque  in  ciò  che  un'Europa  federale  non  si  può  con- 
cepire costituita  se  non  da  e  fra  popoli,  i  quali  vi  siano 
spinti  da  comunanza  di  interessi,  di  affetti,  di  tradi- 
zioni, di  volontà,  di  scopi  da  conseguire.  Questa  la  pre- 


—  201  — 

messa  di  tutti  gli  Stati  federali  :  Stati  Uniti,  Canada, 
Australia,  Africa  del  Sud,  Impero  germanico,  Svizzera. 
Finora,  questa  comunanza  non  si  sente  se  non  da  una 
parte  dei  popoli  dell'intesa;  una  parte,  dico,  che  dal- 
l'intesa si  è  già  straniata  la  Russia,  mentre  i  legami  che 
l'avvincono  ai  popoli  liberati  dalla  Russia  e  dall'Austria 
sono  ancora  poco  saldi.  D'altro  canto  un'Europa  fede- 
rale è  troppo  poco.  Comprenderemo  in  essa  l'Inghil- 
terra? Ma  allora  non  si  può  più  parlare  di  una  «  Europa 
federale  »,  bensì  di  un  grande  Stato  mondiale  federale 
comprendente  la  comunità  britannica  delle  nazioni  e 
le  nazioni  europee,  con  le  loro  colonie.  Chi  sappia  le 
difficoltà  quasi  insormontabili  che  si  incontrano  per 
dare  una  costituzione  veramente  fedeiale  alla  common- 
wealth britannica,  impallidisce  al  pensiero  di  creare  un 
ente  ancor  più  vasto  e  complicato.  Rimarrà  fuori  l'In- 
ghilterra? In  tal  caso,  l'Europa  federale  sarebbe  una 
Europa  media  ingrandita,  in  cui  dominerebbe  probabil- 
mente il  gruppo  nazionale  più  compatto,  quello  germa- 
nico. Tra  i  risultati  probabili  di  una  siffatta  formazione 
politica  v'ha  una  futura  lotta  di  supremazia  fra  l'Eu- 
ropa continentale  e  il  mondo  anglo-sassone  (Impero 
britannico  e  Stati  Uniti  d'America).  Dopo  avere  lottato 
a  morte  e  sacrificato  milioni  di  vite  e  centinaia  di  mi- 
liardi di  ricchezze,  Francia  ed  Italia  abbandonerebbero 
i  loro  fedeli  alleati  d'oggi  e  si  fonderebbero  con  chi 
voleva  ridurli  a  vassalli.  In  conclusione,  il  piano  di  una 
Europa  federale  non  è  abbastanza  realistico  perchè  è 
troppo  razionale,  troppo  economico.  Se  i  popoli  sapes- 
sero ragionare  e  ragionassero  soltanto  dal  punto  di 
vista  del  loro  vantaggio,  quel  piano  sarebbe  tra  le  cose 
attuabili.    Non    mi   pare    oggi    lo    sia,    perchè    non    tiene 


202 


abbastanza  conto  degli  imponderabili  :  sentimento  di 
nazionalità,  tradizioni,  amor  della  indipendenza,  de- 
cisione a  vivere  miseramente  pur  di  ricuperare  una 
vetta  od  un  fiume  sacro.  Il  mondo  è  bello  e  grande 
a  causa  degli  imponderabili.  Bisogna  costruire  te- 
nendo conto  di  essi.  In  articoli  sulla  Minerva,  scritti 
a  parecchie  riprese  dal  1915  al  1918,  ho  delineato 
quali  siano,  a  parer  mio,  le  vie  della  ricostruzione.  La 
guerra  presente  ha  rinsaldato  una  di  queste  grandi  co- 
struzioni di  super-Stati  :  la  comunità  britannica  delle  na- 
zioni; ed  il  Beer  nel  suo  classico  libro  ha  descritto  le 
forze  le  quali  spingono  alla  unione  dei  popoli  di  lin- 
gua inglese  :  comunità  britannica  e  Stati  Uniti  d'Ame- 
rica. Dal  mondo  slavo  in  effervescenza  non  si  sa  cosa 
verrà  fuori;  ma  non  è  fuor  di  luogo  immaginare  il  sor- 
gere di  due  federazioni  slave,  l'una  del  Sud  —  Boemia, 
Jugoslavia,  Bulgaria  —  l'altra  del  Nord-Est  corrispon- 
dente all'incirca  all'antica  Russia.  I  tedeschi  rimarranno, 
blocco  compatto,  al  centro  d'Europa.  Sarebbe  un  di- 
sastro storico  se  Italia  e  Francia,  ricondotte  ai  loro  sto- 
rici naturali  confini,  non  riuscissero  a  ricostruire  l'an- 
tico impero  romano  d'occidente.  Dopo  millecinquecento 
anni  di  spinte  germaniche  dal  nord  ed  arabe  dall'orien- 
te, gli  eredi  delle  genti  latinizzate  da  Roma  sono  riu- 
sciti a  ricondurre  le  loro  bandiere  quasi  agli  antichi  con- 
fini. Se  la  Spagna  entrasse  nella  nuova  costellazione  po- 
litica, il  mare  mediterraneo  diventerebbe  nuovamente 
nella  sua  parte  occidentale  un  lago  latino.  Colonie  im- 
mense da  sfruttare,  territori  politicamente  annessi  da 
colonizzare  non  farebbero  difetto  :  un'opera  di  secoli 
da  compiere  si  presenta  ai  nostri  occhi.  E  tutto  ciò  senza 
rinunciare    alle   nostre   caratteristiche    di    cultura,    di   lin- 


—  203  — 

gua,  di  tradizioni.  Irresistibilmente,  l'America  del  Sud 
finirebbe  di  aderire  ad  una  Unione  latina.  La  quale  non 
starebbe  a  paro  dell'Unione  anglo-sassone;  ma  nep- 
pure troppo  al  disotto  ed,  avendo  comuni  le  origini  nella 
medesima  guerra  di  liberazione,  difficilmente  potrebbe 
essere  tratta  a  lotta  cruenta  con  essa.  Frattanto,  se  a 
poco  a  poco  si  attiverà  la  parte  veramente  sostanziosa 
dell'idea  wilsoniana  della  lega  delle  nazioni  :  unioni  in- 
ternazionali specifiche  doganali,  coloniali,  ferroviarie, 
fluviali,  per  gli  stretti,  monetarie,  ecc.  ecc.,  simili  a 
quelle  già  esistenti  per  le  poste,  per  i  telegrafi,  per  la 
protezione  della  proprietà  letteraria  ed  industriale,  ver- 
ranno a  poco  a  poco  meno  i  sentimenti  che  oggi  spin- 
gono alla  guerra.  Quando  questa  parrà  assurda  agli  uo- 
mini, come  oggi  pare  assurdo  il  cannibalismo  ed  a 
molti  il  duello,  la  guerra  cesserà  da  sé.  E  gli  uomini 
faranno,  senza  accorgersene,  l'ultimo  passo  non  verso 
l'Europa  federale,  ma  verso  la  costituzione  di  un  or- 
gano supremo,  che  noi  oggi  non  sapremmo  neppure 
bene  definire,  per  regolare  gli  affari  comuni  a  tutti  i 
popoli  del  mondo.  E  nessuno  dei  grandi  aggregati  poli- 
tici esistenti  :  quello  anglo-sassone,  quelli  latino  e  ger- 
manico e  slavo  e  cino-giapponese  vedrà  una  menoma- 
zione della  propria  indipendenza  nella  creazione  di  que- 
st'organo comune,  perchè  le  menti  degli  uomini  saran- 
no abituate  all'idea  che  non  a  tutto  è  capace  lo  Stato, 
sia  nazionale,  sia  supernazionale  e  che,  come  in  uno 
Stato  vi  sono  comuni  e  prò  vinci  e  e  governo  centrale, 
così  nel  mondo  possono  coesistere  governi  diversi,  gli 
uni  applicati  a  risolvere  problemi  nazionali,  gli  altri  su- 
pernazionali  o   mondiali. 

(Da  La  Riforma  Sociale,    novembre-dicembre    1918). 


IL  GOVERNO  DELLE  " COSE „ 

«  Soltanto  la  liberazione  internazionale 
delle  classi  lavoratrici  dal  dominio  capita- 
listico potrà  dare  alle  Nazioni  la  possici, 
lità  di  restaurare  rapporti  di  fraternità  e 
di  concordia,  perchè  il  governo  delle  cose, 
sostituito  al  governo  delle  persone,  assicu- 
rerà a  tutti  la  vita  di  un  regime  di  giu- 
stizia   e    di    eguaglianza  ». 

(Da  una  lettera  aperta  del  segretario  del 
Partito  Socialista  Italiano,  Costantino 
Lazzari,  al  Presidente  degli  Stati  Uniti 
Wilson,  del  3  gennaio  1919  e  pubblicata 
neU'Avanti !  del  4  gennaio   19 19). 

Non  ho  citato  questo  brano  di  prosa  socialista  uffi- 
ciale italiana  per  discutere  i  concetti  che  vi  sono  conte- 
nuti; che  mi  parrebbe  arduo  assunto  precisare  il  valore 
di  due  affermazioni  inspirate  unicamente  alla  fede  e 
prive  di  qualsiasi  appoggio  nlell' esperienza  storica  o 
psicologica  e  nel  ragionamento.  Come  «  la  liberazione 
intemazionale  delle  classi  lavoratrici  dal  dominio  ca- 
pitalistico possa  restaurare  rapporti  di  fraternità  e  di 
concordia  fra  le  nazioni  »  è  misterioso,  tanti  essendo 
nella  storia  gli  esempi  di  società  «  non  capitalistiche  » 
e  talora  «  comunistiche  »  tra  di  loro  guerreggianti;  ed 
è  ancora  più  difficile  indovinare  in  qual  maniera  un  go- 
verno di  cose  sostituito  a  quello  delle  persone  possa 
((  assicurare  la  vita  di  un  regime  di  giustizia  e  di  egua- 


—  206  — 

glianza  ».  Queste  affermazioni  vaghe  e  solenni  nei  tem- 
po stesso,  questa  insistenza  nel  fare  del  regime  capita- 
listico l'unico  motore  della  storia  e  l'unica  spiegazione 
delle  guerre  e  delle  paci,  del  caro  viveri  e  del  contento 
e  malcontento  sociale  è  un'altra  testimonianza  dell'iso- 
lamento intellettuale  in  cui  l'adorazione  del  Vangelo  di 
Carlo  Marx  ha  posto  i  seguaci  della  fede  socialista;  sic- 
ché oggi  non  si  accorgono  che  quella  che  poteva  sem- 
brare, sebbene  non  fosse,  una  grande  scoperta  sci  enti- 
fica  ai  suoi  tempi,  oggi  è  stata  superata  e  nessuna  sto- 
ria più  si  scrive,  la  quale  si  inspiri  a  quell'unico  ca- 
none, che  fece  la  fortuna  del  materialismo  storico.  Ma 
il  Lazzari  ed  i  suoi  compagni  non  vogliono  scrivere  sto- 
rie. Vogliono  fare  della  storia;  ed  all'uopo  indubbia- 
mente giova  bandire  un  verbo,  il  quale,  alla  pari  di 
tutti  i  misteri,  faccia  presa  sulle  moltitudini  e,  colla  pro- 
messa del  paradiso  terrestre,  le  spinga  all'azione. 

Citando  quel  brano  fu  invece  mio  proposito  rilevare 
la  frequenza  con  cui  nei  programmi  politici  di  tutti  i 
partiti  compare  una  frase,  che  il  barone  Manno  avrebbe 
potuto  acconciamente  illustrare  nel  suo  libro  intorno  al- 
la ((  fortuna  delle  frasi  »  :  quella  del  «  governo  delle 
cose  sostituito  al  governo  delle  persone  ».  L'occasione 
particolare  in  cui  la  frase  è  ripetuta  poco  interessa.  Im- 
porta invece  rilevare  come  essa  venga  introdotta  nel 
discorso  politico  per  ottenere  un  certo  effetto  di  persua- 
sione e  quasi  di  sbalordimento,  che  nessuna  frase  po- 
trebbe ottenere,  se  per  lunga  consuetudine  dessa  non 
fosse  oramai  penetrata  nella  mente  degli  ascoltatori  e 
non  avesse  la  virtù  di  persuaderli  irresistibilmente  della 
verità  della  tesi  sostenuta  dall'oratore  e  dallo  scrittore. 


207  — 


*** 


Non  ho  tempo,  e  forse  non  ne  varrebbe  la  pena, 
di  ricercare,  colla  pazienza  di  un  Manno,  le  origini  del- 
la fortuna  di  quella  frase.  Ho  la  vaga  impressione  che 
quell'orìgine  sia  italiana.  Non  mi  è  accaduto  di  tro- 
varne traccia  nella  letteratura  politica  inglese,  che  è  la 
fonte  di  ogni  sapienza  politica  moderna;  ma  di  ciò  for- 
se la  colpa  è  dovuta  alle  mie  scarse  letture.  Tuttavia  si 
può  osservare  che  ne  quella  frase  ne  alcun' altra  che  le 
si  avvicini  è  studiata  nell'aureo  libro  di  Sir  George  Cor- 
newall  Lewis  intitolato  Remarl^s  on  the  use  and  abuse 
of  some  Politicai  Terms,  il  che  mi  fa  credere  che  nel 
1832  quel  concetto  non  fosse  ne  popolare  ne  apprez- 
zato nel  mondo  politico  britannico.  Ed  i  primi  parla- 
mentari nostri  erano  troppo  imbevuti  di  teorie  inglesi, 
troppo  persuasi  della  necessità  di  far  trionfare  la  teoria 
nella  pratica  per  adattarsi  a  bandire  un  concetto  che 
avrebbe  lor  saputo  troppo  di  materialismo.  Il  curioso 
il  quale  ricercasse  le  origini  della  frase  probabilmente 
non  avrebbe  gran  successo  nel  periodo  anteriore  al  1876, 
quando  nel  parlamento  e  fuori  si  combattevano  grandi 
battaglie  fra  principii  ed  idee  opposte.  Le  mie  remini- 
scenze mi  porterebbero  a  credere  che  il  grido  «  biso- 
gna sostituire  il  governo  delle  cose  al  governo  delle 
persone  »  sia  divenuto  frequente  e  popolare  durante  il 
trasformismo,  quando  faceva  d'uopo  trovare  qualche 
«  motivo  »  semplice  e  trascinante  di  critica  al  caleido- 
scopio di  ministri  e  di  ministeri,  che  fu  caratteristico  del 
lungo  governo  personale  di  Depretis.  Crebbe  la  sua 
forza  persuasiva  ed  acquistò  quasi  valore  di  assioma 
quando,  scomparso  Depretis,  si  vide  il  governo  d'Italia, 


—  208  — 

dopo  l'interregno  di  Crispi,  cadere  e  rimanere  a  lungo 
nelle  mani  di  un'altra  persona,  il  Giolitti,  governante 
anch'egli  a  mezzo  di  suoi  devoti  servitori.  Parve  al- 
lora alta  sapienza  politica  invocare  un  governo  «  di 
cose  »,  che  facesse  contrapposto  al  governo  u  persona- 
le »  di  quegli  uomini.  E  l'accettazione  dell'assioma  fu 
facilitato  dal  diffondersi  del  cosidetto  socialismo  «  scien- 
tifico »  e  dal  suo  affermarsi  nelle  aule  parlamentari; 
essendo  ben  noto  che  una  delle  idee  madri  del  socia- 
lismo cosidetto  «  scientifico  »,  forse  anzi  la  sua  idea 
filosofica  fondamentale  è  quella  esposta  da  Marx  in  suc- 
cinto col  dire  che,  mentre  Hegel  pone  la  storia  sulla 
testa,  bisogna  capovolgerla  per  rimetterla  sui  piedi.  Ed 
ognuno  sa  che,  in  base  a  questo  capovolgimento,  la  sto- 
ria dovrebbe  essere  spiegata  con  le  variazioni  dei  pro- 
cessi di  produzione,  delle  macchine  e  cose  simili.  Poi, 
siccome  le  idee  stanno  nella  testa  degli  uomini  e  non 
nello  stomaco  o  nei  piedi  o  nei  processi  produttivi  o 
nelle  macchine,  parve  di  buon  tono  credere  che  fosse 
una  nuovissima  e  grandissima  scoperta  scientifica  l'a- 
ver immaginato  che  la  storia  non  la  facessero  gli  uo- 
mini, colle  loro  idee,  passioni  e  sentimenti,  ma  gli  og- 
getti inanimati  che  circondano  l'uomo  e  di  cui  questi 
si  deve  servire  per  soddisfare  ai  suoi  bisogni.  E  si  sentì 
discorrere  delle  cose  che  fanno  la  storia,  della  neces- 
sità di  sostituire  nelle  scuole  allo  studio  delle  battaglie 
e  delle  successioni  e  delle  vite  e  morti  dei  re  e  dei  gran- 
di uomini,  lo  studio  delle  istituzioni,  delle  moltitudini, 
dell' «  ambiente  »  economico,  infine  delle  a  cose  »,  che 
inducono  gli  uomini  a  muoversi  e  ad  agire,  come  fan- 
no i  fili  alle  marionette  in  un  teatro  di  burattini.  Così, 
la  frase   «  governo   di  cose   e  non  governo  di  persone  » 


—  209  - 

nata  dal  fastidio  di  trentanni  di  governo  «  personale  » 
acquistò  dignità  di  sentenza  filosofica  ed  il  suo  potere 
magnetico  di  convincimento  immediato  divenne  più 
grande  che  mai. 

*** 

Se  il  Lazzari  avesse  semplicemente  scritto  che  «  sol- 
tanto la  liberazione  delle  classi  lavoratrici  dal  dominio 
capitalis-tico  potrà  dare  alla  nazioni  la  possibilità  di  re- 
staurare rapporti  di  fraternità  e  di  concordia  perchè  solo 
essa  può  assicurare  a  tutti  la  vita  di  un  regime  di  giu- 
stizia e  di  uguaglianza  »  i  lettori  de\Y  Avanti!  sareb- 
bero rimasti  ugualmente  persuasi,  essendo  i  lettori  dei 
giornali,  di  qualunque  giornale,  per  definizione  propen- 
si a  lasciarsi  persuadere  dal  loro  foglio  prediletto;  e 
tanto  più  sarebbero  rimasti  persuasi  in  quanto  si  trat- 
tava della  ripetizione,  con  parole  variate,  sotto  forma 
prima  di  teorema  dimostrando  e  poi  di  dimostrazione, 
del  medesimo  «  mistero  ».  Ma  sarebbe  mancata  quella 
pienezza  di  persuasione,  che  può  nascere  dall' addurre 
a  prova  di  un  concetto  un  principioi  universalmente  noto, 
al  quale  tutti  per  moto  spontaneo  si  inchinano.  Quel 
principio  è  ((  il  governo  delle  cose  sostituito  a  quello 
delle  persone  »;  notissimo,  sentito  le  mille  volte  ripe^ 
tere,  non  oppugnato  da  alcun  uomo  politico,  anzi  da 
tutti  assunto  come  segnacolo  in  vessillo;  eppereiò  do- 
tato di  una  irresistibile  forza  convincente.  Quando  in 
una  assemblea  politica  si  sente  l'oratore  bandire  con 
forza  la  necessità  di  sostituire  il  governo  delle  cose  al 
governo  delle  persone,  par  di  vedere  le  teste  degli  ascol- 
tatori inchinarsi  in  segno  di  approvazione  e  le  mani 
alzarsi  da  se  per  plaudire;  e  chi,  per  giovinezza  od  ine^- 


14 


—  210  — 

sperienza  di  cose  politiche,  sente  per  la  prima  volta 
quella  frase  è  tratto  a  pensare,  vergognandosi  di  se  me- 
desimo e  della  sua  ignoranza,  che  il  significato  di  essa 
deve  esser  ben  chiaro  e  ben  profondo  se  il  consenso 
degli  ascoltatori  è  così  pieno  e  pronto.  Ne,  d'allora  in 
poi,  egli  tarderà  ad  unire  i  suoi  ai  segni  di  approva- 
zione universali,  ogni  qual  volta  quella  frase  giungerà 
al  suo  orecchio. 

*** 

I  guai  cominciano  quando  lo  stupefatto  ascoltatore 
tenta  di  rendersi  ragione  della  vergogna  che  lo  ha  as- 
salito quando  s'avvide  di  non  sapere  quel  che  gli  altri 
dimostravano  di  comprendere  così  facilmente  col  plau- 
so delle  mani  e  con  l'assenso  di  tutte  le  membra.  Che 
cosa  sarebbero  queste  tali  «  cose  »  le  quali  dovrebbero 
governare  in  luogo  degli  «  uomini  »?  Cose  sono  tutto 
ciò  che  esiste  ad  eccezione  degli  uomini.  Pare  che  le 
cose  debbono  essere  oggetti  materiali,  tangibili  e  mi- 
surabili od  almeno  estrinsecazioni  esteriori  di  una  atti- 
vità umana.  È  «  cosa  »  una  macchina,  un  campo,  un 
albero,  un  libro,  un  quadro;  sono  cose  anche  un  discor- 
so, una  lezione,  in  quanto  il  discorso  e  la  lezione  si 
separino  dalla  persona  dell'oratore,  e  certi  moti  delle 
labbra  diano  luogo  a  certe  vibrazioni  dell'aria  che  si 
comunicano  all'ascoltatore.  Non  pare  che  possano  es- 
sere definite  «  cose  »  le  qualità  di  intelligenza  e  di  cul- 
tura che  consentono  all'oratore  di  fare  il  discorso  e  nep- 
pure le  idee  che  vi  sono  contenute.  Non  sembra  nem- 
meno che  le  ((  azioni  »  compiute  dagli  uomini  in  se- 
guito a  quei  discorsi  od  a  quelle  idee  possano  essere 
definite  «  cose!  ». 


—  211  — 

Se  tutto  ciò  è  vero,  come  si  può,  con  esattezza  let- 
terale di  linguaggio,  augurarci  di  essere  governati  dalle 
«  cose  »  invece  che  dagli  uomini?' È  già  repugnante  pen- 
sare che  si  possa  affidare  il  governo  della  società  ai 
piedi  od  allo  stomaco  degli  uomini;  ma  pare  privo  di 
senso  volerlo  affidare  addirittura  ai  sassi,  agli  alberi, 
alle  macchine,  ai  libri  ed  ai  discorsi,  intesi  questi  ulti- 
mi come  oggetti  tangibili  o  misurabili  o  fonograf abili. 
Le  frase  dunque  «  governo  delle  cose  »  intesa  nel  suo 
significato  letterale  è  priva  di  senso. 


Ove  glie  se  ne  voglia  dare  uno  ragionevole,  si  pre- 
senta alla  mente  quello  di  governo  condotto  in  base 
alla  «  natura  delle  cose  »,  al  ragionamento,  alla  logica. 
La  frase  sarebbe  perciò  un  appello  a  governare  in  base 
ad  idee  generali,  a  principii  dimostrabili  e  tali  da  so- 
stenere l'urto  della  pubblica  critica.  Le  «  cose  »  stareb- 
bero al  posto  della  vecchia,  alquanto  screditata  «  ra- 
gione ».  In  un'epoca  di  materialismo  e  di  positivismo 
si  aveva  un  po'  di  ritegno  nell'invocare  l'avvento  della 
«  ragione  »,  la  quale  aveva  dato  così  belle  prove  di  se 
durante  il  periodo  aureo  in  cui  essa  imperò,  producen- 
do le  costituzioni  di  carta  della  rivoluzione  francese,  il 
terrore  e  Napoleone.  Parve  più  «  positivo  »  invocare 
che  gli  uomini  si  dovessero  governare  secondò  l'ordine 
naturale  delle  «  cose  »,  il  che  vorrebbe  dire  secondo 
la  «  ragione  »  p'ositivisticamente  intesa,  quella  che  vuo- 
le giungere  alla  massima  felicità  del  maggior  numero 
degli  uomini.  Il  contrapposto  delle  «  cose  »  agli  «  uo- 
mini »  dovrebbe  mirare  ad  escludere  quel  che  vi   è   di 


212 


fazioso,  di  personale,  di  passionale,  di  sentimentale  nel- 
l'anima dei  governanti  come  dei  governati.  Si  vorrebbe 
il  governo  secondo  leggi  oggettive  ed  imparziali,  in- 
vece   che   secondo   l'arbitrio   degli   uomini. 

Anche  questa  è  una  definizione  oltremodo  debole 
della  frase  governo  delle  «  cose  ».  La  esperienza  sto- 
rica prova  essere  impossibile  governare  secondo  «  ra- 
gione »;  ed  essere  un  fatto  incontroverso  che  i  senti- 
menti, le  passioni  ed  anche  i  pregiudizi  degli  uomini 
sono  una  forza  di  valore  grandissimo  di  cui  devono  te- 
nere assai  conto  la  scienza  e  l'arte  di  governo.  Si  pos- 
sono produrre  effetti  perniciosissimi  quando  si  pretenda 
governare  col  solo  sussidio  della  ragion  ragionante; 
mentre  spesso  le  nazioni  furono  condotte  ad  alto  grado 
di  prosperità  da  uomini  poco  sapienti  e  volitivi,  i  quali 
seppero  volgere  a  mete  sublimi  le  passioni,  anche  ir- 
ragionevoli, delle  moltitudini.  L'oggettività  e  la  impar- 
zialità, che  risiederebbero  nelle  «  cose  »  non  danno  af- 
fatto alcuna  garanzia  di  governo  efficace  e  corretto.  Go- 
verni celebrati  nella  storia  come  i  migliori,  che  lascia- 
rono dietro  di  se  più  buon  ricordo  nelle  popolazioni 
non  furono  quelli  condotti  colla  logica  del  puro  ragio- 
namento. Dove  e  quando  furono  tentati,  i  governi  «  lo- 
gici ))    diedero    assai   lacrimevole   prove   di   sé. 

Una  variante  del  concetto  delle  «  cose  governatici 
degli  uomini  »  è  quella  degli  avvenimenti  i  quali  acca- 
drebbero all' infuori  degli  uomini  e  che  spingerebbero 
costoro  innanzi  come  tratti  da  un  turbine  al  quale  sa- 
rebbe follìa  resistere.  Specialmente  in  tempi  torbidi  la 
teoria  degli  avvenimenti  «  superiori  alla  volontà  degli 
uomini  »  ha  gran  voga.  Non  più  le  cose  materiali;  ma 
certi  influssi  extra-umani  agirebbero  potentemente  a  de- 


213 


terminare  le  vicende  politiche,  traendo,  con  una  forza 
magica,  ad  esempio,  la  Russia  dallo  Czar  ai  Cadetti, 
dal  principe  Lvoff  a  Kerenski  a  Lenin  ed  a  Trotzki;  ed 
oggi  la  Germania  da  Guglielmo  II  a  Massimiliano  di 
Baden  e  poi  ad  Ebert  e  quindi,  se  noni  fosse  stato  nel 
frattempo  fucilato,  a  Liebkneeht;  ed  ambedue  i  paesi 
ad  altri  «  fatali  »  e  non  mutabili  destini.  Una  cosa  mi- 
steriosa ed  inosservabile,  il  «  fato  »  o  la  «  storia  »  od 
il  «  progresso  »  dalla  nobiltà  alla  borghesia  e  da  questa 
al  proletariato  guiderebbe  gli  uomini  e  vana  sarebbe 
ogni   resistenza. 

È  questa  la  teoria  dei  vinti,  dei  fiacchi  e  dei  timidi. 
Luigi  XVI  non  osava  dare  l'ordine  con  cui  un  sottote- 
nente d'artiglieria,  che  poi  si  chiamò  Napoleone,  si  te- 
neva sicuro  di  sapere  incanalare  la  rivoluzione  verso 
una  meta  diversa  da  quella  che  fu  raggiunta  in  man- 
canza di  una  mano  ferma  e  capace  di  indirizzarla.  Se 
si  analizza  a  fondo  la  «  cosa  »  inesplicabile,  si  vede  che 
gli  avvenimenti  di  ieri  e  di  oggi  non  sono  «  fuori  di 
noi  »,  ma  in  noi  stessi,  e  la  loro  direzione  e  la  loro  ve- 
locità sono  determinate  dalla  nostra  volontà  od  assen- 
za di  volontà,  dalla  nostra  operosità  od  ignavia,  dalla 
consapevolezza  dei  nostri  doveri,  dalla  quantità  di  sa- 
crificio e  di  sforzo  che  siamo  disposti  a  sopportare  pur 
di  raggiungere  la  meta  da  noi  voluta  o  di  impedire  che 
altri  raggiunga  una  meta  non  voluta  da  noi.  Quante 
volte  l'unità  italiana  parve  una  vana  utopia  e  non  fu 
essa  tuttavia  raggiunta  per  la  tenace  volontà  di  pochi 
uomini  che  si  chiamavano  Cavour,  Mazzini,  Garibaldi? 
L'indipendenza  americana  e  la  vittoria  del  Nord  libe- 
ratore contro  il  Sud  schiavista  non  furono  forse  avve- 
nimenti  tutt*  altro   che   «  fatali  »;   non   furono    anzi   mira- 


—  214  — 

coli  dovuti  alla  tenacia  di  volontà  di  uomini  che  ei> 
bero  nome  Washington  e  Lincoln?  Se  domani  un  go- 
verno supernazionale  sarà  un  avvenimento  concreto, 
chi  oserà  affermare  che  esso  sia  stato  un  avvenimento 
imposto  dal  di  fuori  agli  uomini,  e  non  invece  un'idea 
pura  concepita  dai  filosofi  ed  imposta  agli  uomini  re- 
calcitranti da  un  uomo  degli  altri  più  veggente  e  tena- 
ce? Certo,  nessuna  idea  si  attua  d'un  tratto,  appena  con- 
cepita; e  tale  rapidità  sarebbe  una  sventura  per  gli  uo- 
mini, soggetti  ad  un  turbinio  incomposto  di  esperienze 
inconcludenti.  Ogni  idea  ha  la  sua  genesi  in  idee  pre- 
cedenti, da  cui  essa  germina  e  che  essa  è  destinata  a 
a  superare.  È  un  privilegio  del  genio  quello  di  scovrire 
ed  affermare  l'idea  politica  la  quale  in  un  dato  mo- 
mento è  il  perfezionamento  possibile  più  alto  delle  idee 
precedenti  e  dominanti;  ma  nel  far  ciò  egli  non  accetta 
un  verbo  impostogli  da  un  misterioso  ed  inafferrabile 
((  al  di  fuori  »,  sebbene,  conoscendo  profondamente  se 
stesso  e  gli  altri  uomini,  le  loro  passioni,  i  loro  senti- 
menti, le  loro  idee  ed  aspirazioni,  sa  formulare  quel- 
l'ideale che  è  più  capace  di  trascinarli  verso  un  gra- 
dino più  alto  della  loro  vita  materiale  e  spirituale. 


Alcuni  confondono  le  «  cose  »  con  i  «  programmi  ». 
Sfiduciati  per  aver  veduto  troppo  spesso  gli  uomini  ar- 
rivati al  potere  governare  dimenticandosi  delle  fatte 
promesse,  sognano  un  paese,  in  cui  i  governati  sareb- 
bero gli  esecutori  di  un  certo  numero  di  punti  di  un 
programma  bandito  nelle  elezioni  in  contraddittorio  con 
altri  programmi,  e  prescelto  dal  corpo  elettorale;  e  sup- 


—  215  — 

pongono  che  in  Inghilterra,  negli  Stati  Uniti  ed  altrove 
esistano  davvero  i  governi  di  quei  pezzi  di  carta,  detti 
programmi,  che  i  ministri  applicherebbero  senz'altro. 
Ecco,  si  dice,  il  governo  delle  cose  sostituito  al  governo 
delle  persone.  Nulla  di  più  fantastico  di  queste  cre- 
denze. In  ogni  paese,  anche  in  quelli  che  sono  i  de- 
positari venerandi  delle  norme  di  governo  rappresen- 
tativo, l'inosservanza  dei  programmi  è  la  regola.  Che 
i  programmi  rispondono  a  situazioni  passeggere,  le  qua- 
li non  sono  più,  quando  un  partito  giunge  al  potere,  le 
stesse  che  esistevano  quando  esso,  anelante  di  arrivar- 
vi, formulava  il  programma.  Ed  anche  quando  si  ve- 
dono grandi  uomini  di  Stato  come  Camillo  Cavour, 
Washington,  Lincoln,  Wilson  attuare  sul  serio  i  pro- 
grammi e  le  promesse  elettorali,  ciò  accade  perchè  ec- 
cezionalmente essi  antiveggevano  i  bisogni  del  futuro  e 
volevano  essi  stessi  creare  quel  futuro.  La  virtù  di  quei 
governi  non  stava  nel  programma  —  inerte  pezzo  di 
carta  —  ma  negli  uomini  che  avevano,  essi,  voluto  quel 
programma.  Ed  è  tanto  vero  ciò  che  tutti  plaudirono  a 
Roberto  Peel,  quando  abbandonando  il  partito  suo  e 
le  promesse  contenute  nel  suo  programma  elettorale  si 
voltò  verso  la  parte  avversaria  e  propugnò  l'abolizione 
dei   dazi   sui   cereali   che    aveva   prima  sostenuto. 


Qui  si  vede  che  la  virtù  dei  governi  non  sta  nelle 
cose  inerti,  negli  schemi  della  ragion  ragionante  opposta 
alle  passioni  umane,  nelle  elencazioni  sterili  dei  pro- 
grammi elettorali.  Essa  sta  negli  uomini  che  hanno  idee 
e  che  le  vogliono  far  trionfare;  che  perciò  combattono 


—  216  — 

gli  uomini  i  quali,  privi  di  idee,  vogliono  solo  il  trionfo 
di  sé  stessi  e  dei  piccoli  loro  interessi  e  delle  ribalde 
loro  passioni.  Governo  di  cose  invece  che  governo  de- 
gli uomini  vuol  dire  perciò  governo  delle  «  idee  »  in- 
carnate in  uomini,  i  quali  per  farle  trionfare,  si  giovano 
delle  passioni  umane,  di  quelle  generose  e  di  quelle 
ordinarie,  altruistiche  od  interessate  e  tutte  le  scagliano, 
a  guisa  di  catapulta,  contro  gli  uomini  semplicemente 
dotati  di  accortezza  o  di  furberia,  i  quali  irridono  alla 
teoria  e  si  tengono  fermi  alla  pratica  della  soddisfazio- 
ne ai  piccoli  interessi  ed  alle  piccole  passioni  e  coll'im- 
broglio  e  con  l'inganno  usano  sopraffare  gli  avversari. 
Sono  le  idee  che  fanno  muovere  gli  uomini  e  che  fanno 
servire  le  cose  materiali  ai  fini  che  l'uomo  si  propone. 
In  questo  senso  soltanto  la  frase  «  bisogna  governare 
colle  cose  invece  che  cogli  uomini  »  può  acquistare  un 
valore  che  non  pare  abbia  fin  qui  avuto.  Essa  sorse  in 
un'epoca  scura  per  l'Italia;  quando  da  taluni  s'invoca- 
vano le  «  cose  »  per  aver  agio  di  sostituire  alla  vecchia 
generazione  di  coloro  che  avevano  fatto  l'Italia  —  ed 
avevano  gli  uni,  gli  uomini  di  destra,  idee  salde  e  va- 
sta esperienza,  e  gli  altri,  quei  di  sinistra,  passioni  ac- 
cese —  una  nuova  generazione  di  gente  fredda  e  pra- 
tica, senza  idee  e  senza  passioni,  la  quale  si  propo- 
neva di  governare  l'Italia  come  se  fosse  una  «  cosa  » 
qualunque,  un  meccanismo  morto  da  far  lavorare  a 
proprio  profitto;  si  rinvigorì  quando,  pel  trionfo  di  un 
grossolano  positivismo  e  pel  diffondersi  di  un  materia- 
lismo cosidetto  «  storico  »  parve  elegante  disconoscere 
la  forza  delle  idee  e  si  pretese  che  il  mondoi  fosse  go- 
vernato dal  ventre,  il  quale  è  indubbiamente  un  mecca- 
nismo   interessante,    che    deve    essere    fatto    funzionare 


—  217  — 

perchè  l'uomo  possa  vivere  una  vita  più  aita,  ma  non 
è  il  fattore  remoto  e  fondamentale  della  storia  umana. 
In  questa  bassa  assenza  di  moventi  ideali  dell'azione 
politica,  parve  vanto  per  gli  uomini  di  governo  stra- 
niarsi della  loro  qualità  di  uomini,  affermare  che  non 
esistono  e  non  possono  esistere  uomini  capaci  di  gui- 
dare colla  forza  del  loro  intelletto  e  colla  vigorìa  delle 
passioni  messe  al  servizio  di  una  idea  i  popoli  verso 
più  alti  destini.  Parve  abile  ai  piccoli  uomini,  i  quali 
volevano,  durante  il  trasformismo  e  poscia,  sostituire 
le  loro  «  persone  »  alle  persone  dei  governanti  ed  i 
quali  sapevano  di  non  avere  idee  proprie  da  opporre 
alle  «  non  idee  »  altrui,  affermare  a  scanso  di  fatica  e 
di  impegni,  che  non  gli  uomini  debbono  da  se  decidere 
delle  proprie  sorti,  ma  che  queste  debbono  essere  fis- 
sate, volenti  o  nolenti  gli  uomini,  da  certe  inerti  entità 
metafisiche,  dette  «  cose  »  :  macchine,  terre,  porti,  val- 
li,   fiumi,    mari,    ferrovie,    salariato,    capitalismo. 

Storia  e  teoria  politica  si  popolarono  di  miti,  di  dei 
dominatori  a  cui  la  gente  guardava  con  terrore  dicendo  : 
son  «  le  cose  »  che  ci  governano!  Frattanto,  all'ombra 
delle  e  cose  »  i  piccoli  uomini  tessevano  i  loro  intrighi 
e  impedivano  che  le  moltitudini  seguissero  i  loro  duci 
ideali.  Così  fu  che,  allo  scoppio  della  guerra  europea, 
ci  trovammo  senza  un  capo,  senza  una  guida  univer- 
sale riconosciuta;  così  fu  che  l'orazione  di  Antonio  Sa- 
landra  in  Campidoglio  rimase  senza  seguito  e  nessun 
frammento  dell'oratoria  interminabile,  che  si  rovesciò 
sul  paese  durante  questi  quattro  anni  suscitò  un'eco 
profonda  nel  cuore  degli  italiani,  prima  che  le  rapide, 
fresche  risposte  del  presidente  americano  ai  nostri  in- 
dirizzi non  ci  ricordassero  nuovamente  che  si  può  avere 


—  218  — 

delle  idee  ed  esprimerle  candidamente  e  trascinare  col 
candore  e  colla  sincerità  dietro  di  se  i  popoli.  Ma  ora- 
mai pare  che  l'eco  delle  «  cose  »  sia  tramontata;  e  che 
siano  sorti  nuovamente  in  Italia  uomini  che  hanno  delle 
idee  e  vogliono  primeggiare  e  governare,  come  uomini 
vivi,  per  farle  trionfare.  La  guerra  fu  vinta,  perchè  in 
Italia  vi  fu  chi  seppe  persuadere  alle  moltitudini  che  non 
le  «  cose  »  concrete  hanno  valore,  non  gli  eserciti  for- 
midabili ed  i  cannoni  e  le  macchine,  e  le  organizza- 
zioni; ma  il  sacrificio  e  la  tenacia  e  la  virtù  di  resistenza 
e  la  consapevolezza  di  dover  vincere  o  morire  per  un 
ideale.  Che  cosa  importa  se  gli  uomini  che  ebbero  fede 
non  sempre  si  trovarono  al  governo  della  a  cosa  »  pub- 
blica? In  realtà  furono  essi  i  veri  governanti  del  paese, 
perchè  essi  spinsero  governi  e  popoli  ad  agire,  a  durare 
la  lunga  fatica  ed  a  vincere.  Da  quattro  anni  il  motto 
non  è  più  :  governano  le  cose  per  mezzo  degli  uomini 
che  non  hanno  né  idee  ne  passioni;  ma  come  già  nella 
grande  epoca  del  risorgimento  :  «  governano  gli  uomini 
di  pensiero  e  d'azione  che  mettono  le  loro  passioni  al 
servizio  di  un'idea  e  sanno  trascinare  gli  altri  ad  attuar- 
la ».  La  pace  sarà  vinta  ed  i  problemi  del  dopo  guerra 
saranno  risoluti  quanto  più  gli  uomini  dalle  idee  pro- 
fondamente concepite  e  sentite  prevarranno  contro  gli 
uomini,  i  quali  spregiano  le  idee  ed  hanno  il  culto  delle 
cose  morte  e  degli  avvenimenti  accaduti  al  di  fuori 
della  loroi  volontà. 

(Dalla  <(  Rivista  d'Italia  »,    1919,  voi.  I,  fase.    1). 


LA  SOCIETÀ'  DELLE  NAZIONI 
E   IL  GOVERNO  DELLE  COSE 

Ho  analizzato  i  vari  significati  che  si  possono  dare 
alla  frase  in  un  articolo  «  Il  governo  delle  cose  »  pub- 
blicato nella  Rivista  d'Italia  del  gennaio  1919  e  ripro- 
dotto qui  sopra.  Ma  l'analisi  si  riferiva  ai  significati  che 
la  frase  può  avere  quando  si  pretendesse  sul  serio  di 
governare  «  uomini  »  manipolando  «  cose  ».  Il  che  è 
assurdo.  Nel  presente  articolo  si  vuole  invece  distin- 
guere i  casi  in  cui  si  tratta  di  governare  «  uomini  »  da 
quelli  in  cui  si  vogliono  amministrare  «  cose  ».  E  si 
tenta  di  dire  che  cosa  siano  queste  cose. 

Probabilmente  il  significato  più  ragionevole  che  si 
può  dare  alla  frase  «  governo  delle  cose  e  non  governo 
di  uomini  »  è  quello  per  cui  si  tenta  di  distinguere  le 
specie  dell'attività  dello  Stato  le  quali  si  indirizzano  di- 
rettamente o  indirettamente  agli  uomini,  da  quelle  le 
quali  si  applicano  «  principalmente  »  a  cose  materiali, 
ad  oggetti  inanimati.  Governare  l'Italia,  a  cagion  d'e- 
sempio, è  governo  di  uomini;  decidere  se  giovi  meglio 
all'Italia  meridionale  un  regime  doganale  libero-scam- 
bista o  protezionista  è  governo  di  uomini;  decidere  se 
ed  entro  che  limiti  si  debbano  imbrigliare  le  acque  di- 
laganti   T Appennino,    costruire    laghi    artificiali,    rimbo- 


220 


schire  le  pendici  dei  monti  sovrastanti  è  governo  di 
uomini.  La  decisione  di  questi  problemi  tocca  interessi, 
passioni,  sentimenti  contrastanti  di  uomini,  di  classi  o 
di  regioni;  e  l'uomo  di  Stato  deve  quindi  conoscere  l'a- 
nimo umano  e  saper  governare  uomini,  avere  idee  chia- 
re in  mente,  proporsi  scopi  ben  definiti  e  da  lui  con- 
siderati vantaggiosi  all'universale,  per  sapere  bene  ri- 
solvere  quei   problemi. 

Ma,  quando  la  decisione  del  rimboschire  è  presa, 
si  può  in  un  certo  senso  affermare  correttamente  che 
trattasi  solo  più  di  governare  «  principalmente  »  cose. 
La  scelta  fra  i  migliori  e  più  economici  metodi  di  im- 
brigliamento, di  rimboschimento,  di  taglio  dei  boschi  è 
problema  tecnico,  in  cui  gli  interessi  e.  le  passioni  de- 
gli uomini  hanno  ancora  una  certa  parte,  ma  piccola 
e  di  secondaria  importanza.  Qui  si  governano  davvero 
«  cose  »,  ossia  torrenti,  boschi,  precipitazioni  acquee, 
deflusso  di  acque  e  simili.  Ed  è  chiaro  che  il  governo 
di  queste  «  cose  »  è  di  gran  lunga  più  facile  del  governo 
degli  «  uomini  ».  Bastano  per  esse  abilità  tecnica,  co- 
gnizioni speciali  imparate  nelle  scuole,  sui  libri  o  nella 
pratica,  e  sufficiente  onestà  amministrativa;  e  quella  che 
dicesi  buona  «  organizzazione  »  può  riuscire  a  grandi 
cose.  A  governare  invece  «  uomini  )>  voglionsi  tutte 
queste  qualità  ed  altre  ancora  :  genio  politico,  intuito 
di  sentimenti  e  di  passioni,  capacità  di  entusiasmo, 
freddezza  di  calcolo,  arte  della  parola  e  virtù  del  si- 
lenzio, comprensione  dei  grandi  problemi  storici,  pro- 
fonda cultura  e  capacità  di  dare  risalto  a  volta  a  volta 
agli  aspetti  economico,  sentimentale,  religioso,  patriot- 
tico del   grande  problema  umano. 


221  — 


Le  qualità  necessarie  a  ben  governare  uomini  es- 
sendo tanto  più  rare  e  sublimi  di  quelle  sufficienti  a 
governare  cose,  riesce  subito  manifesta  la  ragione  per 
cui  si  deve  affermare  che  la  novella  società  delle  na- 
zioni avrà  maggiore  probabilità  di  successo  se  invece 
di  affrontare  il  grandioso  problema  del  governo  del- 
l'«  umanità  »  dal  lato  degli  «  uomini  »,  lo  affronterà  dal 
lato  «  cose  ».  Esistono  problemi  interstatali  «  umani  » 
e  problemi  interstatali  «  reali  ».  Prevenire  le  guerre,  iitr 
staurare  il  regno  della  pace  è  problema  «  umano  »,  dif- 
ficilissimo a  risolversi.  Si  può  rimanere  scettici  intorno 
alla  efficacia  delle  corti  di  arbitrato,  o  alia  osservanza 
delle  clausole  arbitrali,  pensando  alla  varietà  inesau- 
ribile delle  passioni  umane,  alla  incoercibile  virtù  di 
taluni  sentimenti  che  spingono  alla  lotta  e  al  desiderio 
di  supremazia  e  per  questa  via  conducono  alla  guerra. 

Ma  altri  problemi  sono,  quasi  si  direbbe,  al  di  fuori 
delle  passioni  umane.  Le  lettere  servono  alla  trasmis- 
sione di  pensieri  e  di  sentimenti  e  sono  perciò  un  fatto 
umano;  ma  in  se  stesso  il  trasporto  delle  lettere  è  un 
fatto  tecnico,  il  quale  può  essere  organizzato  nel  modo 
più  perfetto  come  una  amministrazione  di  cose.  L'u- 
nione postale  universale  ha,  suppongo,  con  qualche 
adattamento  e  tenuto  conto  delle  chiusure  di  frontiere, 
continuato  a  funzionare  anche  durante  la  guerra.  Gli 
Stati  belligeranti  hanno  continuato  a  delegare  una  parte 
della  loro  sovranità  a  questo  organo,  che  in  embrione 
è  dia  tempo  una  vera  società  delle  nazioni  in   atto. 

Molte  di  queste  amministrazioni  interstatali  esiste- 
vano prima  della  guerra.  Vi  fu  chi  calcolò  che  nel  1913 


—  222  — 

si  erano  adunati  ben  135  Congressi  intemazionali  per 
trattare  affari  di  interesse  comune  a  più  Stati.  Una  delle 
amministrazioni  più  interessanti,  per  chi  voglia  osservare 
il  graduale  formarsi  del  superstato,  il  quale  forse  finirà 
a  governare,  per  un  tempo  più  o  meno  lungo,  il  mondo, 
è  la  commissione  europea  dei  Danubio.  Fu  creata  nel 
1856  dal  trattato  di  Parigi  per  due  anni,  e  dura  ancor  oggi. 
La  compongono  i  delegati  di  otto  Stati  :  Gran  Bretagna, 
Austria,  Francia,  Germania,  Russia,  Italia,  Turchia  e 
Romania.  Ha  per  iscopo  di  assicurare  e  facilitare  la 
navigazione  del  basso  Danubio.  Via  via,  per  meglio 
raggiungere  i  suoi  scopi,  essa  acquistò  poteri  propri, 
sovrani,  che  la  rendono  una  vera  immagine  di  uno  Sta- 
to astratto,  supernazionale,  senza  territorio  proprio  e 
nel  tempo  stesso  capace  di  una  azione  efficace  a  prò 
degli  uomini.  Essa  : 

a)  Non  può  essere  sciolta  senza  il  consenso  una- 
nime di  tutti  gli  aderenti.  Di  fatto  ciò  trasformò  la  com- 
missione da  provvisoria  in  perpetua.  Teoricamente, 
ognuna  delle  potenze  contraenti  può  ritirarsi;  ma  nes- 
suna si  ritira,  ben  sapendo  che  la  commissione  segui- 
terebbe a  sussistere  e  a  funzionare  senza  il  suo  concor- 
so e  forse  contro  i  suoi  interessi. 

b)  Ha  un'amministrazione  propria,  con  un  inge- 
gnere capo  servizio.  Ciò  è  bastato  perchè  l'ente  fosse 
un  qualcosa  di  diverso  da  una  delegazione  dei  singoli 
Stati  sovrani;  avesse  una  politica  propria,  alla  quale 
ubbidiscono  gli  Stati,  talvolta  riluttanti.  Accadde  che  la 
maggioranza  degli  Stati  aderenti  ordinasse  ai  propri  de- 
legati di  provocare  la  sospensione  di  certi  lavori  di  as- 
sestamento del  fiume.  Ma  poiché  i  lavori  erano  ur- 
genti, i  commissari  moralmente  si  considerarono  tenuti 


—  223  — 

a  deliberarne  invece  la  prosecuzione;  e  il  voto  della 
commissione  prevalse  su  quello  degli  Stati  sovrani  de- 
leganti. La  pratica  dimostra  che,  una  volta  costituita 
una  commissione  internazionale,  la  sovranità  si  sposta 
invincibilmente,  nonostante  ogni  espressa  e  chiarissima 
riserva,  dai  parlamenti  e  dai  governi  dei  singoli  Stati 
al  nuovo  ente  internazionale. 

e)  Il  che  tanto  più  facilmente  accade  se,  come  fu 
il  caso  della  commissione  del  Danubio,  il  nuovo  ente 
ha  il  diritto  di  imporre  tributi.  À  coprire  le  spese  dei 
lavori  sul  fiume,  la  commissione  danubiana  può,  a  mag- 
gioranza di  voti  e  con  eguaglianza  perfetta  di  tratta- 
mento per  le  bandiere  di  tutte  le  nazioni,  imporre  di- 
ritti sulle  navi  che  percorrono  il  fiume.  Ecco  un'altra 
caratteristica  del  superstato  :  la  maggioranza  dei  de- 
legati può  obbligare  la  minoranza  recalcitrante  a  su- 
bire imposte  volute  nell'interesse  generale.  Ciò  salda  e 
perpetua  l'ente. 

d)  Il  diritto  di  prelevare  imposte  reca  con  se  la 
necessità  di  avere  una  forza  armata  capace  di  costrin- 
gere i  contribuenti  al  pagamento.  La  commissione  da- 
nubiana non  ha  un  vero  corpo  armato  a  sua  disposizio- 
ne; ma  il  suo  tesoriere  può,  a  mezzo  del  capitano  del 
porto  di  Sulina,  ordinare  alle  navi  da  guerra  di  qual- 
cuna delle  potenze  aderenti  o,  in  difetto,  allo  stazio- 
nario turco,  di  ridurre  all'ubbidienza  le  navi  mercan- 
tili che  tentassero  di  evadere  il  pagamento  della  ta- 
riffa stabilita  dalla  commissione. 

e)  Chi  ha  entrate,  ha  credito;  epperciò  esiste  un 
debito  pubblico  della  commissione  danubiana.  Non  è 
un  debito  dei  singoli  Stati;  ma  un  debito  specifico  del- 
l'ente. 


224 


/)  La  sua  natura  di  superr.tato  è  chiarita  altresì 
dalla  sua  neutralità.  Dapprima  non  ammessa  per  l'op- 
posizione della  Russia,  fu  accolta  dall'atto  pubblico  del 
1865,  il  quale  dichiarò  che  «  le  opere  e  gli  stabilimenti 
di  ogni  specie  creati  dalla  commissione  e  in  specie  l'e- 
dificio della  tesoreria  fluviale  a  Sulina  avrebbero  go- 
duto del  privilegio  della  neutralità  e  sarebbero  stati  in 
caso  di  guerra  ugualmente  rispettati  da  tutti  i  belli- 
geranti ». 

*** 

Il  governo  della  cosa  «  Danubio  »  creato  nel  1856 
ha  avuto  un  magnifico  successo.  Così  come  l'hanno 
avuto  l'unione  postale  internazionale,  le  varie  unioni 
per  la  proprietà  industriale,  letteraria,  ecc.  ecc.  Non 
v'è  nessuna  ragione  perchè  l'esempio  non  debba  es- 
sere imitato  in  molti  altri  casi  con  uguale  successo.  E 
questo  diventerà  maggiore  se,  come  lo  consente  l'atto 
costitutivo  della  società  delle  nazioni,  le  sedi  di  tutte 
le  commissioni  e  unioni  internazionali  esistenti  e  di 
quelle  da  crearsi  in  avvenire  verranno  concentrate,  in 
quanto  sia  possibile,  nella  città  capitale  della  lega;  e, 
in  quanto  ciò  non  sia  possibile  o  conveniente,  se  le 
singole  commissioni  avranno  un  rappresentante  nella 
stessa  città  press®  il  segretario  permanente  della  lega. 
Grande  è  la  probabilità  che  a  poco  a  poco  si  costituisca 
un  vero  superstato  il  quale  regolerà  in  una  misura  sem- 
pre maggiore  gli  affari  relativi  alle  cose  che  interessano 
gli  uomini  in  generale. 

Ed  è  probabile  che  procedendo  in  questa  guisa  mo- 
desta, contentandosi  di  governare  le  «  cose  »,  si  giun- 
ga alla  fine  a  governare  anche  gli  uomini.  Ben  fece  la 
società    delle    nazioni    a    rinunciare    al    governo    diretto 


—  225  — 

delle  colonie  tedesche  o  dei  territori  dell'Asia  Minore. 
Sappiamo  l'insuccesso  del  governo  internazionale  del- 
l'Egitto, la  quasi  impossibilità  di  fare  qualcosa  di  buono 
a  Tangeri.  Qui  si  tratta  di  governare  «  territori  »,  ossia 
gli  uomini  che  vivono  in  quei  territori.  L'impresa  non 
può  essere  tentata  da  un  ente  che  sta  appena  ora  for- 
mandosi, soggetto  a  mille  influenze  diverse,  come  è 
la  società  delle  nazioni.  I  suoi  delegati,  che  dovessero 
amministrare  l'Armenia  o  l'Anatolia  turca,  sarebbero 
in  realtà  ministri  plenipotenziari  di  potenze  sovrane  in- 
dipendenti, gelose  le  une  delle  altre.  Essi  lotterebbero 
quasi  soltanto  per  strappare  concessioni,  privilegi,  fa- 
vori a  prò  dei  connazionali.  Perciò  il  governo  delle  co- 
lonie deve  essere  affidato  a  una  nazione  singola,  co- 
stretta bensì  a  seguire  certe  norme  comuni  nell'inte- 
resse generale,  ma  libera  di  governare  uomini  a  seconda 
del  proprio  genio  e  dei  propri  costumi.  Si  avranno,  co- 
me in  passato,  successi  grandi  o  mediocri  ed  insuccessi; 
ma  almeno  si  avrà  un  governo. 

La  società  delle  nazioni  può  essere  invece  effica- 
cemente incaricata  di  governare  il  Danubio,  parte  del 
Reno,  il  canale  di  Kiel,  i  Dardanelli  e  il  Bosforo,  il 
canale  di  Suez  o  di  Panama;  può  prendere  il  seguito  di 
istituti  internazionali  esistenti,  come  quello'  di  agricol- 
tura di  Roma,  l'unione  postale  universale,  le  unioni  per 
i  brevetti  e  per  i  marchi,  le  unioni  sanitarie,  per  gli 
orari  ferroviari,  ecc.  ecc.  Potrebbe  costituire  un  ufficio 
comune  per  la  repressione  delle  evasioni  tributarie  in- 
ternazionali e  per  la  elaborazione  di  norme  atte  a  im- 
pedire le  doppie  e  le  triple  tassazioni.  Qui  non  si  tratta 
più  di  governare  direttamente  uomini,  ma  di  dragar 
fiumi  e  canali,  costruire  banchine,  trasportar  lettere,  re- 
gistrare  attestati   di  privative,    confrontare   e  trasmettere 

15 


—  226  — 

denunce  di  eredità.  Funzioni  importantissime,  ma  ese- 
cutive; in  cui  gli  uomini  entrano  come  amministratori 
o  beneficiari,   non  come  partecipi   della  sovranità. 

Alla  lunga,  col  moltiplicarsi  di  queste  amministra- 
zioni interstatali  di  «  cose  »,  la  sovranità  degli  Stati  sin- 
goli verrebbe  indubbiamente  menomata.  Da  certi  punti 
di  vista  legislatori  e  governanti  finirebbero  ad  accorger- 
si che  esiste  al  disopra  di  essi  un  ente  superiore,  vi- 
vente di  vita  propria,  ai  cui  comandi  praticamente  essi 
non  avrebbero  forza  di  ribellarsi.  Essi  si  sentirebbero  le- 
gati da  mille  invisibili  fili,  da  cui  sarebbe  impossibile 
districarsi.  In  moltissimi  casi  i  parlamenti  nazionali  do- 
vrebbero rassegnarsi  ad  essere  pure  camere  di  registra- 
zione della  volontà  manifestata  dal  superstato.  Già  ora, 
se  l'unione  postale  internazionale  deciderà  il  rialzo  del- 
la tariffa  delle  lettere  da  25  a  40  centesimi,  vi  sarà  forse 
un  parlamento  il  quale  tenterà  di  non  obbedire?  Ogni 
Stato,  è  vero,  si  consola  pensando  che  quel  rialzo  fu 
anche  votato  dal  suo  delegato.  Ma  quel  delegato  era 
un  oscuro  funzionario,  di  cui  nessuno  del  pubblico  sa 
neppure  il  nome.  Ma  quel  delegato  può  aver  votato 
contro;  e  la  maggioranza  lo  sopraffece.  Ma  certamente 
la  maggioranza  votò  inspirandosi  a  criteri  di  interesse 
comune,  supernazionale,  mondiale.  Ecco  la  nuova  so- 
vranità, già  esistente  in  molti  casi  separati,  e  che  do- 
vrebbe essere  compito  della  società  delle  nazioni  uni- 
ficare, ampliare,  estendere  a  nuovi  casi.  A  poco  a  po- 
co il  nuovo  superstato,  sorto  dapprima  per  governar 
«  cose  »,  creerà  una  amministrazione,  attirerà  a  sé  gli 
uomini  più  capaci  delle  varie  nazioni  del  mondo.  I  po- 
litici di  maggior  merito  e  di  ambizioni  più  alte,  che  ora 
sdegnano  servire  nella  commissione  del  Danubio,  o  nel- 
l'ufficio  di   Berna  dei   marchi   industriali,   ameranno   dar 


—  227  — 

la  loro  opera  al  segretariato  permanente,  o  essere  mi- 
nistri delegati  alle  conferenze  annue  dei  supremi  con- 
sessi della  società  delle  nazioni.  I  parlamenti  e  i  mini- 
steri nazionali  scadranno  di  dignità  in  confronto  a 
queste  supreme  cariche.  Diventeranno  simili  ai  parla- 
menti o  consigli  regionali  o  provinciali,  di  cui  l'opi- 
nione pubblica  generale  poco  si  interessa.  Ed  ecco  la 
società  delle  nazioni  divenuta  capace  di  governare  an- 
che gli  uomini.  I  poteri  che  essa  non  avrà  ancora,  li 
otterrà  o  li  usurperà;  ne  i  parlamenti  nazionali  oseranno 
rifiutarsi  a  sempre  nuove  abdicazioni  dei  loro  poteri 
sovrani. 

Non  so  in  qual  lasso  di  tempo  queste  profezie  po- 
tranno avverarsi;  ma  certamente  esse  paiono  il  logico 
sviluppo  di  una  evoluzione  già  avvertita  prima  della 
guerra  e  che  questa  sembra  accelerare.  La  rapidità  e 
il  successo  della  nuova  formazione  superstatale  mi 
paiono  dipendere  sovratuttoi  dai  suoi  primi  passi.  Il 
successo  potrà  arridere  se  per  ora  la  società  delle  na- 
zioni si  contenterà  di  governare  fiumi,  laghi,  mari, 
stretti,  canali,  reprimere  la  diffusione  di  malattie  con- 
tagiose, spedire  lettere,  ecc.,  ecc.  Se,  in  prosieguo  di 
tempo  la  società  delle  nazioni,  col  crear  legami  fra 
uomini  e  nazioni,  con  lo  sminuire  i  poteri  dei  singoli 
Stati  sovrani,  con  l'attrarre  a  se  i  migliori  uomini  di 
tutte  le  parti  del  mondo,  avrà  acquistato  la  capacità  di 
governare  gli  uomini,  si  avrà  il  superstato,  vivo,  forte, 
atto  a  reprimer  guerre  tra  gli  Stati  apparentemente  so- 
vrani e  in  realtà  suoi  dipendenti.  Il  superstato  sarà  un 
fatto;  mentre  la  società  delle  nazioni,  atta  a  sentenziare 
fra  Stati  sovrani  e  ad  impedire  guerre,  pare  ed  oggi  è 
una  chimera. 

(Dalla  Minerva,    1°  aprile    1919). 


POPOLI  DOMINATORI 
E  POPOLI   OPPRESSI 

L'India  e  l'Egitto  furono  due  grandi  speranze  della 
Germania  durante  la  guerra.  Sollevare  il  mondo  mu- 
sulmano agitando  l'idea  della  riunione  di  tutti  i  se- 
guaci del  Corano  sotto  la  bandiera  del  Califfo,  ecci- 
tare i  partiti  nazionalisti  indiani  ed  egiziani;  separare 
nettamente  la  Russia  dall'India  risuscitando  una  antica 
e  quasi  spenta  idea  panturanica,  destinata  a  riunire  la 
razza,  non  più  la  religione,  dei  dominatori  turchi  del 
residuo  impero  musulmano  con  i  fortissimi  nuclei  tu- 
ranici  del  Turchestan  e  delle  altre  regioni  russe  poste 
sopra  all'India  e  al  Tibet;  stringere  così,  grazie  ai  buoni 
uffici  dei  giovani  turchi,  la  mano  ai  gruppi  atavici  affini 
della  Cina  occidentale  estrema. 

Il  piano  grandioso  di  dominazione  mondiale  non  fu 
forse  mai  compiutamente  avvertito  in  Italia,  dove  lo 
sguardo  si  estende  al  più,  in  politica  internazionale,  sino 
ai  lidi  dell'Africa,  al  Mar  Rosso  e  all'Asia  Minore.  Vi- 
dero invece  nettamente  quel  pericolo  gli  Inglesi  e  si 
adoperarono  a  sventarlo  con  la  spedizione  di  Mesopo- 
tamia,  che  doveva  impedire  l'arrivo  degli  eserciti  te- 
deschi fin  sul  mar  persico,  con  la  difesa  del  canale  di 
Suez  e  la  conquista  della  Palestina,  con  la  creazione 
del  Regno  d'Arabia,  con  un'opera  inavvertita  di  pene- 
trazione compiutasi,  dopo  il  dissolvimento  massimalista 


—  230  — 

dell'Impero  russo,  nelle  regioni  del  centro  dell'Asia  si- 
tuate di  là  dall'Himalaia.  Quel  cerchio  di  ferro  che  do- 
veva stringere  al  collo  la  dominatrice  dei  mari  e  farla 
cadere  al  suolo,  oggi  è  una  cintura  magnifica  di  pro- 
tezione dell'Impero  britannico.  L'Egitto  e  l'India,  e  con 
essi  l'Africa  meridionale  e  l'Australasia,  sono  protetti 
dalla  Palestina,  dall'Arabia,  dalla  Mesopotamia  e  dalle 
zone   di   influenza  del  centro   dell'Asia. 

L'Impero  britannico,  non  più  minacciato  dall'ester- 
no, pare  tuttavia  vacillante  per  dissidi  interni  :  l'Irlanda 
rivoltosa  costituisce  un  governo  repubblicano  indipen- 
dente e  segreto  allato  al  governo  ufficiale,  per  le  vie 
d'  Alessandria  e  del  Cairo  corre  a  rivi  il  sangue  egi- 
ziano, e  dall'India  giungono  notizie  di  movimenti  in- 
surrezionali gravissimi.  L'idea  della  autodecisione  e 
delle  nazionalità,  agitata  dall' Inghilterra  e  dall'intesa 
durante  la  guerra  contro  il  sogno  germanico  di  domina- 
zione mondiale,  si  rivolta  contro  1*  Inghilterra  medesi- 
ma,  la  grande  dominatrice. 

Tutta  la  gente  fatua,  che  sui  giornali  italiani  e  fran- 
cesi ha  bisogno  di  inneggiare  ai  popoli  oppressi,  tutti 
i  germanofili  hanno  fatta  propria  la  causa  dell'Irlanda, 
dell'Egitto  e  dell'India.  E  ritengono  che,  insieme  alla 
conculcata  libertà  dei  mari,  alla  ferma  decisione  del- 
l'Inghilterra di  non  allentare  la  mano  la  quale  detiene 
Gibilterra  e  Suez,  il  ricordo  dell'Irlanda,  dell'Egitto  e 
dell'India  basti  a  dimostrare  l'ipocrisia  profonda  delle 
dichiarazioni  anglosassoni  di  voler  combattere  per  la 
libertà  del  mondo,  e  l'abisso  di  schiavitù  effettiva  in 
che  siamo  caduti  per  resistere  a  quello  che  in  sostanza, 
essi    aggiungono,    era    un    immaginario    sogno    di    domi- 


231 


nazione,  anzi  una  calunnia  inventata  dagli  inglesi  contro 
l'egemonia  germanica. 

Di  qui  la  simpatia  di  tanti  cuori  sensibili  verso  le 
nuove  nazioni  oppresse  dal  tallone  britannico,  1* ironia 
sarcastica  di  tante  penne  scintillanti  contro  coloro  i 
quali  hanno  avuto  il  torto  di  invocare  ragioni  ideali  e 
mondiali  per  spingere  1* Italia  a  fianco  dell'intesa.  Di 
qui  lo  scoramento  di  molti  i  quali  chiedono  :  valeva  la 
pena  di  sacrificare  tante  vite  e  tanti  miliardi  per  rin- 
saldare sul  mondo  e  su  noi  un  giogo  spregevole  ed  umi- 
liante appunto  -perchè  si  astiene  dal  piglio  truce  ma 
leale  del  guerriero  ed  assume  la  forma  insidiosa  della 
soprafT azione  mercantile? 


Il  problema  è,  solo  in  parte,  un  problema  di  oppres- 
sione militare  e  di  sfruttamento  mercantile.  Quando  i 
nemici  e  gli  invidiosi  dell' Inghilterra  affermano  che,  se 
essa  ritirasse  i  suoi  eserciti,  non  un  giorno  di  più  dur 
rerebbe  la  sua  dominazione  sull'Irlanda,  sull'Egitto  e 
sull'India,  e  nessuno  ripeterebbe  l'invocazione  che  dal- 
l'isola britannica  abbandonata  dalle  legioni  romane  di- 
speratamente giungeva  all'imperatore,  di  voler  conser- 
vare la  sua  protezione  ai  sudditi  fedeli,  ormai  romaniz- 
zati e  timorosi  di  cadere  sotto  il  giogo  di  barbare  tribù, 
forse  affermano  il  vero,  sebbene  nessuno  possa  oggi 
prevedere  se  nell'India  e  nell'Egitto,  dilaniati  dalle  di- 
scordie intestine  e  facile  preda  di  orribili  miserie  e  di 
tirannie  effimere,  ben  presto  il  grido  di  angoscia  e  di  in- 
vocazione alla  pax  britannica  non  sarebbe  prima  som- 
messamente e  poi  a  gran  voce  ripetuto  dalle  bocche  di 


—  232  — 

milioni  di  lavoratori  industriosi,  abbandonati  in  balìa 
della  classe  letterata,  i  cui  rappresentanti  oggi  infestano 
le  capitali  europee  con   le  loro  querimonie. 

11  problema  di  forza  è  chiaro  :  nessun  paese  rinuncia 
da  sé,  salvo  vi  sia  costretto  da  una  forza  militare  pre- 
potente, alle  ragioni  della  propria  esistenza.  Quando 
fosse  proclamata  la  repubblica  irlandese,  e  l'Irlanda 
fosse  scissa  dal  nesso  dell'Impero,  i  suoi  porti,  i  suoi 
seni,  il  mare  interno  tra  l'Irlanda  e  l'Inghilterra  diven- 
terebbero nidi  di  sottomarini,  la  sicurezza  delle  comu- 
nicazioni della  madrepatria  con  le  colonie  verrebbe 
meno.  Dopo  poche  settimane  di  guerra,  l'Inghilterra, 
incapace  ora  e  sempre  a  nutrire  i  suoi  figli,  dovrebbe 
arrendersi  per  fame.  Se  fossero  rotti  i  rapporti  dell'In- 
ghilterra con  l'Egitto,  le  comunicazioni  con  l'India  e 
con  l'Australasia  diventerebbero  lente  e  diffìcili,  e 
quella  potenza,  la  quale,  d'accordo  con  il  piccolo  Stato 
indipendente  possessore  del  canale  di  Suez,  vi  si  im- 
piantasse, potrebbe  davvero  stringere  al  collo  e  buttare 
a  terra  il  colosso  britannico.  E  chi  conosce  l'opera  com- 
piuta dagli  inglesi  nell'India,  sin  da  quando  la  salva- 
rono dall'anarchia  sanguinosa  e  dalla  carestia  perenne 
e  la  ridussero  a  paese  popoloso  e  ordinato  e  pacifico, 
non  può  credere  che  essi  rinuncino,  fuorché  costrettivi 
dalla  forza,  a  quella  che  essi  reputano  ed  è  una  grande 
missione  storica  e  civilizzatrice. 

Se  le  accuse  di  fondarsi  sulla  forza  si  spuntano 
contro  la  volontà  di  vita  dell'impero,  quelle  di  nascon- 
dere con  parole  umanitarie  una  sostanza  di  sfruttamento 
mercantile  sono  frutto  esclusivamente  della  incapacità 
di  comprendere  i  vantaggi  economici  grandiosi  che  una 
saggia   amministrazione   può   arrecare   ai   popoli   econo- 


—  233  — 

micamente  arretrati.  La  dominazione  inglese  nell'Ir- 
landa fu  macchiata  da  colpe  gravi  nei  secoli  passati; 
ma  quelle  colpe  furono  largamente  riparate  con  una  po- 
litica lungimirante  che  dura  oramai  dà  tre  quarti  di 
secolo.  Scomparsa  o  quasi  la  grande  proprietà  inglese, 
restituita,  con  sacrificio  di  miliardi,  la  terra  ai  contadini 
irlandesi,  spezzato  il  latifondo,  ricostruite  le  case,  co- 
perta l'Irlanda  da  una  rete  di  cooperative  dì  produ- 
zione, mai  l'Irlanda  fu  così  prospera  come  oggi;  e  la 
sua  prosperità  fu  a  mille  doppi  cresciuta  dalla  guerra, 
quando,  libera  dalla  coscrizione  militare,  essa  vendette 
alla  dominatrice  iugulata  dalla  fame  i  suoi  prodotti  a 
prezzi  altissimi.  La  ribellione  irlandese  d'oggi  è  la  ri- 
bellione contro  il  fiume  d'oro  rovesciatosi  a  inondare 
l'isola  verde  grazie  al  relativo  impoverimento  degli 
inglesi. 

Le  stesse  verità  inconfutabili  si  possono  ripetere  per 
l'Egitto  e  per  l'India.  Non  mai  nella  storia  quei  due 
paesi  ebbero  a  traversare  un  periodo  di  floridezza  eco- 
nomica maggiore  dell'odierno.  Uno  dei  fatti  monetari 
principali  di  oggi  è  l'imboscamento  dell'oro  e  dell'ar- 
gento in  masse  mai  più  vedute  nell'India.  C'è  nel 
mondo  oggi  una  vera  crisi  dell'argento,  determinata 
dall' assorbimento  senza  limiti  che  i  contadini  indiani 
fanno  del  metallo  bianco  a  scopo  di  costituirne  tesori 
monetari  e  trasformarlo  in  oggetti  di  ornamento.  E  le 
classi  più  alte  requisiscono  oro.  È  un  imboscamento 
che  in  parte  ha  salvato  il  mondo  da  un  rialzo  di  prezzi 
maggiore  di  quello  che  si  verificò  di  fatto;  ma  è  un  in- 
dice altresì  di  risparmi  colossali,  compiutisi  in  paesi  i 
quali  si  pretendono  dissanguati  economicamente  dalla 
potenza  dominante,   ed  i  cui  rappresentanti  raccontano 


—  234  — 

novelle  di  aneddoti  senza  senso  e  di  arricchimenti  mi- 
nori di  quelli  che  essi  avrebbero  potuto  conseguire  se 
avessero  potuto  mettere  liberamente  il  coltello  alla 
gola  delle  nazioni  europee  combattenti  per  la  propria 
salvezza. 

*** 

Tuttavia,  questi  non  sono  fatti  conclusivi  per  i  po- 
poli dominati  e  per  gli  stranieri,  come  siamo  noi.  Pro- 
vano solo  che  la  liberazione  dell'Irlanda,  dell'Egitto  e 
dell'India  ferirebbe  a  morte  l'impero  britannico  e  dan- 
neggerebbe economicamente  i  paesi  ora  soggetti.  Ma 
anche  noi  italiani  —  si  deve  qui  rispondere  trionfal- 
mente —  volemmo  ferire  a  morte  l'impero  austriaco; 
ed  anche  noi,  se  ci  fossimo  contentati  di  divenire  i  vas- 
salli della  Germania,  avremmo  guadagnato  in  ricchezza, 
avremmo  potuto  assurgere  presto  ad  un  grado  di  pro- 
sperità materiale  quale  forse  non  otterremo  in  decenni 
di  sforzi  perseveranti.  Tuttavia  noi  abbiamo  avuto  ra- 
gione di  ferire  a  morte  a  Vittorio  Veneto  l'impero  au- 
striaco, ed  a  ragione  preferiamo  di  rimaner  poveri  piut- 
tostochè  arricchire  in  servitù.  Se  l'Inghilterra  potesse 
invocar  soltanto  la  forza  dei  suoi  eserciti  ed  i  benefici 
economici  arrecati  ai  popoli  da  essa  dominati,  la  sua 
causa  sarebbe  perduta. 

La  sua  forza  è  altrove;  è  nel  principio  che  essa  di- 
fende. L'Austria  meritava  di  cadere  perchè  non  rap- 
presentava più  nulla  al  mondo  :  ne  la  armonia  delle  na- 
zionalità conviventi  sullo  stesso  territorio,  ne  la  difesa 
della  cristianità  contro  il  turco  o  contro  il  barbaro  mo- 
scovita. Venuta  meno  la  sua  missione  europea,  essa  do- 
veva   cadere.        nostri    soldati    furono    lo    strumento    di 


—  235  — 

questa  necessità  infrangibile.  E  quale  ideale  più  alto 
di  organizzazione  politica  avrebbe  saputo  attuare!  la 
Germania  per  pretendere  a  giusto  diritto  la  rinuncia  alla 
nostra  indipendenza  spirituale?  Nessuno;  ed  oggi  i 
suoi  stessi  scrittori  sono  costretti  a  riconoscere  ciò  che 
da  tempo  avevano  osservato  gli  stranieri  :  essere  la  for- 
ma politica  germanica  antiquata  e  inetta  ad  elevare  il 
popolo  medesimo  germanico  ad  una  vita  collettiva  pie- 
namente consapevole. 

L'Inghilterra,  difendendo  se  stessa  —  e  ciò  per  noi 
non  conta  nulla,  —  difende  invece  un  principio  il  quale 
oramai  si  è  imposto  anche  ai  più  ciechi  :  il  principio 
che  non  esiste  nessuno  Stato  veramente  indipendente, 
e  che  tutti  gli  Stati  sono  legati  insieme  da  vincoli,  i 
quali  andranno  via  via  facendosi  sempre  più  stretti  e 
saldi.  L'indipendenza  compiuta  degli  Stati  è  un'utopia 
ed  è  un  male.  Non  esiste  e  non  può  esistere  uno 
Stato,  il  quale,  in  tempi  di  ferrovie,  di  navigazione  a 
vapore,  di  telegrafi  e  di  rapporti  economici  moltipli- 
cantisi,  possa  vivere  autonomo  e  indipendente.  È  vero 
invece  che  ogni  Stato  è  legato  agli  altri,  che  non  può 
senza  di  essi  vivere,  che  deve  limitare  la  sua  sovranità 
per  renderla  compatibile  con  la  sovranità  degli  altri. 
Alla  lunga,  la  verità  che  l'indipendenza  è  un  mito  ir- 
reale, e  che  solamente  è  vera  la  reciproca  dipendenza, 
fa  sorgere  le  utopie  della  pace  perpetua  e  della  uni- 
versale società  delle  nazioni.  Non  occorre  qui  discutere 
perchè  queste  siano  destinate  a  rimanere  utopie,  ossia 
aspirazioni  ideali  destinate  a  tradursi  nella  realtà  in 
forme  contingenti  ed  imperfette;  e  come  solo  per  il  suc- 
cedersi di  tentativi  imperfetti  si  possa  giungere  ad  una 
realtà   la   quale   si    avvicini    all'ideale    accarezzato    dagli 


—  236  — 

utopisti.  Orbene,  il  più  grandioso  tentativo  di  organiz- 
zazione di  una  vera  società  delle  nazioni  —  oltre  a 
quelli  magnifici  ma  ristretti  della  Svizzera  e  degli  Stati 
Uniti  —  è  l'impero  britannico.  Val  più  un  fatto  che 
mille  aspirazioni  impotenti.  Ed  il  fatto  vero,  storica- 
mente non  emulato,  è  che  non  esiste  nell'impero  bri- 
tannico uno  Stato  dominatore  e  molti  popoli  soggetti, 
ma  esiste  una  vera  società  di  nazioni  diversamente  par- 
tecipanti al  governo  della  cosa  comune  ed  ai  relativi 
oneri,  a  seconda  del  rispettivo  grado  di  civiltà  e  di  ca- 
pacità politica,  ma  tutte  avviate  a  esercitare  una  eguale 
influenza  sulla  cosa  comune. 

Finche  sul  continente  d'Europa  si  persisterà  a  guar- 
dare l'impero  inglese  e  le  sue  colonie  come  se  i  rap- 
porti reciproci  fossero  quelli  medesimi  che  intercede- 
vano fra  l'impero  germanico  e  l'AIsazia-Lorena,  fra 
l'Austria  e  l'Italia  irredenta,  fra  l'impero  russo  e  la 
Polonia,  fra  la  Turchia  e  l'Armenia,  non  sarà  mai  pos- 
sibile giudicare  rettamente  della  contesa  fra  l'Irlanda, 
l'Egitto  e  l'India  da  una  parte,  e  l'Inghilterra  dall'altra. 
Finche  i  primi  vorranno  scindere  le  proprie  sorti  da 
quelle  dell* associata  principale,  l'Inghilterra  dovrà  bru- 
talmente usare  la  forza  delle  armi  e  soffocare  nel  sangue 
le  rivolte  sanguinose,  così  come  fecero  gli  Stati  Uniti 
contro  gli  Stati  sudisti  secessionisti.  Quando  essi  si  de- 
cideranno ad  entrare  come  soci,  a  parità  di  diritti  e  di 
doveri,  nella  grande  comunità  britannica  delle  nazioni, 
l'uso  della  forza  diverrà  superfluo.  Irlanda,  Egitto  e  In- 
dia difendono  una  forma  antiquata  di  consociazione 
politica;  l'Inghilterra  difende  quella  che  è  l'utopia  del- 
l'oggi e  sarà  la  realtà  del  domani.  Se  quelle  di  ugua- 
glianza e  di  libertà  nell'ambito   della  società  britannica 


—  237  — 

fossero  solo  promesse,  avremmo  ragione  di  dubitare 
della  loro  serietà.  Ma  sono  realtà  attuata  per  il  Canada, 
per  l'Africa  del  Sud,  per  l'Australia,  per  la  Nuova  Ze- 
landa, per  Terranova,  Stati  perfettamente  indipen- 
denti, ma  associati  nella  cerchia  dell'impero  per  il  rag- 
giungimento di  fini  comuni.  L'ideale  a  cui  si  deve  ten- 
dere è  una  trasformazione  intima,  spirituale  dei  popoli 
irlandese,  egiziano,  indiano,  per  cui  essi  diventino  ca- 
paci di  governarsi  da  sé,  pure  riconoscendo  l'utilità  dei 
singoli  e  di  tutti  al  conseguimento  di  scopi  comuni  con 
sforzi   ass oci ati . 

Questa,  e  non  l'indipendenza  assoluta,  è  il  massimo 
bene  a  cui  i  popoli  possano  aspirare.  Dall'esempio 
dell'impero  britannico  noi  dovremmo  imparare,  noi 
italiani,  francesi,  spagnoli,  americani  del  Sud,  per  rico- 
stituire, con  ampiezza  maggiore,  l'impero  romano  di  oc- 
cidente, con  civiltà  comune  e  con  ideali  propri,  da  con- 
servare mercè  la  comunità  degli  sforzi.  Se  ciò  non  sa- 
premo fare,  ben  diffìcilmente  potranno  i  nostri  popoli 
conservare  un  potere  politico  proprio  tra  i  colossi,  i 
quali  di  là  dai  mari  si  afforzano.  Saremo  indipendenti; 
ma  saremo  anche  una  quantità  trascurabile  nel  gioco 
delle  forze  spirituali  ed  economiche  che  muovono  il 
mondo. 

(Dalla  Minerva,   16  gennaio   1920). 


COME  SI  GIUNSE 
AL  TRATTATO  DI  VERSAILLES 

(Dal  libro  di  un   economista) 

Vi  è  un  libro  che  sta  mettendo  a  rumore  l'Inghil- 
terra contro  la  giustizia  e  la  sapienza  del  trattato  di 
Versailles.  Quel  libro  non  predica  il  millennio  e  non 
vuole  si  rompa  il  trattato,  che  è  una  garanzia  di  pace 
formale;  ma  vuole  preparare  la  formazione  di  un'opi- 
nione pubblica  mondiale  la  quale  faccia  apparire  a 
tutti  necessario  e  conveniente  rivedere  quelle  condi- 
zioni di  pace  che  oggi  talune  nazioni  difendono  con 
estrema   energia. 

Per  comprendere  lo  spirito  del  trattato  ed  il  perchè 
della  sua  necessaria  revisione,  l'autore  ci  fa  assistere 
alla  sua  genesi. 

La  pace  di  Versailles  fu  in  realtà  l'opera  di  un 
uomo  solo. 

«  Il  signor  Clemenceau  era  di  gran  lunga  il  perso- 
naggio più  eminente  del  Consiglio  dei  quattro.  Egli 
solo  aveva  un'idea  e  l'aveva  meditata  fino  alle  sue  ul- 
time conseguenze.  Non  si  poteva  sentir  disprezzo  od 
antipatia  per  Clemenceau,  ma  solo  avere  un'opinione 
diversa  sulla  natura  dell'uomo  civile  od  almeno  nutrire 
una  speranza  differente  intomo  ad  essa...  Egli  sentiva 
per  la  Francia  quel  che  Pericle  sentiva  per  Atene;  sol- 


—  240  — 

tanto  la  Francia  contava  ai  suoi  occhi,  e  tutto  il  resto 
era  men  che  nulla.  Ma  la  sua  politica  era  quella  di 
Bismarclc.  Per  lui  il  tedesco  non  capisce  e  non  può  com- 
prendere null'altro  fuorché  l'intimidazione;  è  senza 
generosità  e  senza  rimorso  nel  negoziare,  senza  onore, 
orgoglio  o  pietà.  Perciò  non  bisogna  mai  negoziare  con 
un  tedesco  o  cercare  di  conciliarselo;  voi  dovete  im- 
porvi  a  lui.  A  nessun' altra  condizione  egli  vi  rispetterà 
o  voi  impedirete  che  egli  vi  inganni...  Nei  rapporti  in- 
ternazionali non  vi  è  posto  per  «  sentimentalismi  ». 
Soltanto  le  nazioni  sono  cose  reali,  di  cui  voi  amate 
una  e  sentite  per  il  resto  indifferenza  od  odio.  La  gloria 
della  nazione  che  voi  amate  è  uno  scopo  desiderabile; 
ma  generalmente  deve  essere  ottenuta  a  spese  altrui.  La 
politica  della  forza  è  fatale;  e  non  vi  è  davvero  nulla 
di  molto  nuovo  da  imparare  intomo  all'ultima  guerra 
ed  agli  scopi  per  cui  fu  combattuta  :  l'Inghilterra  ha  di- 
strutto, come  in  ogni  secolo  precedente,  un  rivale  com- 
merciale ed  un  grande  capitolo  si  è  chiuso  nella  lotta 
secolare  fra  le  glorie  della  Germania  e  della  Francia. 
La  prudenza  consiglia  di  rendere  omaggio  a  fior  di  lab- 
bra agli  ideali  di  americani  ingenui  e  di  inglesi  ipocriti: 
ma  sarebbe  sciocco  di  credere  che  vi  sia  molto  posto 
nel  mondo,  così  come  è  fatto,  per  imbrogli  simili  alla 
lega  delle  nazioni  o  molta  significazione  nel  principio 
dell* auto-decisione,  salvochè  lo  si  riguardi  come  un'in- 
gegnosa formula  per  accomodare  la  bilancia  della  po- 
tenza nel  proprio   interesse  ». 

Perciò  era  necessario  che  la  forza  della  Germania 
fosse  ridotta  a  quella  che  era  nel  1870  affinchè  la  Fran- 
cia potesse  dirsi  di  nuovo  sua  eguale.  Essendo  la  guerra 
lo  stato  normale  dell'Europa,  era  d'uopo  che  la  Francia 


-  241  — 

si  garantisse,  diminuendo  il  territorio  e  la  potenza  eco- 
nomica della  Germania.  Perciò  la  sola  pace  possibile 
era  una  pace  cartaginese;  ed  il  signor  Clemenceau  non 
si  preoccupava  minimamente  dei  quattordici  punti,  e 
lasciava  ad  altri  di  escogitare  i  trucchi  necessari  per 
salvare  gli   scrupoli   o   la  faccia  del   Presidente. 

Come  accadde  che  Wilson,  il  «  Presidente  »  si  sia 
lasciato  indurre  a  mettere  la  sua  firma  sotto  un  trattato 
di  pace  cartaginese  invece  che  sotto  ad  un  documento 
di  giustizia?  Ad  osservarlo  si  vedeva  subito  che  il 
Presidente  non  aveva  il  temperamento  dello  studioso  e 
neppure  quell'abito  mondano  che  a  segnalano  il  signor 
Clemenceau  e  il  signor  Balfour  come  campioni  squisi- 
tamente fini  della  loro  classe  e  della  loro  generazione  ». 
Quale  probabilità  di  far  trionfare  le  sue  idee  aveva  il 
Presidente,  insensibile  al  mondo  esterno,  contro  la  in- 
fallibile sensibilità,  quasi  medianica,  di  Lloyd  George 
verso  chiunque  gli  stesse  attorno? 

«  Il  primo  ministro  britannico  nel  tempo  stesso  os- 
servava i  colleghi  con  sei  o  sette  sensi  non  esistenti  per 
la  comune  degli  uomini,  giudicava  caratteri,  motivi  ed 
impulsi  subcoscienti,  percepiva  ciò  che  ognuno  pen- 
sava e  persino  ciò  che  ognuno  intendeva  in  seguito  dire 
e  preparava  con  istinto  telepatico  1* argomento  o  l'ap- 
pello più  adatto  alla  vanità,  alla  debolezza,  ed  all'inte- 
resse del  suo  immediato  interlocutore...  Invece  la  mente 
del  Presidente  era  lenta  e  incapace  di  adattamento. 
Egli  non  poteva  in  un  minuto  entrare  nel  vivo  di  ciò 
che  gli  altri  dicevano,  afferrare  in  un  lampo  la  situa- 
zione, formulare  una  replica  e  fronteggiare  un  assalto 
cambiando  opportunamente  di  terreno;  ed  era  perciò 
destinato    ad    essere    battuto    dalla   semplice   prontezza, 


16 


—  242  — 

intuizione  ed  agilità  di  un  Lloyd  George...  Nessun  uocmo 
mai  entrò  in  consiglio  vittima  più  perfetta  e  predesti- 
nata dell'abilità  sopraffina  del  Primo  Ministro  ». 

Ad  essere  vittima  lo  designavano  le  sue  qualità  : 
non  era  uno  studioso,  non  un  filosofo,  non  un  uomo 
daffari,  non  un  politicante  comune.  Che  cosa  era  dun- 
que il  Presidente?  Pare  che  la  caratteristica  non  fosse 
facile  a  scoprire.  Ma  trovatala,  fu  «  illuminante  ».  Il 
Presidente  rassomigliava  ad  un  ministro  nonconfor- 
mista, forse  ad  un  ministro  presbiteriano.  Il  suo  pen- 
siero ed  il  suo  temperamento  erano  essenzialmente 
teologali,  non  intellettuali,  con  tutta  la  forza  e  la  de- 
bolezza di  questa  maniera  di  pensare,  sentire  ed  espri- 
mersi ».  La  similitudine,  che  per  un  inglese  è  «  illumi- 
nante »,  dice  poco  agli  italiani,  che  hanno  in  mente  il 
tipo  del  teologo  italiano  fino,  ragionatore,  abile  dialet- 
tico e  politico  scaltrito.  Forse,  al  tempo  del  Savonarola 
e  dei  suoi  Piagnoni,  abbiamo  avuto  anche  noi  qualche 
tipo  vivo  dell' asceta  che  non  fa  l'eremita,  ma  il  predi- 
catore, che  dall'alto  del  pulpito  sulla  piazza  ordina  ai 
fedeli  in  linguaggio  apocalittico  di  attuare  severamente, 
su  sé  stessi,  senza  scuse  ed  eccezioni,  a  qualunque 
costo,  il  verbo  della  verità  e  della  fede.  Wilson  è  un 
Piagnone  redivivo. 

Il  suo  verbo  è  la  Società  delle  Nazioni,  la  sua  meta 
una  pace  di  giustizia.  Ma  egli  non  andava  al  di  là  delle 
tavole  della  fede. 

«  Si  credeva  comunemente  al  principio  dei  lavori 
della  Conferenza  di  Parigi  che  il  Presidente  avesse 
elaborato,  coir  aiuto  di  un  numeroso  stuolo  di  consi- 
glieri, un  ampio  progetto  per  1* attuazione  della  Lega 
delle  Nazioni,  e  per  la  trasfusione  dei  quattordici  punti 


—  243  — 

in  un  effettivo  trattato  di  pace.  Di  fatto  il  Presidente 
non  aveva  elaborato  nulla;  quando  fu  chiamato  a  for- 
mularle praticamente,  si  vide  che  le  sue  idee  erano  ne- 
bulose ed  incomplete.  Egli  non  aveva  un  piano,  un 
progetto,  un'idea  costruttiva  qualsiasi  per  vestire  delle 
carni  della  vita  i  comandamenti  che  egli  aveva  fra  i 
tuoni  ed  i  lampi  della  Casa  Bianca  comunicato  ai  po- 
poli. Pigli  avrebbe  potuto  predicare  un  sermone  su  uno 
qualunque  dei  punti  o  indirizzare  una  solenne  pre- 
ghiera all'Onnipotente  per  il  loro  adempimento;  ma 
non  era  capace  di  formularne  la  concreta  applicazione 
allo  stato  attuale  dell' Europa...  Non  solo  egli  non  aveva 
proposte  da  fare,  ma  era  sotto  molti  rispetti  male  in- 
formato, forse  inevitabilmente,  intorno  alle  condizioni 
dell'Europa...  Ne  egli  rimediò  a  questi  difetti  ricorrendo 
all'aiuto  della  sapienza  collettiva  dei  suoi  luogotenenti. 
Egli  aveva  bensì  riunito  intomo  a  se,  per  quanto  ri- 
guarda i  capitoli  economici  del  trattato,  un  abilissimo 
gruppo  di  uomini  d'affari.  Ma  essi  erano  privi  di  espe- 
rienza nelle  pubbliche  faccende,  e  fatta  una  o  due  ec- 
cezioni, sapevano  dell'Europa  altrettanto  poco  come  il 
Presidente  e  venivano  chiamati  a  dare  il  loro  parere 
solo  di  quando  in  quando  su  punti  particolari...  Gli  altri 
plenipotenziari  americani  erano  mere  teste  di  legno;  ed 
il  fidato  colonnello  House,  di  gran  lunga  miglior  cono- 
scitore degli  uomini  e  dell* Europa  che  non  il  Presi- 
dente, cadde  nell'ombra  a  mano  a  mano  che  il  tempo 
passava...  Giorno  per  giorno,  settimana  per  settimana, 
il  Presidente  si  chiuse  sempre  più  in  se  stesso,  senza 
aiuto  e  senza  consiglio,  solo,  di  fronte  ad  uomini  molto 
più  astuti  di  lui,  in  situazioni  di  difficoltà  suprema, 
quando  per  ottenere  il  successo  egli  avrebbe  avuto  bi- 


—  244  — 

sogno  di  ogni  specie  di  risorse,  fertilità  di  concezioni 
e  conoscenze...  Arriva  un  momento  in  cui  la  vittoria 
nelle  camere  di  consiglio  è  vostra  se  con  qualche  leg- 
gera apparenza  di  concessioni  voi  potete  salvare  la  fac- 
cia degli  oppositori  ò  conciliarli  riformulando  le  vostre 
proposte  in  maniera  gradita  ad  essi  e  non  dannosa  in 
nulla  di  essenziale  al  vostro  interesse.  Il  Presidente  non 
era  dotato  di  questa  semplice  e  comune  abilità.  La  sua 
mente  era  troppo  lenta  e  troppo  poco  agile  per  potere 
inventare  una  qualsiasi  alternativa.  Il  Presidente  era 
capace  di  puntare  i  piedi  e  di  rifiutare  di  muoversi,  co- 
ma fece  per  Fiume.  Ma  non  aveva  nessun  altro  mezzo 
di  difesa,  e  bastava  di  regola  qualche  piccola  manovra 
dei  suoi  oppositori  per  impedire  alle  cose  di  giungere 
ad  un  punto  da  non  poterlo  più  smuovere.  Con  qualche 
bella  maniera  ed  una  parvenza  di  conciliazione,  era 
facile  trarre  il  Presidente  fuori  del  suo  terreno,  fargli 
perdere  il  momento  di  puntare  i  piedi,  sicché  prima 
che   egli     sapesse     dove  si  trovava,   era  per  lui  troppo 

tardi  per  ribellarsi Nel  momento  della  crisi  suprema, 

egli  aveva  gran  bisogno  della  simpatia,  dell'aiuto  mo- 
rale, dell'entusiasmo  delle  masse.  Ma  a  lui  non  giunse 
nessun'eco  dal  mondo  esteriore,  nessun  palpito  di  pas- 
sione, di  simpatia,  di  incoraggiamento  dei  suoi  silen- 
ziosi elettori  di  tutti  i  paesi  ». 

Intorno  a  lui  la  trama  del  trattato  andò  tessendosi 
sotto  la  ispirazione  degli  inglesi  e  dei  francesi  solo 
preoccupati  di  rivestire  con  le  formole  verbali  dei  quat- 
tordici punti  i  desideri  egoistici  dei  vincitori.  Nel  con- 
siglio dei  quattro  «  Clemenceau  era  intento  unicamente 
a  schiacciare  la  vita  economica  del  suo  nemico,  Lloyd 
George  a  fare  un  bel  colpo  e  portare  a  casa  qualcosa 


—  245  — 

che  per  una  settimana  potesse  sembrare  un  successo, 
il  Presidente  a  non  far  nulla  che  non  fosse  giusto  e  di- 
ritto ».  Lloyd  George  aveva  promesso  ai  suoi  elettori 
di  far  pagare  alla  Germania  le  spese  della  guerra;  e 
voleva  ottenere  quei  tanto  che  gli  bastasse  a  dire  di 
avere  attuato   le  sue  promesse. 

((  I  più  sottili  sofisti  e  di  redattori  più  ipocriti  furono 
messi  al  lavoro  ed  inventarono  molti  ingegnosi  spe- 
di enti  che  non  avrebbero  ingannato  per  più  di  un'ora 
uomini  più  accorti  del  Presidente.  Così,  invece  di  dire 
che  all'Austria  tedesca  è  vietato  di  unirsi  con  la  Ger- 
mania eccettochè  col  permesso  della  Francia,  il  che 
sarebbe  stato  in  contraddizione  col  principio  dell' auto- 
decisione, il  trattato,  con  delicatezza  di  tocco,  stabi- 
lisce che  «  la  Germania  riconosce  e  rispetterà  stretta- 
mente la  indipendenza  dell'Austria,  entro  le  frontiere 
da  fissarsi  nel  trattato  fra  questo  Stato  e  le  principali 
potenze  alleate  ed  associate;  essa  consente  che  questa 
indipendenza  rimanga  inalienabile,  salvo  il  consenso 
(unanime,  in  virtù  di  un  altro  articolo)  del  consiglio 
della  lega  delle  nazioni  )).  Nel  porre  il  sistema  fluviale 
della  Germania  sotto  il  controllo  straniero,  il  trattato 
parla  di  dichiarare  internazionali  «  quei  sistemi  fluviali 
i  quali  provvedono  naturalmente  a  più  di  uno  Stato  un 
accesso  al  mare,  con  o  senza  trasbordo  da  una  nave 
ad  un'altra  ».  Esempi  simili  potrebbero  essere  molti- 
plicati. L'onesto  e  chiaro  scopo  della  politica  francese, 
di  limitare  la  popolazione  della  Germania  e  di  indebo- 
lire il  suo  sistema  economico  è  rivestito,  per  buttar  pol- 
vere negli  occhi  del  Presidente,  con  l'augusto  linguaggio 
della  libertà  e  dell'uguaglianza  internazionale  ». 


246 


Tutti  riuscirono  a  buttar  polvere  negli  occhi  del- 
l'arbitro. Tutti,  salvo  il  quarto  membro  del  consiglio 
supremo,  di  cui  nel  libro  dal  quale  ho  tratto  le  citazioni 
fin  qui  fatte,  pallido  estratto  di  un  vividissimo  quadro, 
non  ho  trovato  ricordo  alcuno  apprezzabile.  L'autore 
parla  sempre  del  «  consiglio  dei  quccttro  »,  ma  dipinge 
le  caratteristiche,  la  mentalità,  gli  scopi,  le  manovre  di 
tre  soli.  Per  lui  esistono  solo  il  signor  Clemenceau,  il 
Presidente  ed  il  Primo  Ministro.  Conosciamo  quale  fosse 
la  pace  cartaginese,  di  distruzione  della  Germania,  vo- 
luta dal  primo;  sappiamo  che  il  Primo  Ministro  inglese 
voleva  riportare  in  patria  la  notizia  di  una  grossa  in- 
dennità e  del  processo  al  Kaiser,  a  cui  non  credeva 
fino  ad  una  settimana  prima  delle  elezioni  del  dicembre 
1918  e  tornò  a  non  credere  subito  dopo.  Sappiamo  quali 
fossero  le  vie  per  cui  il  Presidente  a  poco  a  poco  capi- 
tolò dinnanzi  ai  colleghi,  dopo  essere  stato  convinto, 
da  teologi  sopraffini,  di  essere  rimasto  fedelissimo  ai 
quattordici  punti.  Sappiamo  che  egli  ritornò  in  Ame- 
rica indignatissimo  contro  i  tedeschi,  che  avevano  osato 
rimproverargli  la  sua  mancanza  alla  parola  data  al  mo- 
mento dell'armistizio.  Ma  dell'Italia  e  dei  negoziatori 
italiani  nulla  sappiamo,  salvochè  il  Presidente  aveva 
«  puntato  i  piedi  »  nella  questione  di  Fiume,  mentre 
a  questo  estremo  di  puntare  i  piedi  nessun  altro  l'aveva 
lasciato  venire,  bastando  di  regola  qualche  «  piccola 
manovra  »,  qualche  «  bella  maniera  »  qualche  «  par- 
venza di  conciliazione  »  per  smuoverlo  dal  suo  terreno 
e   costringerlo   con   perfetta   logica    e   con   sua   stupefa- 


247 


zione  (bewildered)  alla  resa.  Sappiamo  che  egli  si  trovò 
solo,  senza  aiuto,  senza  conforto  nella  lotta  per  far 
trionfare  le  idee  della  giustizia;  ed  intuiamo  quale  sa- 
rebbe stata  la  forza  straordinaria  di  quel  negoziatore, 
di  quella  nazione  che  gli  si  fosse  messa  a  fianco  ed 
avesse  dato  contenuto  reale  ai  principii  astratti  wilso- 
niani,  ed  avesse  fornito  al  Presidente  quel  sussidio  di 
abilità  duttile  e  di  adattamento  resistente,  di  cui  egli 
totalmente  mancava.  Sappiamo  solo  che  la  nomea  di 
((  arbitro  »  assoluto  e  dispotico  delle  cose  europee,  di 
cui  il  Presidente  fu  circondato  in  Italia  e  che  fu  accre- 
ditata anche  ufficialmente  dai  nostri  negoziatori  era 
una  leggenda.  Arbitro  fu  solo  per  coloro  che  non  arri- 
varono in  tempo  ad  impedirgli  di  puntare  i  piedi,  «  co- 
me egli  fece  per  la  questione  di  Fiume  »,  unico  esempio 
citato  di  questo  terribile  puntamento  di  piedi.  Ma  sap- 
piamo che  per  tutti  gli  altri  il  a  povero  »  Presidente 
era  predestinato  all'ufficio  dell'uomo  bendato  nel  giuoco 
a  mosca  cieca  (the  poor  President  would  be  playing 
blind  man's  bufT  in  that  party). 


Chi  scrive  queste  cose  non  è  un  tedesco  meditante 
sulle  sorti  della  sua  patria,  non  è  un  italiano  il  quale 
voglia  attribuire  alla  imperizia  dei  suoi  negoziatori  od 
alla  testardaggine  di  Wilson  le  difficoltà  di  Fiume;  non 
è  un  socialista  il  quale  condanni  il  trattato  di  Versail- 
les come  il  frutto  di  egoismi  imperialistici  e  capitalistici. 
£,  un  inglese,  il  quale  è  persuaso  che  il  trattato  è  di 
impossibile  applicazione,  il  quale  avrebbe  voluto  tra- 
durre in  formule  concrete   i  principi  di  Wilson,   e  non 


—  248  — 

esita  perciò  a  parlare  con  vergogna  ed  a  condannare 
implacabilmente  i  partiti  e  gli  uomini  inglesi  piegatisi 
alla  campagna  popolaristica  e  giornalistica  a  favore 
delle  indennità  e  del  processo  al  Kaiser.  È.  un  inglese  il 
quale  vuole  che  il  suo  paese  non  solo  rinunci  alla  in- 
dennità tedesca  ma  anche  al  rimborso  dei  debiti  con- 
tratti dagli  alleati  verso  il  tesoro  britànnico. 

John  Maynard  Keynes  era  noto  dà  anni,  fin  da  pri- 
ma della  guerra,  agli  studiosi  di  economia.  Figlio  di 
un  altro  noto  economista,  John  Neville  Keynès,  vinse 
giovanissimo  il  concorso  più  arduo  dell' amministrazione 
britannica,  quello  dell'India  Office,  ilustrato  già  dai  due 
Mill,  vi  rimase  per  due  anni  e  ne  uscì  nel  1909  quando 
fu  nominato  fellow  del  King's  College  a  Cambridge. 
Nel  1912,  sebbene  pochissimo  avesse  scritto,  fu  chia- 
mato alla  direzione  dell'Economie  Journal,  organo  della 
Royal  Economie  Society  e  senza  dubbio  la  prima  tra 
le  riviste  che  nel  mondo  sono  dedicate  alla  scienza  eco- 
nomica. A  lui  gli  economisti  devono  giorni  di  insupe- 
rato compiacimento  intellettuale,  quando  nel  1913  po- 
terono leggere  il  suo  libro  su  la  circolazione  e  la  finanza 
nell'India  (Indian  Currency  and  Finance),  libro  classico, 
che  sta  a  paro  con  quei  saggi  di  Ricardo,  di  Tooke, 
di  Fullarton,  di  Lord  Overstone,  che  contrassegnarono 
l'età  dell'oro  della  scienza  economica.  Nel  1914  e  nel 
1915  la  firma  del  Keynes  apparve  sotto  alcuni  saggi 
descrittivi  delle  giornate  d'agosto  e  sui  primi  mesi  di 
scompiglio  bancario  a  Londra,  che  sono  quanto  di  più 
bello  sia  mai  stato  scritto  sui  problemi  monetari  durante 
la  guerra. 

Dopo  d'allora  il  silenzio  s'era  fatto  intorno  a  lui  nella 
famiglia    internazionale    degli    studiosi.    Il    governo    in- 


249 


glese  aveva  veduto  in  lui  una  delle  teste  più  fini  del 
paese  e  l'aveva  voluto  suo  consigliere  presso  la  teso- 
reria britannica.  Alla  Conferenza  di  Parigi  il  Ke3'nes 
rappresentò  ufficialmente  il  tesoro  inglese  sino  al  7 
giugno  1919  e  sedette  come  sostituto  del  cancelliere 
dello  Scacchiere  nel  consiglio  supremo  economico.  Era 
noto,  inoltre,  negli  ambienti  della  Conferenza,  che  il 
Keynes  era  il  vero  inspiratore  dei  governo  nelle  cose 
finanziarie  e  che  dagli  alleati  nulla  potè  vasi  ottenere  dal 
tesoro  britannico  contro  il  suo  consiglio. 

Dopo  cinque  anni,  egli  rompe  il  silenzio  con  il  libro 
The  economie  consequences  of  the  peace,  (Macmillan, 
London),  di  uno  dei  cui  capitoli  ho  dato  sopra  un  pal- 
lido riassunto.  Il  Keynes  si  ritirò  dagli  uffici  coperti  a 
Parigi  e  presso  il  tesoro  inglese  quando  si  convinse  di 
non  potere  più  nutrire  alcuna  speranza  di  modificazioni 
sostanziali  alle  condizioni  di  pace.  La  sua  critica  al 
trattato  è  fondata  esclusivamente  su  motivi  di  carattere 
pubblico  e  su  fatti  noti  al  mondo  intiero.  Così  egli  di- 
chiara nella  prefazione.  Ma  la  sua  conoscenza  intima 
dell'ambiente  in  cui  il  trattato  sorse  e  delle  persone 
che  lo  compilarono,  la  maestria,  con  cui  ne  espone  le 
linee  essenziali  e  le  conseguenze  necessarie,  la  parsi- 
monia nei  particolari  e  nelle  cifre,  e  l'abilità  con  cui  le 
poche  cifre  citate  sono  fatte  parlare  fanno  sì  che  si  co- 
mincia a  leggere  il  libro  con  interesse,  lo  si  prosegue 
con  ansia  crescente  e  lo  si  chiude  convinti  che  il  la- 
voro per  la  pace  e  per  la  ricostruzione  dell'Europa  co- 
mincia appena  oggi.  Verranno  dopo  i  politicanti  dei 
partiti  comunisti,  a  saccheggiare,  senza  entrare  nello 
spirito  del  libro,  cifre  e  ragionamenti  del  Keynes,  così 
come  fecero  tutti  i  loro  più  famosi  campioni,  a  cornili- 


—  250  — 

dare  dal  Marx,  modesto  plagiario  e  rabido  denigratore 
dei  Ricardo,  dei  Senior  e  dei  Malthus.  Verranno  essi 
a  dire  che  la  pace  di  Versailles  è  una  cattiva  pace  per- 
chè voluta  da  un  capitalismo  per  schiacciare  altri  ca- 
pitalismi. Sta,  contro  le  loro  declamazioni,  il  fatto  che 
il  libro,  da  cui  comincia  la  vera  discussione,  la  discus- 
sione feconda  e  rinnovatrice  della  pace  europea  è  stato 
scritto  da  un  economista;  e  sta  il  fatto  che  egli  condan- 
na la  pace  di  Parigi  come  un  tentativo  vano,  assurdo  e 
pericoloso  di  ricostruire  un'economia  morta  cinquanta 
anni  fa,  un  tentativo  contro  cui  protestano  tutte  le  forze 
vive,  del  capitale  e  del  lavoro,  tutte  le  idee  creatrici  del 
mondo  moderno. 

(Dal  Corriere  della  Sera,  del   15  febbraio   1920). 


IH. 
LA  GUERRA  ITALIANA 


L'EDUCAZIONE  POLITICA 
DEL   CONTE   DI    CAVOUR 

Francesco  Ruffini  ha  scritto  un  libro,  che  egli  ama 
chiamare  d'occasione,  intitolato  La  Giovinezza  del  Con- 
te di  Cavour.  (Francesco  Ruffini,  prof,  nella  R. 
Università  di  Torino,  La  Giovinezza  del  Conte  di  Ca- 
vour. Saggi  storici,  secondo  lettere  e  documenti  inediti. 
Due  volumi  di  pag.  XLVIII-376  e  422,  con  ritratto  del 
Conte  di  Cavour  nella  giovinezza.  Torino,  Fratelli  Boc- 
ca, 1912).  Affrettiamoci  a  dire  che  ben  di  rado  una 
raccolta  di  saggi  e  di  documenti  inediti  è  riuscita 
viva,  mossa,  affascinante  come  questa  e  che  molti 
saranno  gli  italiani  i  quali  vorranno,  riponendo  i  due 
volumi,  ringraziare  la  fortuna  che  ha  dato  occasione  ad 
un  giurista  di  trasformarsi  in  biografo  della  più  compiu- 
ta e  ricca  figura  politica  del  Risorgimento. 

Francesco  Ruffini  ha  l'aria  di  scusarsi  di  aver  messo 
mano,  lui  giurista  e  storico  del  diritto  ecclesiastico  e 
dell'idea  della  libertà  religiosa,  ad  un'opera  che  sareb- 
be spettata,  per  ragion  di  competenza,  agli  storici  di 
mestiere  ed  ai  raffinati  nella  critica  degli  accadimenti  po- 
litici. E  quasi  vuole  attribuire  alla  fortuna  soltanto  il 
merito  di  avergli  fatto  scoprire  carteggi  importantissimi, 
rivelatori,  intorno  alla  giovinezza  del  Conte.  Dicasi  an- 
cora subito  che  la  fortuna  assiste  coloro  che  se  la  sanno 
procacciare.    Francesco    Ruffini    ha   scoperto   molte   let- 


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fcere  preziose  di  Camillo  Cavour  ai  parenti  e  dei  parenti 
a  lui,  perseguendo  un  filone  logico.  La  fortuna,  cke  ha 
aiutato  lui,  forse  non  avrebbe  aiutato  un  altro  il  quale 
non  avesse  posseduto  la  chiave  logica  per  aprir©  il  for- 
ziere racchiudente  l'ignorato  tesoro. 

La  chiave  logica  fu  l'idea  della  libertà  religiosa,  cR 
cui.Rufnni  è  universalmente  riconosciuto  il  più  insigne 
storico  vivente  (FRANCESCO  RuFFINI,  La  libertà  religiosa. 
Voi.  I:  Storia  dell* idea.  Torino,  Fratelli  Bocca,  1901, 
della  quale  opera  sta  per  uscire  la  traduzione  inglese), 
fu  la  curiosità  scientifica  prepotente  d'indagare  come  si 
fosse  formata  nella  mente  del  Cavour  la  celebre  for- 
mula :  «  Libera  Chiesa  in  libero  Stato  ».  Gli  sparsi  ac- 
cenni che  si  leggono  nel  diario  del  Conte  lo  portarono 
a  Ginevra,  città  religiosa,  anzi  città  di  lotte  religiose 
ferventi,  iraconde,  dove  i  principii  della  libertà  reli- 
giosa da  un  lato  e  dello  Stato  credente,  rigidamente  con- 
fessionalista,  dall'altro,  si  tramandavano,  custoditi  con 
gelosia  e  purezza,  nelle  famiglie  discendenti  dagli  ita- 
liani rifugiati  in  Svizzera  all'epoca  della  contro-riforma 
e  nelle  famiglie  calviniste  pure.  Lo  storico  dell'idea  del- 
la libertà  religiosa,  perseguendo  lo  studio  delle  origini 
della  formula  cavouriana  s'incontrò  così  con  le  fami- 
glie ginevrine  strettamente  imparentate  col  Conte  di 
Cavour  :  nei  De  Sellon,  nei  De  la  Rive.  Fu  allora  che 
quella  che  egli  chiama  fortuna  e  che  è  invece  intuito 
geniale  di  scienziato  lo  assistè  :  principalmente  metten- 
do a  sua  disposizione  un  grosso  manipolo  di  lettere  pos- 
sedute dal  barone  Leopoldo  Maurice,  discendente,  per 
via  di  donna,  dalla  famiglia  De  Sellon.  Da  questa  pri- 
ma nacquero  altre  fortune,  che  gli  fecero  rinvenire  nel- 
l'archivio   famigliare    di    Santena,    nelle    carte    di    Stato 


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di  Vienna  documenti  importantissimi,  coi  quali  e  colle 
lettere  egli  compose  due  volumi.  I  quali  sono  epistola- 
rio e  biografia  insieme;  documento  storico  riprodotto 
con  cura  scrupolosa  e  narrazione  biografica,  commento 
delle  idee  cavouriane,  ricostruzione  dell'ambiente  fa- 
migliare e  storico,  illustrazione  degli  avvenimenti  e  dei 
movimenti  politici  e  spirituali,  in  mezzo  a  cui  visse  Ca- 
millo Cavour  negli  anni  che  volsero  dal  1826  al  1844, 
dai  16  ai  34  anni  di  sua  età.  È  il  Conte  stesso  che  ci 
parla,  colla  sua  parola  fresca  e  vibrante,  col  suo  stile 
nervoso,  per  nulla  simigliante  allo  stile  letterario,  ac- 
cademico, compassato  degli  epistolari  anche  più  cele- 
bri degli  italiani  suoi  contemporanei,  e  ci  narra  i  suoi 
affetti,  le  sue  passioni,  gli  avvenimenti  a  cui  ha  assi- 
stito da  spettatore  entusiasta,  voglioso  di  mescolarsi 
colla  gente,  di  discutere  e  di  abbaruffarsi  con  gli  altri 
uomini. 

Sono  gli  anni  della  preparazione,  in  cui  egli  ha  tem- 
prato la  sua  natura  di  uomo  politico  combattente,  di 
studioso  dei  problemi  sociali,  di  finanziere  rotto  alle  im- 
prese agricole  ed  industriali,  tetragono  alle  disillusioni 
speculative.  Sono  gli  anni  in  cui  si  formava,  con  pa- 
zienza meravigliosa  negli  studi,  nei  viaggi  e  nelle  espe- 
rienze pratiche,  quell'uomo  che  doveva  far  stupire,  per 
la  rapidità  della  carriera,  i  contemporanei  e  far  senten- 
ziare gravemente  e  leggermente  allo  Sclopis  che  egli 
era  divenuto  ministro  «  senza  aver  preso  cognizione  pra- 
tica degli  uomini  e  delle  cose  ». 

Il  libro  del  Ruffini  dimostra  stupendamente  come  i 
contemporanei  a  torto  si  stupissero  e  si  scandalizzas- 
sero per  la  subita  apparizione  del  grande  uomo  di  Sta- 
to :   Camillo  di  Cavour  era  un  genio  politico  a  20  anni 


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come  a  40,  ed  avrebbe  potuto  governare  il  suo  paese 
nel  1830  così  come  lo  governò  dopo  il  1850.  Ma  gli 
anni  della  giovinezza  non  furono  da  lui  spesi  indarno. 
Certamente  egli  non  li  spese  soltanto  vegliando  sui  libri. 
Egli  amò  con  ardore  parecchie  donne,  dall'animosa  ed 
appassionata  e  colta  incognita  genovese,  identificata  ora 
dal  Rufnni  nella  marchesa  Anna  Giustiniani,  nata  Schiaf- 
fino, alla  misteriosa  gentildonna  francese,  la  quale  ama- 
va chiamare  il  giovane  dai  brillanti  occhi  cerulei,  dai 
biondi  capelli,  dal  riso  squillante,  fresco  ed  appassiona- 
to e  lusingatore  nel  volto,  così  come  ce  lo  raffigura  il 
ritratto  onde  è  adorno  il  volume  del  Ruffìni  e  così  di- 
verso nell'aspetto  da  quello  che   ci   apparve   dappoi  : 

«  Uitalien    au    teint   rose    et    au    sourire    d'enfant  ». 

Ma  le  donne  e  il  gioco  e  le  cure  mondane  non  gli 
fecero  mai  perdere  di  vista  l'ideale  mèta  che  egli,  pur 
negli  anni  più  foschi,  pur  nell'esilio  dalla  vita  pubblica 
al  quale  l'animosità  del  Principe  e  la  saldezza  nei  prin- 
cipii  liberali  l'aveano  condannato,  voleva  raggiungere. 
Uomo  di  Stato  in  un  governo  rappresentativo  egli  vo- 
leva essere  fin  dagli  anni  più  giovanili;  primo  ministro 
responsabile  davanti  al  Parlamento.  Deriso  dagli  invi- 
diosi, amorevolmente  ammonito  dai  suoi,  parve  allora 
superbo;  mentre  la  sua  era  superbia  radicata  nell'ani- 
mo di  chi  sentiva  di  possedere  le  qualità  innate  che 
fanno  l'uomo  politico  e  sapeva  d'averle  fortificate  e 
raffinate  con  una  educazione  politica,  quale  nessun  uo- 
mo in  Piemonte  e  pochissimi  in  Europa  avevano  sa- 
puto procacciarsi. 

Se  l'era  procacciata  viaggiando  in  Francia  ed  in  In- 
ghilterra, facendo  lunghe  dimore  in  Svizzera  presso  suoi 


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parenti,  attendendo  in  patria  alle  cure  agricole  dei  gros- 
si possessi  terrieri  della  sua  famiglia.  Se  io  volessi  rias- 
sumere in  una  parola  l'impressione  più  forte  avuta  leg- 
gendo questi  due  volumi,  direi  che  da  essi  balza  fuori, 
circondata  di  luce  vivissima,  una  figura  nuova  di  Ca- 
millo di  Cavour  :  il  cadetto.  Discendente  di  una  antica 
e  grande  famiglia  piemontese,  imparentato  con  la  fa- 
miglia savoiarda  dei  Des  Salles,  che  aveva  dato  alla 
Chiesa  S.  Francesco,  con  le  famiglie  ginevrine  dei  conti 
de  Sellon,  protestanti  cacciati  di  Francia  dall'editto  di 
Nantes,  dei  De  La  Rive  e  coi  Maurice,  che  avevano 
tradizioni  universitarie  nella  calvinista  accademia  di  Gi- 
nevra, nipote  di  un  duca  francese,  che  portava  il  gran 
nome  dei  Clermont  Tonnèrre,  abituato  a  vivere  in  ville 
settecentesche  come  a  Santena,  in  castelli  feudali,  co- 
me a  Grinzane,  o  in  latifondi  che  come  Leri  portavano 
intatta  fin  dentro  il  secolo  decimonono  l'impronta  me- 
dievale della  corte  feudale,  della  massa  conventuale, 
Camillo  di  Cavour  era  tutt' altro  che  un  deraciné.  Anzi 
egli  si  sentiva  profondamente  radicato  alla  terra  che 
l'aveva  visto  nascere,  tanto  che,  mentre  lo  sconforto  lo 
assaliva  e  gli  veniva  alle  labbra  l'amaro  rimpianto  di 
non  essere  nato  inglese,  subito  soggiungeva  :  «  mais  je 
suis  piémontais...  Malheur  à  celui  qui  abandonne  avec 
mépris  la  terre  qui  l'a  vu  naitre,  qui  renie  ses  frères 
comme  indignes  de  lui!  Quant  à  moi,  j'y  suis  décide, 
jamais  je  ne  separerai  mon  sort  de  celui  des  Piémontais. 
Heureuse  ou  malheureuse,  ma  patrie  aura  tonte  ma  vie, 
je  ne  lui  serai  jamais  infidèle;  quand  mème  je  serais 
sur  de  trouver  ailleurs  de  brillants  destinées  ». 

Pur  essendo    profondamente    radicato    al   suolo,    alla 
famiglia  e  all'aristocrazia  militare  e  governante,  di  cui  fa- 


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ceva  parte  per  ragion  di  nascita,  egli  era  un  cadetto.  In 
Piemonte  i  cadetti  di  famiglie  nobili  si  facevano  soldati 
o  preti.  Egli  non  volle  essere  ne  l'una  cosa  ne  1* altra. 
L'amore  del  paese,  la  coscienza  dei  servizi  che  era  chia- 
mato a  rendere  alla  patria,  la  piccolezza  dello  Stato  pie- 
montese, privo  di  possessi  coloniali,  gli  impedirono  di 
andare  a  cercar  fortuna,  come  talvolta  facevano  e  fanno 
i  cadetti  inglesi,  nelle  colonie  d'oltremare.  Volle  però, 
come  i  cadetti  d'Inghilterra,  conquistare  l'indipendenza 
economica.  «  Je  suis  cadet  »  scrive  al  congiunto  pro- 
fessore De  La  Rive,  «  ce  qui  veut  dire  beaucoup  dans 
un  pays  aristocratiquement  constitué;  il  faut  que  je  me 
crée  un  sort  à  la  sueur  de  mon  front.  Il  vous  fait  bon 
à  vous  autre  richards,  qui  avez  des  millions  à  foison, 
de  vous  occuper  de  sciences  et  de  théories;  nous  autres 
pauvres  diables  de  cadets,  il  nous  faut  suer  sang  et  eau 
avant  d'avoir  acquis  un  peu  d'indépendance  ».  L'indi- 
pendenza! ecco  il  sogno  del  Conte  degli  anni  di  sua 
giovinezza.  Egli  la  sognava,  non  per  mania  di  lucro; 
ma  perchè  l'indipendenza  economica  gli  doveva  pa- 
rere come  la  condizione  necessaria  per  dedicarsi  intie- 
ramente alla  cosa  pubblica;  ma  perchè  riteneva  che  la 
classe  politica  non  potesse  realmente  riuscire  utile  alla 
patria,  ove  non  fosse  composta  di  persone  indipen- 
denti nel  giudizio,  non  costrette  ad  adulare  il  popolo 
per  accattarne  stipendi  e  favori. 

È  una  concezione  aristocratica  della  vita  politica; 
e  suppone,  naturalmente,  che  la  classe  politica  non  sia 
composta  di  ricchi  aspiranti  a  crescere  la  propria  ric- 
chezza impadronendosi  del  meccanismo  governativo. 
L'indipendenza  cui  anelava  Cavour  era  quella  di  una 
aristocrazia  che  vive  dei  redditi  aviti  od  accumulati  nel- 


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l'età  giovane,  che  non  cerca  di  accrescerli  colla  propria 
influenza  politica,  e  se  ne  giova  per  il  bene  pubblico. 
Al  cugino  De  La  Rive,  che  egli  riteneva  «  un  des  cer- 
veaux  les  mieux  organisés  de  l'Europe  »,  Camillo  di 
Cavour  scriveva  incitandolo  a  diventare  il  conduttore 
supremo  della  politica  ginevrina  e  così  diceva  i  motivi 
dei  suoi  incitamenti  :  «  Plus  que  tout  autre  à  Genève 
vous  ètes  par  votre  position  indép  end  ante  et  par  les 
titres  nombreux  que  vous  avez  acquis  à  l'estime  et  à 
la  reconnaissance  de  vos  concitoyens,  en  mesure  de 
combattre  avec  avantage  cette  minorité  factieuse  qui 
n'a  pour  elle  que  de  l'impudence  et  de  l'audace;  qui 
n'est  forte  que  de  la  timidité  et  de  la  couardise  de  ses 
adversaires.  Vos  paroles  ont  un  grand  poids  dans  le 
Conseil  et  dans  le  public,  et  pour  peu  que  vous  vouliez 
vouz  en  donner  la  peine,  vous  deviendrez  le  leader  du 
parti  sage  et  raisonnable,  qui  veut  le  bien  possible  et 
toutes  les  réformes  salutaires  ».  Scritte  a  25  anni, 
queste  parole  dipingono  quale  fosse  il  concetto  che  del 
leader  politico  si  faceva  il  Conte  di  Cavour  :  indipen- 
dente di  censo,  capo  di  notabili  e  notabile  egli  stesso 
per  intelligenza,  studi  e,  se  possibile,  per  tradizioni  fa- 
migliari, il  leader  doveva  mettersi  a  capo  di  tutte  le 
riforme  ragionevoli,   ossia  realmente  utili  al  popolo. 

Egli  è  assai  scarso  estimatore  della  piccola  bor- 
ghesia come  forza  politica.  Parlando  della  rivoluzione 
che  nel  1841,  per  l'impulso  della  associazione  del  tre 
marzo,  abolì  a  Ginevra  la  costituzione  aristocratica  del 
1844,  accenna,  al  «  petit  noyau  d'hommes  à  ambition 
décue1,  et  à  amour  propre  blessé  »  che  insieme  a  «  tout 
ce  que  le  cantori  contient  de  mécontents  et  de  mau- 
vaises  tètes  »   formava  il  nocciolo   del  partito  vincitore; 


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ma   dimostrava   che    la   rivoluzione    non    avrebbe    potuto 
riuscire    pel    malcontento    dei    politicanti,      irritati    dalla 
lunga   aspettazione,   se  non   si   fossero   aggiunti   altri   fat- 
tori   d'indole     sociale  :       «  Le     gouvernement,    qui   vient 
d'étre    renversé,    quoique    démocratique    de    droit,    était 
olygarchique   de   fait,    puisque   le   pouvoir   se   perpétuait 
entre    les   mains    d'une    certaine    caste,    ou   pour   mieux 
dire  dune  certaine  société.  Le  résultat  de  l'ancien  ordre 
de   choses  irritait  tout  ce   qui    appartenait  aux   couches 
sociales   inférieures.     C'est     ìancienne   querelle   du   bas 
contre   le  haut,   de  la  petite   bourgeoisie   contre   l'aristo- 
cratie.  Le  trois  mars  devenant  puissant  attira  à  lui  toute 
cette  masse  bourgeoise,   à  esprit  étroit,   à  passions  me- 
squines,    qui   jalouse   la   classe    supérieure,    tout   en    dé- 
ployant  vis-à-vis  de  l'inférieure  cent  fois  plus  d*exclusi- 
visme,   que  raristocrarie   à  son   égard.    Il  parait  que   la 
masse    des   boutique»   se    rallia   plus    ou     moins     ouver- 
tement   au   trois   mars,    moìns   pour  obtenir   un   chang©- 
ment  politique  quei  pour  taquiner  les  dames  et  les  élé- 
gants    du   haut  ».    Qui    c'è    tutto    il    concetto    mediocre 
che    il    discendente   di    grande    famiglia    si    faceva   della 
piccola  borghesia  bottegaia  e  avvocatesca,   insieme  alla 
consapevolezza    dei    doveri    —    troppo    spesso    dimenti- 
cati —  dei  leaders  verso  il  popolo.   Egli,   che  riconosce 
e    proclama    la    decadenza    irrimediabile    delle    vecchie 
aristocrazie,  condannate  dai  loro  errori  ad  «  hàter  elles- 
mèmes  l'oeuvre  de  destruction  »  della  loro   classe,   non 
è  avaro  di  sarcasmi  verso  la  nuova  classe  politica  fatta 
di  avvocati,  professionisti,  energumeni  da  comizio  :  «  Je 
commence    par   y    compter    (nell* assemblea     costituente 
ginevrina  del  1842)  une  trentaine  de  trois  marfc  (membri 
dell' associazione   la    quale    aveva    rovesciato    il   vecchio 


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governo  aristocratico),  parmi  lesquels  il  y  a  dix  énergu- 
mènes,  et  vingt  niais  qui  de  tems  en  tems  s'arrètent  et 
regardent  avec  effroi  le  but  où  leurs  collègues  veulent 
les  entrainer.  Viennent  ensuite  vingt  ou  trente  trem- 
bleurs,  conservateurs  au  fond  du  coeur,  radicaux  par 
peur,  n'ayant  ni  couleur  ni  opinion  tranchée,  princi- 
pale cause  de  la  difnculté  du  moment.  Enfin  il  faut 
ranger  les  conservateurs,  à  la  tète  desquels  se  place  le 
banc  des  professeurs.  C'est  la  partie  le  plus  distinguée 
de  l'assemblée.  Elle  compte  dans  ses  rangs  les  hommes 
les  plus  éminents  de  la  répubblique,  qui  étaient  pro- 
gressifs  lorsque  les  retardataires  dominaient,  et  qui  sont 
maintenant  conservateurs  que  l'ordre  est  menacé.  Les 
catholiques  complètent  l' assemblée  ».  Egli,  a  cui  nes- 
suna audacia  politica  sarà  ignota,  non  sarà  del  partito 
degli  energumeni,  ne  dei  radicali  ciechi,  incoscienti,  ne 
dei  conservatori  trembleurs,  contro  di  cui  egli  parecchie 
volte  si  eleva  con  accento  che  sa  la  collera.  Ben  diverso 
da  queste  pallide  figure,  che  ci  rivivono  dinnanzi  agli 
occhi  nelle  parole  scultorie  di  Camillo  di  Cavour,  egli 
voleva  essere  il  tipo  del  leader  naturale! 

Non  potendo,  in  regime  di  monarchia  assoluta,  de- 
dicarsi alla  carriera  politica,  vi  si  apparecchia  cercando 
innanzitutto  l'indipendenza  economica.  Si  fa  guidatore 
di  contadini,  allevatore  di  porci  a  Leri;  3Ì  occupa  di 
foresti  cultura  perchè  la  zia  de  Tonnèrre  gli  affida  la  cul- 
tura delle  sue  selve;  va  in  Stiria  e  nel  Friuli  a  comprare 
cavalli  ed  arieti  da  spedire  in  Egitto,  s'interessa  in  una 
compagnia  savoiarda  di  navigazione  fluviale,  compra  a 
credito  una  ragguardevole  tenuta  in  risaia,  guadagna 
una  prima  volta  20.000  lire  e  ne  perde  altrettante  una 
seconda  volta   a  Parigi  speculando   in  Borsa.   Questo   è 


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uno  degli  episodi  culminanti  messi  in  luce,  con  docu- 
menti nuovissimi,  dal  Ruffini.  Ingannato  da  una  falsa 
notizia  di  guerra,  la  quale  avrebbe  dovuto  far  precipi- 
tare la  rendita  francese,  ne  vende  una  grossa  partita, 
sperando  di  guadagnare  200.000  lire.  Invece  la  pace 
si  rafferma  e  la  rendita  aumenta,  sicché  egli  teme  di 
dover  liquidare  l'operazione,  ricoprendosi  con  una  per- 
dita di  45.000  lire.  Era  una  perdita  enorme  per  lui, 
privo  a  a  quel  tempo  (1840,  a  30  anni)  di  beni  di  for- 
tuna, perdita  che  ingoiava  quel  piccolo  margine  attivo 
tra  il  valore  della  tenuta  di  risaia  acquistata  quattro 
anni  prima  a  credito  e  l'ammontare  dei  debiti  contratti 
per  l'acquisto.  Altri  si  sarebbe  disperato  ed  avrebbe 
incolpato  la  fortuna  avversa,  le  manovre  degli  aggio- 
tatori. Egli  si  apre  invece  col  padre  e  gli  afferma  «  que 
la  lecon  que  je  viens  de  recevoir  me  "  rendra  meilleur 
sous  tous  les  rapports.  Peut-ètre  un  jour  la  considérerai- 
je  comme  un  événement  heureux  ».  Quando  sa  che  la 
perdita  è  di  sole  20.000  lire  invece  delle  45.000  temute 
ne  è  ben  lieto;  ma  conclude  che,  sebbene  il  colpo  sia 
meno  grave,  non  sarà  meno  profittevole  :  «  L'effet 
moral  n'en  sera  pas  moindre,  je  vous  le  promets;  j'aurais 
payé  moins  cher  la  lecon,  mais  elle  ne  m'en  profitera 
pas  moins  le  reste  de  ma  vie.  Si  j'avais  réussi,  ...j'aurais 
maintenant  plus  de  200.000  francs  à  moi;  au  lieu  de 
cela  j'en  perds  20.000;  mais  j'ai  gagné  de  respérience, 
et  pris  des  résolutions,  qui  valent  1.000.000  ».  Uomini 
di  questa  tempra  hanno  in  pugno  la  vittoria.  Se  a  treni- 
t'anni  il  Conte  di  Cavour  si  credeva,  come  amorevol- 
mente gli  ricordava,  con  consigli  di  prudenza,  il  padre, 
ben  conscio  però  della  grandezza  del  figlio,  «  le  seul 
jeune    homme    fait    poutr    devenir    Mir^istre    d*emiblée, 


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pour  ètre  banquier,  industriel,  spéculateur  »,  gli  atti 
suoi,  la  sua  costanza,  la  sua  indomita  energia  nelle  av- 
versità dimostrano  che  egli  era  di  quelli  che  possono 
diventare,  a  lor  posta,  grandi  agricoltori,  grandi  indu- 
striali  o   banchieri,   ovvero   conduttori  di   uomini. 

La  storia  di  Camillo  Cavour  finanziere,  iniziatore  di 
un'epoca  nuova  nella  vita  economica)  del  suo  paese, 
dopo  il  1848,  è  ancora  da  scrivere.  Chi  la  farà,  dovrà 
studiare  nei  libro  del  Ruffini  i  primi  passi  che  il  Conte 
mosse  nteir applicazione  delle  dottrine  da  lui  imparate 
nei  libri  classici,  nelle  conversazioni  e  nel  commercio 
epistolare  col  Senior,  nella  riflessione  sui  fatti  econo- 
mici che  intorno  a  lui  si  svolgevano.  È  del  2  novembre 
1840  una  lettera  al  padre  che  è  uni  vero  capolavoro  di 
analisi  elegante  di  quell'elegantissimo  problema  di  eco- 
nomia che  è  il  monopolio  della  domanda  da  parte  di 
un  unico  possibile  consumatore.  Volendo  cercare  il 
prezzo  che  suo  padre  poteva  pagare  per  certe  acque 
sopravanzanti  al  vicino  dopo  la  irrigazione  della  sua 
risaia,  comincia  a  stabilire,  eliminando  ad  uno  ad  uno 
tutti  i  possibili  concorrenti  nella  domanda  dei  coli,  che 
il  fondo  del  padre  era  l'unico  adatto  a  consumare 
questi;  e  «  cette  vérité  bien  établie  »  ne  deduce  che, 
avvantaggiandosi  il  lor  fondo  di  un  maggior  valor  ca- 
pitale di  60.000  lire,  ben  potevasi  offrire  un  canone  di 
1000  lire,  nella  sicurezza  che  il  fondo  dominante  non 
avrebbe  saputo  ricusare.  Non  per  nulla  s*era  approfon- 
dito, mentr'era  ufficiale  del  genio,  nelle  matematiche 
e  nel  calcolo;  e  di  qui  era  passato  allo  studio  delle 
scienze  sociali.  Benché  a  16  anni  dichiarasse  al  Plana 
che  '(  non  era  più  tempo  di  matematiche  ma  bisognava 
occuparsi  di   economia  politica  »   per  prepararsi   degna- 


-  264  — 

mente  alla  carica  di  primo  ministro  a  cui  fin  d'allora 
aspirava,  la  forma  sua  mentale  era  rimasta  diritta,  lo- 
gica, divinatrice.  I  problemi  più  complessi  sono  da  lui 
scomposti  nei  loro  elementi  primi,  sì  da  renderli  cri- 
stallini e  trasparenti.  Per  ora  il  suo  è  un  lavorìo  men- 
tale, che  si  rivela  nelle  lettere  famigliari,  che  forse  ancor 
meglio  si  rivelerà  negli  abbozzi  di  un  trattato  di  eco- 
nomia politica  che  io  spero  il  Ruffini,  col  tempo,  vorrà 
pubblicare.  Dopo,  assurgendo  dagli  studi  dottrinali  e 
dalle  applicazioni  ai  problemi  della  vita  privata  ai 
grandi  problemi  di  Stato,  egli  analizzerà  le  forze  poli- 
tiche e  le  forze  sociali  esistenti  in  Italia  e  in  Europa, 
le  scomporrà,  le  valuterà  e  saprà  giovarsene  pel  gran- 
de suo  gioco  della  risoluzione  del  problema  dell'unità 
politica  italiana. 

(Da  La  Riforma  Sociale,   maggio    1912). 


LA  CONQUISTA  DEI  CONFINI  NATURALI 

DALLA  PARTE  D*  OCCIDENTE 

ED  I  SUOI  INSEGNAMENTI 

Perchè  la  repubblica  di  Venezia  siasi  per  cosi  lun- 
ghi anni  rassegnata  agli  infelici  suoi  confini  di  terra 
con  gli  Stati  ereditari  d'Austria  è  problema  storico,  il 
quale  meriterebbe  di  essere  studiato.  Forse,  se  la  Se- 
renissima avesse  colto  ogni  propizia  occasione  per  ret- 
tificare la  sua  frontiera;  se  essa  fosse  stata  deliberata  a 
lottare  in  terraferma  con  quella  tenacia  che  l'aveva  resa 
forte  e  potente  sui  mari,  la  unità  d'Italia  sarebbe  stata 
compiuta  da  tempo.  Confini  giusti  e  saldi  non  si  con^ 
seguono  senza  lotte  aspre,  combattute  con  animo  virile 
e  col  proposito  di  rendere  la  vita  più  bella  e  sicura  alle 
generazioni  venture. 

In  questo  momento,  in  cui  l'Italia  si  accinge  all'im- 
presa di  conquistare  a  sé  stessa  i  suoi  confini  naturali 
d'oriente,  non  è  inutile  ricordare  come  i  padri  nostri  pie- 
montesi abbiano  conquistato,  con  guerre  asprissime, 
alla  nuova  Italia  un  confine  occidentale  adatto  ad  assi- 
curarci le  spalle  ed  a  far  venir  meno  antiche,  potentis- 
sime ragioni  di  dissidio  con  la  vicina  Francia,  simiglianti 
a  quelle  che  oggi  ci  traggono  a  guerra  con  l'Austria. 
Per  lo  più,  al  Piemonte  viene  data  gloria,  e  meritata 
gloria,  per  l'opera  sua  di  iniziatore  delle  guerre  di  in- 
dipendenza';     dimenticando    così    che    quest'opera    non 


—  266  — 

avrebbe  neppure  potuto  essere  concepita  se  con  un  la- 
voro tenace,  durato  un  secolo  e  mezzo,  i  Principi  di 
Casa  Savoia  ed  i  popoli  piemontesi  non  avessero  com- 
battuto e  sofferto  ed  armeggiato  per  assicurare  a  se 
stessi  il  confine  naturale  delle  Alpi. 


^ 


DUCATO 


* 


Di 

^  SA  VO  tA 


"^rétntCCJtfé,  'A/fa  rO 


fra  n  ce  ss 


^♦PV-nerolo 


Km  0       io   .     2  0       io 
> 


40        ìfe-J 


'  oHrmàono/à 


:ìi::m 


Cl'  1>V  x  '     -/.  M  S'ALUZJÓ.  Alba 

Conquisa  succe^iveL/^^^ 


160  ì .  Hdrchesdto  di5ax 

/uzzo . 
1 696.  P/nerolo  e  Perosa 
\l\ò.  Castel  atei  fino. 

De/fmalo  / fallano- 

-  Pràgelaio. 


—  267  — 


Oggi,  a  noi  Piemontesi  sembra  naturale  che  il  con- 
fine debba  andare  sino  al  culmine  della  catena  al- 
pina. Dimentichiamo  che  sino  al  1601  il  Re  Cristianis- 
simo di  Francia  protendeva  i  suoi  domini  bene  al  di 
qua  delle  Alpi  col  marchesato  di  Saluzzo,  acquistato, 
non  senza  frode,  nel  1548,  il  quale,  con  Carmagnola, 
giungeva  a  poche  marce  da  Torino,  minacciando  la 
capitale  medesima  degli  Stati  piemontesi.  Ciò  che  oggi 
è  il  saliente  Tridentino  per  la  pianura  Padana  e  per 
Verona,  era  allora  il  marchesato  di  Saluzzo  per  l'alto 
Piemonte  e  per  Trino.  Carlo  Emanuele  I,  assertore 
della  libertà  d'Italia  contro  Francia  e  Spagna,  non  risto 
sinché  questa  spina,  confitta  nel  cuore  del  Piemonte, 
non  fosse  tolta;  e  vi  riuscì,  dopo  guerre  e  negoziati 
lunghi,  dopo  avere,  in  campagne  variabilmente  fortu- 
nose, portato  le  sue  armi  nel  Delfinato  e  nella  Pro- 
venza, col  trattato  di  Lione  del  1601.  Cedette,  è  vero, 
due  ampie  Provincie  in  Savoia,  la  Bressa  e  il  Bugey, 
dando  l'esempio  ad  altri  cambi  fortunati  più  vicini  a 
noi;  ma  chiuse,  o  quasi,  le  porte  d'Italia  a  quello  che 
per  secoli  fu  il  nemico  ereditario  del  Piemonte. 

Per  poco;  che,  alla  fine  della  guerra  di  successione 
di  Mantova  e  del  Monferrato  (1627-1631),  il  figlio  suo 
Vittorio  Amedeo  I,  di  tanto  a  lui  minore,  dovette  ac- 
conciarsi, pel  trattato  di  Cherasco  del  31  marzo  1631, 
ad  aprire,  anzi  a  spalancare  un'altra  porta  agli  eser- 
citi di  Francia,  colla  cessione  di  Pinerolo  e  della  valle 
di  Perosa.  Acquistava,  è  vero,  il  Duca  di  Savoia  Alba, 
Trino,  Nizza,  della  Paglia  ed  altre  74  terre  del  Monfer- 
rato,  tolte   ai   due   pretendenti    alla   successione   manto- 


—  268  — 

vana,  i  Gonzaga  ed  il  Duca  di  Nevers,  vassallo  quest'ul- 
timo di  Francia.  Ma  era  un  acquisto  ottenuto  a  ben  caro 
prezzo.  Il  lettore  gitti  uno  sguardo  su  una  carta  del  Pie- 
monte e  vegga  quale  specie  di  indipendenza  rimanesse 
al  nostro  Stato  di  fronte  ai  prepotenti  Re  Cristianis- 
simi. Pinerolo,  subito  fortificata  da  Francia,  dominava 
Torino  e  teneva  in  soggezione  i  suoi  reggitori.  Per 
65  anni  dovettero  i  Savoia  mordere  il  freno;  ed  era  duro 
freno.  Anticipando  i  metodi  di  Napoleone,  il  quale  a 
Tilsit  doveva  imporre  invano  alla  Prussia  di  non  tenere 
in  arme  più  di  40.000  uomini,  Luigi  XJV  ordinava  nel 
1688  al  Duca  Vittorio  Amedeo  II  di  non  tenere  più  di 
2000  uomini  sotto  le  armi.  Come  poi  i  prussiani,  Vit- 
torio Amedeo  II  finge  di  obbedire;  ma  ricorre  allo  spe- 
diente  di  rinnovare  ogni  quattro  mesi  nell'anno  i  due- 
mila uomini,  sicché  ne  ha  effettivamente  seimila,  di  cui 
quattromila  sempre,  ma  alternatamente,  in  congedo. 
Domenico  Guerrini,  lo  storico  della  brigata  dei  Grana- 
tieri di  Sardegna,  nota  a  questo  punto  con  ragione  co- 
me tutti  conoscano  e  lodmo  l'esempio  prussiano,  men- 
tre il  nostro,  più  antico  di  120  anni,  è  noto  a  po- 
chissimi. 

Così,  il  più  grande  dei  sovrani  della  prima  dinastia 
dei  Savoia  si  preparava  a  riconquistare  il  dominio  delle 
porte  di  casa  sua;  e  le  riconquistò  cogliendo  l'occasione 
della  guerra  del  1690-96,  combattuta  contro  la  strapo- 
tenza egemonica  di  Luigi  XIV  dalla  maggior  parte  dei 
sovrani  europei  stretti  nella  Lega  cosidetta  d'Augusta 
dalla  abilità  di  Guglielmo  di  Orange.  Fu  guerra  terri- 
bile pel  Piemonte;  ma  gli  animi  dei  subalpini  non 
potevano  più  a  lungo  sopportare  l'insolenza  del  ne- 
mico accampato  con  15.000  uomini,  grosso  esercito  per 


—  269  — 

quei  tempi,  a  Pinerolo  agli  ordini  di  Catinat.  Vittorio 
Amedeo  li  fa  scrivere  sulla  bandiera  di  un  reggimento 
valdese  il  motto  :  Patientia  laesa  fit  furor;  Louvois,  in- 
ferocito, ordina  al  Catinat  :  Brùlez,  brùlez  bien  leur 
pays.  Sconfitto  a  Staff  arda  nel  1690,  e  poi  di  nuovo  alla 
M  arsagli  a  nel  1693,  malgrado  prodigi  di  valore,  il  Duca 
non  si  disamina  e  per  sei  anni  continua  a  combattere 
con  alterne  vicende.  I  contadini  piemontesi  lo  seguono 
fidenti;  e  quand'egli  se  li  vede  dintorno,  laceri  e  smunti 
per  la  molta  miseria  cagionata  dalla  guerra,  distribuisce 
tra  di  loro  quanto  denaro  si  trova  indosso  ed  infine  fa 
a  pezzi  e  dona  il  ricco  collare  dell'Annunziata  che  gli 
pende   dal  collo. 

Contro  un  sovrano  ed  un  popolo  siffatti,  ostinati, 
rudi  e  parchi,  non  v'è  forza  umana  che  possa  preva- 
lere; e  persino  il  Re  Sole  deve  venire  a  patti  e  cedere, 
col  trattato  di  Torino  del  29  agosto  1696,  confermato  a 
Ryswick  il  10  settembre  1697,  Pinerolo  e  la  Valle  di 
Perosa. 

Ma  la  liberazione  dei  confini  occidentali  d'Italia 
del  dominio  straniero  non  era  ancora  compiuta.  Rima- 
nevano in  potere  di  Francia  tre  teste  di  valle,  non  unite 
storicamente  ed  amministrativamente  al  marchesato  di 
Saluzzo  ed  al  Pinerolese;  ma  da  secoli,  alcune  da  360 
anni,  aggregate  al  Delfinato  francese.  Come  oggi  i  te- 
deschi parlano  di  «  Tirolo  italiano  »,  così  allora  i  fran- 
cesi discorrevano  del  Delfinato  italiano,  il  «  Dauphiné 
aux  eaux  pendantes  vers  l'Italie  »  dei  documenti  fran- 
cesi dei  secoli  XIV-XVH.  Nella  storia  della  formazione  del 
confine  occidentale  d'Italia,  il  Delfinato  italiano  ha  una 
importanza  comparabile  a  quella  odierna  della  Valle 
delle    Giudicarle    e    di    Cortina    d'Ampezzo    lungo    Tat- 


—  270  — 

tuale  confine  politico  fra  l'Italia  e  l'Austria.  Malgrado 
la  perdita  successiva  dei  due  grandi  salienti  di  Saluzzo 
e  di  Pinerolo,  il  Re  Cristianissimo  conservava  tre  pas- 
saggi attraverso  le  Alpi,  grazie  ai  quali  le  sue  truppe 
potevano  fare  irruzione  in  Piemonte.  Anche  qui  uno 
sguardo  ad  una  carta  dei  confini  d'Italia  basta  ad  indi- 
care il  pericolo  a  cui  erano  esposti  gli  Stati  sabaudi. 
A  venti  chilometri  sopra  Pinerolo,  nella  Valle  del  Chi- 
sone,  al  punto  in  cui  la  valle  si  chiude  in  una  selvaggia 
gola,  dominata  dal  Bec  Dauphin,  cominciavano  le  terre 
di  Francia  :  Meana,  Mentoulles,  Fénestrelles,  Pragelato, 
sino  al  colle  di  Sestrières.  Subito  dopo  la  perdita  di 
Pinerolo,  i  francesi  fortificarono  Fénestrelles  e  di  lì  mi- 
nacciavano uno  degli  sbocchi  principali  delle  Alpi  sulla 
pianura  torinese. 

Al  di  là  del  colle  di  Sestrières  si  apre  un'altra  val- 
lata, quella  della  Dora  Riparia.  Tutta  la  sua  testata, 
con  Cesana,  Bardonecchia,  Oulx,  Exilles,  Salbertrand 
e  Chaumont  era  parte  del  Delfinato  italiano  in  potere 
di  Francia.  A  pochi  chilometri  di  distanza  la  fortezza 
di  Exilles  minacciava  Susa  e  consentiva  di  muovere 
tranquillamente  un  altro  esercito  all'assalto  della  pia- 
nura piemontese. 

Finalmente,  di  minor  importanza  ma  neppure  tra- 
scurabile, era  in  mano  di  Francia,  la  testa  della  Val 
Varaita,  la  quale  sbocca  nella  pianura  tra  Cuneo  e  Sa- 
luzzo. Erano  ivi  in  mano  dei  francesi  i  quattro  comuni 
detti  di  Casteldelfino  :  Sant'Eusebio,  Ponte  Chi  anale, 
Chianale  e  Bellino. 

Con  un'altra  guerra  lunga  e  fortunosa,  quella  detta 
di  successione  spagnuola,  durata  dal  1701  al  1713  e  glo- 
riosa   per     l'assedio    di    Torino   e  l'eroismo   di   Pietro 


—  271  — 

Micca,  Vittorio  Amedeo  II  conquista  finalmente  all'Ita- 
lia i  suoi  confini  naturali  dalla  parte  d'occidente  :  il 
Delfinato  aux  eaux  pendantes  vers  l'Italie  diventa  ve- 
ramente italiano  e  la  catena  delle  Alpi  segna  alfine  i 
confini    dello   Stato    piemontese. 


Si  può  dire  che,  d'allora  in  poi  —  sono  oramai  pas- 
sati due  secoli  —  l'Italia  non  abbia  più  avuto  contese 
per  ragioni  di  confini  con  la  sua  vicina  d'occidente.  Le 
guerre  rivoluzionarie  e  la  conquista  napoleonica  ebbero 
altra  origine;  e  la  cessione  di  Savoia  e  Nizza  fu  volon- 
taria, voluta  per  conseguire  un  più  alto  fine  nazionale. 
Ma  la  tranquillità  della  quale  ora  si  gode  dalla  parte 
del  confine  occidentale  non  è  forse  il  frutto  della  te- 
nacia veramente  ferrigna  con  cui  sei  generazioni  di 
Principi  colsero  ogni  occasione  e  corsero  i  più  gravi 
rischi,  riducendosi  talvolta  alla  più  disperata  guerra  di 
partigiani,  pur  di  riuscire  nell'intento  di  cacciare  lo 
straniero  di  là  dalle  Alpi?  Se  nel  1906,  a  distanza  di 
due  secoli,  italiani  e  francesi  concordi  si  affratellavano, 
a  Torino,  nel  ricordo  comune  del  valore  dei  loro  ante- 
nati, non  forse  ciò  era  dovuto  alla  giusta  causa  com- 
battuta dai  Principi  di  Savoia,  a  cui  i  discendenti  degli 
antichi  nemici  rendevano  commovente  omaggio? 

Notisi  che  la  conquista  dei  confini  naturali  d'Italia 
dalla  parte  occidentale  non  potè  avvenire  senza  una 
qualche  offesa  al  principio  di  nazionalità.  Se  il  dialetto 
piemontese  nel  popolo  e  la  lingua  italiana  nelle  classi 
colte  erano  dominanti  nella  parte  più  ricca  e1  bassa  dei 
due   salienti   saluzzese   e   pinerolese,   non   così    avveniva 


—  272  — 

nella  montagna  e  specialmente  nel  cosidetto  Delfinato 
italiano.  Ivi  la  parlata  era  indubbiamente  francese;  in 
francese  si  redigevano  tutti  gli  atti  pubblici;  in  francese 
avvenivano  le  discussioni  e  si  scrivevano  i  verbali  dei 
consigli  delle  comunità.  Linguisticamente  quelli  erano 
territori  francesi,  come  sarebbero  francesi  la  Valle 
d'Aosta  e  le  Valli  Valdesi. 

Anche  qui  il  Piemonte  e  poi  l'Italia  videro  giusto 
rispetto  al  metodo  da  tenere  per  la  trasformazione  na- 
zionale di  quelle  popolazioni  :  e  fu  l'ossequio  più  largo 
al  loro  diritto  di  parlare,  di  scrivere  e  di  insegnare  in 
lingua  francese.  Il  problema  fu  risoluto  colla  libertà. 
Come  in  Valle  d'Aosta  la,  parlata  francese  lentamente, 
ma  naturalmente  si  va  ritirando  dallo  sbocco  della  val- 
lata, quasi  presso  Ivrea,  ove  due  secoli  or  sono  i  ver- 
bali dei  consigli  comunali  si  redigevano  ancora  in  fran- 
cese, verso  Aosta,  per  l'infiltrazione  crescente  di  genti 
della  pianura  e  per  l'influenza  della  cultura  italiana, 
così  accadde  nei  comuni  del  Delfinato  italiano.  I  mo- 
narchi sabaudi  riconoscono  e  confermano  i  vecchi  pri- 
vilegi ed  usi,  a  cui  quei  comuni  erano  attaccatissimi. 
Fra  gli  altri,  l'uso  ed  il  diritto  di  scrivere  in  lingua  fran- 
cese i  verbali  del  consiglio  comunale  durano  a  Féne- 
strelles  sino  al  1871.  Ed  in  quest'anno  l'usanza  muore, 
non  per  un  ordine  brutale  del  governo  italiano,  ma  per 
spontaneo  volere  di  popolo.  Ciò  che  i  prussiani  non 
riuscirono  ad  ottenere  colla  forza  nella  Posnania  dai  po- 
lacchi, noi  italiani  avemmo  colla  libertà.  Nella  seduta 
del  21  marzo  1871  il  consiglio  comunale  di  Fénestrelles, 
divenuta  oramai  italianamente  Fenestrelle,  si  pone  il 
quesito  se  convenga  continuare  ad  adottare,  come  lin- 
gua ufficiale,  il  francese,  secondo  la  tradizione.  E  si  de- 


—  273  — 

libera  di  sostituirla  con  l'italiano  «  qui  est  la  langue  de 
notre   patrie  ». 

Questo  semplice  e  commovente  trapasso  dal  francese 
all'italiano,  come  lingua  ufficiale  degli  atti  verbali  di 
un  comune  di  montagna  è  un  trionfo  dell'incivilimento 
concepito  alla  maniera  nostrana;  è  un  trionfo  della  per- 
suasione spontanea  e  della  nostra  virtù  di  espansione. 
Io  sono  certo  che  se  l'Italia  racchiuderà  nei  suoi  nuovi 
confini  orientali  qualche  minoranza  di  lingua  tedesca 
o  slava,  l'unico  mezzo  di  assimilazione  che  noi  por- 
remo in  opera  sarà  quello  del  rispetto  alla  lingua,  alle 
tradizioni,  agli  usi  ed  agli  interessi  delle  minoranze  in- 
cluse nei  confini  del  regno.  È  il  metodo  che  a  noi  diede 
magnifici  frutti  verso  il  confine  occidentale;  ed  è  il  solo 
il  quale  sia  degno  di  una  nazione,  come  l'italiana,  ne- 
mica di  ogni  oppressione  e  di  ogni  persecuzione. 

(Dal  Corriere  della  Sera,  31   maggio  1915). 


18 


PER  LE  PORTE  D'ITALIA 
Soldati  Piemontesi!  Soldati  Italiani! 

Chi  di  voi,  contemplando  la  maestosa  catena  delle 
Alpi,  che  cinge  tutt' intorno  il  nostro  Piemonte,  non  si 
è  sentito  sicuro  per  la  protezione  che  quelle  montagne, 
dominate  per  lunghissimo  tratto  dalla  punta  del  Mon- 
viso, danno  alla  nostra  indipendenza  ed  alla  nostra  li- 
bertà? 

Quante  volte  non  avrete  voi  pensato  :  di  qua  dal 
Monviso  gli  Italiani,  di  là  i  Francesi,  amendue  contenti 
nel  proprio  paese  e  viventi  accanto  da  buoni  amici,  de- 
cisi a  stare  ognuno  a  casa  propria,  coltivando  i  campi, 
lavorando  nelle  fabbriche  e  curando  V allevamento  e  la 
educazione  delle  famiglie! 

Eppure,  le  cose  non  andarono  sempre  così. 

Francesi  ed  Italiani,  che  oggi  sono  amici  e  fratelli, 
un  tempo  si  combatterono  e  forse  si  odiavano.  E  la 
causa  di  queste  discordie,  oggi  fortunatamente  cessate, 
era  sempre  la  stessa  :  non  si  volevano  rispettare,  spe- 
cialmente da  parte  dei  potentissimi  Re  di  Francia,  i 
confini  naturali,  che  i  nostri  piccoli  Duchi  di  Savoia, 
diventati  poi  grandi  Re  di  Sardegna  e  d'Italia,  volevano 
portare  fino  alla  linea  divisoria  delle  Alpi. 

I  nostri  Duchi,  sovrani  di  un  piccolo  ma  animoso  po- 
polo, combatterono  per  centinaia  di  anni  per  assicurarsi 
il  confine  delle  Alpi.  Sarebbe  troppo  lungo  narrarvi 
tutte  quelle  guerre.  Vi  ricorderemo  solo  alcuni  avveni- 
menti principali. 


—  276  — 

Che  cosa  direste,  voi  che  conoscete  bene  il  Piemon- 
te, se  il  Monviso  e  le  vallate  del  Po  e  della  Varaita  e 
la  pianura  sottostante  fino  a  Saluzzo  ed  a  Carmagnola, 
appartenessero  non  alVItalia  ma  alla  Francia?  Voi  di- 
reste che  una  simile  condizione  di  cose  sarebbe  intolle- 
rabile; che  il  non  essere  padroni  delle  porte  di  casa 
nosha,  che  il  lasciar  arrivare  gli  eserciti  stranieri  fino 
a  Carmagnola  minaccerebbe  gravemente  Torino,  la  ca- 
pitale del  Piemonte,  e  rischerebbe  di  tagliare  in  due 
il  nostro  paese,  impedendo  le  comunicazioni  fra  Cuneo 
e  Mondovì  da  una  parte  e  Torino,  Pinerolo,  Susa,  Biel- 
la, Ivrea,  Aosta  dall' altra  parte. 

Ciò  compresero  i  nostri  vecchi;  ma  fu  solo  dopo  lun- 
ghe lotte,  guerre  e  trattative  che  il  Duca  Carlo  Ema- 
nuele I  nel  1601  riuscì  a  far  ripassare  le  Alpi  ai  Francesi 
col  trattato  di  Lione. 

Ma  i  Re  di  Francia,  che  erano  ostinati  e  volevano 
conquistare  il  dominio  dell'Europa,  come  oggi  vogliono 
fare  gli  Imperatori  di  Germania  e  d* Austria-Ungheria, 
nel  1631  conquistarono  Pinerolo,  con  le  Valli  del  Chi- 
sone  e  del  Pellice,  e  subito  costrussero  a  Pinerolo  una 
formidabile  fortezza  da  cut  minacciavano  ad  ogni  mo- 
mento Torino.  Il  Piemonte  era  quasi  diventato  vassallo, 
servo  della  Francia,  e,  finche  Pinerolo  era  francese,  noi 
piemontesi  dovevano  mordere  il  freno.  Di  nuovo  i  Du- 
chi di  Savoia,  assecondati  da  tutto  il  popolo,  nobiltà, 
borghesia,  contadini,  colsero  ogni  occasione  per  libe- 
rarci da  questa  schiavitù.  La  più  lunga  delle  guerre 
combattute  per  liberare  Pinerolo  fu  quella  che  durò  dal 
1690  al  1696.  Sei  lunghi  anni  di  guerra,  con  le  battaglie 
della  Staffarda  e  della  Marsaglia,  sostennero  i  Piemon- 
tesi contro  le  agguerrite  truppe  del  Maresciallo  Catinai, 


—  277  — 

il  quale  aveva  ricevuto  ordine  dal  suo  Ministro  della 
Guerra:  Bruciate  tutto,  bruciate  bene  in  Piemonte!  Ma 
i  nostri  bravi  soldati,  quasi  tutti  contadini,  non  si  per- 
dettero di  coraggio,  scalzi  e  laceri  seguitarono  a  com- 
battere, sostenuti  dalla  presenza  e  dall'aiuto  del  loro 
Duca  Vittorio  Amedeo  II,  il  quale  giunse  a  spezzare 
fra  di  loro  il  suo  ricco  collare  dell'  Annunziata  perchè 
potessero  comprare  di  che  sfamarsi,  e  tennero  testa  ai 
nemici.  Finalmente,  nel  1696,  colla  pace  di  Torino,  Pi- 
nerolo  ci  venne  restituita  e  fu  così  chiusa  un'altra  gran- 
de porta  d'Italia. 

Ne  rimanevano  aperte  ancora  tre,  molto  più  pìccole 
di  quelle  di  Saluzzo  e  Pinerolo;  ma  capaci  sempre  di 
lasciar  passare  le  truppe  straniere  per  venire  ad  inva- 
dere il  nostro  caro  Piemonte.  Queste  tre  porte,  che  si 
trovavano  ancora  in  mano  dei  Francesi,  erano  Castel- 
delfino,  su  su  in  capo  alla  Valle  Varaita,  da  cui  i  ne- 
mici potevano  calare  nella  pianura  fra  Cuneo  e  Saluz- 
zo; il  Pragelato  con  la  fortezza  di  Finestrelle,  da  cui 
si  poteva  discendere,  per  la  valle  del  Chisone,  su  Pi- 
nerolo; e  il  Delfinato  Italiano,  con  Oulx,  Cesano,  Bctr- 
donecchia  ed  Exilles,  da  cui  per  la  valle  della  Dora  Ri- 
paria si  era  a  quattro  passi  da  Susa. 

Di  nuovo  i  Piemontesi  si  decisero  ad  andare  in  guer- 
ra per  liberare  definitivamente  le  Alpi  dalla  dominar 
zione  straniera;  e  fu  guerra  lunga  e  durissima,  che  durò 
dal  1701  al  1713  e  che  tutti  voi  conoscete  per  l'assedio 
di  Torino  e  per  l'eroismo  di  Pietro  Micco,  oscuro  figlio 
del  popolo,  come  popolani  e  contadini  erano  quelli  che 
avevano  giurato,  insieme  al  loro  Duca,  di  liberare  il 
Piemonte.  Alla  pace  di  Utrecht,  nel  1713,  Casteldelfino, 
Pragelato  ed  il  Delfinato  furono  ceduti  al  Piemonte  ed 
il  confine  delle  Alpi  era  raggiunto. 


-     278  — 

Dopo  d'allora,  i  confini  delle  Alpi  dalla  parte  del 
Piemonte  sono  stati  sicuri;  e  noi  da  oramai  duecento 
anni  siamo  tranquilli  nelle  nostre  case,  perchè  i  nostri 
Vecchi  non  hanno  temuto  di  sacrificare  le  loro  vite  ed 
i  loro  beni  per  il  vantaggio  dei  loro  figli  e  dei  loro  di- 
scendenti. Noi  oggi  siamo  amici  colla  Francia,  perchè 
allóra  si  ebbe  il  coraggio  di  farla  finita  con  la  prepo- 
tenza dei  loro  Re,  i  quali  volevano  dominare  su  di  noi. 
E  noi  sappiamo  benissimo  che  i  francesi  sono  contenti 
di  essere  tornati  a  casa  loro;  ed  i  loro  uomini  migliori 
ce  lo  dissero  francamente  nel  1906,  quando  insieme  e 
di  buon  accordo  festeggiammo  il  secondo  centenario 
dell'assedio   di   Torino. 

Vorremmo  adesso  noi  essere  da  meno  dei  nostri 
vecchi?  //  Trentino,  che  è  oggi  dominato  dall'Austria 
ed  è  abitato  da  italiani,  desiderosi  di  riunirsi  alla  ma- 
drepatria, è  per  la  Lombardia  ed  il  Veneto  ciò  che  un 
tempo  era  per  noi  Pinerolo  in  mano  dei  francesi;  ed  il 
Friuli  orientale,  con  l'Istria,  Gorizia,  Gradisca  e  Trie- 
ste, abitati  anch'essi  da  italiani,  ci  ricordano  i  tempi 
in  cui  Saluzzo  con  Carmagnola  era  in  possesso  di  stra- 
nieri. Allora  Torino  era  esposta  ad  un  colpo  di  mano 
dei  francesi,  che  potevano  tranquillamente  in  tempo  di 
pace  ammassare  truppe  al  di  qua  delle  Alpi;  adesso 
Brescia,  Verona,  Vicenza,  Padova,  Venezia,  Udine  so- 
no esposte  agli  assalti  degli  austriaci,  i  quali  possono 
accumulare  eserciti  a  Trento,  Riva  e  Gorizia  e  venirci 
addosso  quando  meno  ce  lo  aspettiamo. 

Allora  i  nostri  Duchi  erano  indipendenti  solo  di  no- 
me; ma  in  realtà  dovevano  obbedire  ai  Re  di  Francia. 
Adesso.  l'Italia  negli  ultimi  dieci  o  quindici  anni  ha  do- 
vuto subire  umiliazioni  senza  fine.  Tutti  sanno  che  ab- 
biamo  dovuto   le   ultime   due   volte   rinnovare   l'alleanza 


—  279  — 

con  la  Germania  e  l'Austria  per  forza,  sotto  la  minaccia 
di  una  dichiarazione  di  guerra  da  parte  delle  nostre  al- 
leate. Tutti  sanno  che,  all'epoca  della  guerra  libica,  il 
Duca  degli  Abruzzi  dovette  rinunciare  a  bombardare  i 
porti  turchi  dell'Adriatico,  e  la  nostra  flotta  non  potè 
fare  nulla  contro  Salonicco  ed  i  Dardanelli,  perchè 
l'Austria  aveva  posto  il  veto.  E  noi  dovemmo  chinare 
la  testa  perchè  noi  avevamo  due  porte  d'Italia  —  il 
Trentino  ed  il  Friuli  con  V Istria  —  in  mano  all'Austria. 

La  nostra  guerra  non  è  una  guerra  di  conquista,  ma 
di  liberazione.  Quando  avremo  ricacciato  per  sempre 
gli  Austriaci  al  di  là  delle  Alpi,  noi  vivremo  in  pace 
con  loro.  Noi  non  vogliamo  opprimere  nessuno,  ma 
non  vogliamo  essere  oppressi.  Ma  perciò  abbiamo  bi- 
sogno che  la  cerchia  delle  Alpi  sia  nostra.  Quando  l'a- 
vremo conquistata,  noi  potremo  dire  di  aver  compiuto 
il  nostro  dovere.  /  nostri  padri  faticarono  150  anni  per 
liberare  le  Alpi  piemontesi  dal  giogo  straniero,  e  so- 
stennero guerre  sanguinose  e  devastazioni  per  intieri 
decenni.  Oramai  il  dado  è  gettato;  se  noi  non  voglia- 
mo che  la  pianura  veneta  e  la  lombarda  siano  deva- 
state, che  le  soldatesche  austriache  e  tedesche  violino 
le  nostre  mogli  e  le  nostre  sorelle  e  le  nostre  figlie,  noi 
dobbiamo  opporre  saldo  e  animoso  il  petto  contro  il 
nemico. 

Ricordate,  soldati,  che  voi  conquisterete  così  pace 
e  sicurezza  per  voi  e  per  i  vostri  discendenti,  per  ora 
e  per  i  secoli  avvenire;  e  ridonando  all'Italia  le  sue 
porte,  la  renderete  veramente  amica  di  tutti  i  suoi  vi- 
cini! Con  la  guerra  d'oggi,  voi  create  la  pace  duratura 
del   domani! 

(Pubblicaz.  (N.  1)  deH'/sfitufo  Nazionale  per  le  Bi- 
blioteche dei  soldati,  Torino,    1916). 


CHE  COSA  SIGNIFICA 
LA  LOTTA  SUL  TRENTINO 

Gli  avvenimenti  militari,  i  quali  si  sono  succeduti 
recentemente  nel  Trentino,  avranno  almeno  questo  be- 
neficio :  di  far  comprendere  a  tutti,  anche  a  coloro  i 
quali  hanno  bisogno  di  toccare  con  mano  prima  di  cre- 
dere, quanto  fosse  iniquo  il  nostro  confine  e  quanto  la 
nostra  guerra  sia  stata  un  necessario  seguito  delle  guerre 
che  i  nostri  padri  ed  avi  combatterono  per  l'indipen- 
denza d'Italia. 

L'Austria  possedeva  e  possiede  le  porte  d'Italia! 
Questa  la  verità,  che  oggi  anche  i  ciechi  sono  costretti 
a  vedere.  L'abitudine  storica  di  secoli,  le  gelosie  fra 
potenze  italiane  rivali,  l'abilità  degli  stranieri  domina- 
tori, la  minore  potenza  degli  Stati  stranieri  confinanti! 
avevano  a  volta  a  volta  addormentato  gli  italiani  e  li 
avevano  persuasi  che  il  Trentino  in  mano  dell'Austria 
ed  il  confine  orientale  capricciosamente  serpeggiante 
al  di  qua  dell'Isonzo  su  terra  piatta  e  sottoposta  al  for- 
midabile baluardo  del  Carso  non  fossero  un  pericolo 
quotidiano,  sempre  imminente.  Venezia,  nei  suoi  se- 
coli di  gloria  e  di  forza,  badava  al  mare  e  poco  si  cu- 
rava se  ad  Oriente  i  conti  di  Gorizia  possedessero  più 
o  meno  terre  o  se  il  vescovo-principe  di  Trento  pre- 
stasse un  nominale  omaggio  all'imperatore  di  nazione 
germanica     piuttostochè    al    Doge    della     laguna.    Il   sa- 


—  262  — 

liente  Tridentino  in  mano  ad  un  principe  ecclesiastico 
poteva  parere  persino  un  baluardo  contro  le  ambizioni 
dei  signori  di  Lombardia.  E  poi!  da  tanti  secoli  la 
Germania  era  così  divisa  e  debole,  l'imperatore  di  na- 
zione germanica,  sebbene  si  dicesse  erede  del  titolo 
degli  imperatori  romani  e  conservasse  una  vaga  pretesa 
all'eminente  dominio  d'Italia,  era  così  lontano,  era  di- 
venuto tale  un  fantasma  che  si  poteva  comprendere  co- 
me in  Italia  nessuno  se  ne  curasse. 

Ne  gli  Absburgo  avevano  ancora  riunito  i  loro  Stati 
ereditari  in  un  corpo  compatto  di  Stato,  pericoloso  ai 
vicini  per  le  sue  mire  di  espansione.  All'Austria  si  guar- 
dava da  tutti  con  fiducia  e  con  riconoscenza,  come  al 
baluardo   d'Europa  contro   l'invasione  mussulmana. 

La  rivoluzione  francese,  come  tutti  sanno,  cambiò 
questo  stato  di  cose.  Quando  l'Italia  si  risvegliò  dal  so- 
gno napoleonico,  la  situazione  ai  confini  nord-orientali 
era  profondamente  mutata  :  scomparsa  la  Repubblica 
di  Venezia;  morta  la  larva  di  impero  di  nazione  germa- 
nica; scomparsi  molti  dei  vassalli  semi-indipendenti  del- 
l'impero e,  fra  essi,  scomparso  il  pricipato  vescovile  di 
Trento;  gli  Stati  ereditari  d'Austria,  prima  slegati  tra 
loro  ed  in  parte  compresi  ed  in  parte  esclusi  dall'im- 
pero di  nazione  germanica,  trasformati  in  un  nuovo 
Impero  d'Austria,  e  cioè  in  uno  Stato  ancora  variegato 
per  razze,  ma  compatto  per  formazione  geografica  e 
tenuto  saldamente  insieme  da  un  corpo  di  impiegati 
devoti  alla  dinastia.  Con  l'Austria  padrona  del  Lom- 
bardo-Veneto, la  sorte  dell'Italia  pareva  decisa  per 
sempre:  diventare  la  lunga  mano,  quasi  un  molo  get- 
tato nel  Mediterraneo  a  profitto  dei  paesi  germanici. 
Mezzo    secolo    di    sforzi    eroici   valsero    a   distruggere    in 


—  283  — 

parte  il  sogno  tedesco  :  l'unione  dell'Italia  in  un  solo 
regno  dimostrò  la  ferma  volontà  degli  italiani  di  vi- 
vere  liberi  ed   indipendenti. 

Ma  erano  sul  serio  liberi  ed  indipendenti?  La  storia 
della  triplice  alleanza  dimostra  il  contrario.  Fu  neces- 
sità allearsi  coi  nostri  oppressori  di  ieri;  ma  fu  neces- 
sità dolorosa,  la  quale  è  la  prova  che  noi  non  avevamo 
il  potere  di  decidere  liberamente  della  nostra  azione  e 
dei  nostri  destini.  L'Italia  nuova,  in  ciò  dissimile  ed  in- 
feriore alla  Repubblica  Veneta,  aveva  ai  propri  confini 
nord-orientali  un  impero  austriaco  forte,  popoloso,  esso 
medesimo  la  lunga  mano  di  un  altro  nuovo  impero, 
quello  germanico,  ancora  più  forte,  compatto  ed  am- 
bizioso. E  questi  due  imperi  avevano  le  porte  d'Italia 
in  poter  loro.  Dalle  Alpi,  dalle  testate  delle  vallate 
prealpine,  dal  bastione  dell'Isonzo,  essi  potevano  scen- 
dere su  di  noi,  e  minacciarci  perennemente  per  costrin- 
gerci ad  arrenderci  al  loro  buon  volere.  All'Italia  invero, 
la  nazione  germanica,  che  da  se  stessa  si  credeva  de- 
stinata alla  dominazione  del  mondo,  assegnava  una  par- 
tecipazione al  banchetto  :  la  Corsica,  Nizza,  forse  una 
parte  dell'Africa  francese.  Ma  a  che  sarebbe  valso  tutto 
ciò?  A  renderci  vieppiù  vassalli  dei  nostri  alleati,  i 
pupilli  ed  i  soci  minori  della  nazione  dominatrice,  la 
quale,  per  essere  sicura  della  nostra  obbedienza,  avreb- 
be tenuto  le   chiavi  di   casa  nostra   in   suo   possesso. 

Chi  ricorda  la  storia,  vede  riprodursi  la  situazione  in 
cui  durante  il  secolo  XVII  ed  il  principio  del  secolo  XVIII 
si  trovò  il  Piemonte  di  fronte  alla  monarchia  francese, 
giunta  allora  al  fastigio  della  sua  potenza  con  Luigi  XIV. 
Anche  allora  i  re  francesi  offrivano  ai  principi  di  Casa 
Savoia    allargamenti    verso   la   Lombardia,    isole   e   regni 


—  284  — 

fuori  d  Italia.  Ma  volevano  tenersi  in  mano  le  porte  che 
dalle  Alpi  scendono  sulla  pianura  piemontese  :  Saluzzo, 
Pinerolo,  il  Delfinato  italiano,  il  Pragelato,  Casteldel- 
fino.  I  nostri  Principi,  prima  di  rivolgersi  ad  oriente  e 
mangiare  le  foglie  del  carciofo  italiano,  vollero  assicu- 
rarsi le  spalle;  e  con  guerre  lunghe  ed  incessanti,  alcune 
delle  quali  durarono  dieci  e  più  anni,  riuscirono  a  con- 
quistare a  se  ed  all'Italia  il  confine  delle  Alpi. 

Da  allora  in  poi  1* Italia  fu  sicura  della  porta  d'occi- 
dente. Chi  di  noi  oserà  dire  che  gli  stessi  sacrifici  non 
si  debbano  lietamente  sopportare  per  assicurarsi  le 
spalle  dalla  parte  d'oriente? 

Chi  rifletta  a  questa  vicenda  di  cose,  non  può  non 
rimanere  convinto  che  la  nostra  fu  una  guerra  imposta 
dalla  dura  necessità,  una  guerra  di  difesa  e  non  di 
offesa. 

Ancor  oggi  all'estero,  e  purtroppo  tra  qualche  ita- 
liano tremebondo  e  troppo  memore  delle  vecchie  in- 
clinazioni neutraliste,  si  mormora  :  la  guerra  italiana  è 
diversa  dalla  guerra  che  si  combatte  al  confine  di  Fran- 
cia. Francesi  e  belgi  furono  aggrediti  e  difendono  il 
suolo  della  loro  patria;  e  con  essi  lo  difendono  gli  al- 
leati inglesi.  Ma  noi  siamo  stati  gli  aggressori,  perchè 
fummo  noi  e  non  gli  austriaci  a  pretendere  il  territorio 
che  apparteneva  alla  Casa  d'Austria. 

Mai  fu  detta  cosa  tanto  sostanzialmente  falsa. 

Aggressore    ed   offensore   è    colui,    il  quale   pretende 
tenere    soggette    popolazione    indubbi  amente    di    stirpe 
e    di   lingua   italiana,    che^   la  nazione   italiana   risorta    è 
deliberata  a  stringere  al  suo  seno. 

Aggressore  è  colui  il  quale  vuole  giovarsi  di  queste 
terre  nostre  per  avere  le  porte  aperte  in  casa  altrui,  per 


—  285  — 

esercitare  un  alto  dominio,  che  il  tempo  avrbbe  reso 
sempre  più  assoluto,  appunto  perchè  circondato  dalle 
apparenze  della  indipendenza. 

Aggressore  è  colui  il  quale  pretende  di  essere,  in 
nuove  circostanze  storiche,  l'erede  di  innocui  principati 
antichi  ed  afferma  che  queste  eredità  stanno  al  disopra 
della  volontà  dei  popoli,  delle  ragioni  della  lingua  e 
delle  esigenze  della  difesa  nazionale. 

Aggressore  è  colui  il  quale  non  ci  vuole  amici,  ma 
pretende  tenerci  vassalli  sottomessi. 

Noi  non  siamo  nemici  dei  tedeschi  e  degli  austriaci 
perchè  tali.  Sarebbe  un  sentimento  irragionevole.  Noi 
vogliamo  soltanto  che  essi  non  siano  padroni  in  casa 
nostra.  Ci  siamo  decisi  oggi  a  combatterli,  perchè  era- 
vamo persuasi  che  questo  era  il  momento  più  propizio 
per  respingere  l'offesa  permanente,  continua,  esercitata 
da  essi  contro  la  nostra  reale  indipendenza  e  contro 
quelle  maggiori  offese  che  l'avvenire  ci  avrebbe  ar- 
recato. 

Supponiamo  che  Germania  ed  Austria  fossero  riu- 
scite nel  loro  tentativo  di  conquistare  la  supremazia 
suir Europa.  Ed  il  tentativo  avrebbe  certamente  avuto 
maggiori  probabilità  di  riuscita  se  non  fossimo  interve- 
nuti noi  per  tempo  ad  immobilizzare  parte  delle  forze 
austriache.  Lo  confessò  l'arciduca  Federico  nel  suo  ira- 
condo proclama  alle  truppe  austriache  nell'atto  di  ini- 
ziare l'offensiva  del  Trentino  :  «  a  quest'ora,  senza  il 
tradimento  degli  Italiani,  noi  avremmo  già  avuto  la 
pace!  ».  E  sarebbe  stata  la  pace  austro^tedesca;  la  pace 
la  quale  avrebbe  fondato  lai  grande  federazione  dell'Eu- 
ropa di  mezzo  (Mirtei  Europa)  da  Amburgo  sino  al 
Golfo  Persico. 


—  286  — 

Quale  sarebbe  stata  la  nostra  situazione  dopo  una 
pace  siffatta? 

Creda  chi  vuole  che  l'Austria  avrebbe  condisceso  a 
donarci  il  formidabile  saliente  del  Trentino,  a  spo- 
gliarsi delle  fortezze,  costrutte  con  decenni  di  lavoro  e 
con  centinaia  di  milioni  di  lire  di  spese,  ad  abbando- 
nare la  linea  aggressiva  dell'Isonzo!  Ai  traditori  —  e 
noi  agli  occhi  dell'Austria  eravamo  dei  traditori  —  non 
si  dà  il  prezzo  del  tradimento;  sibbene  si  dà  disprezzo 
e  punizione. 

Con  qualsiasi  pretesto,  una  spedizione  punitiva  sa- 
rebbe stata  allestita  contro  l'Italia;  e  rufro  l'urto  formi- 
dabile degli  eserciti  uniti  del  nuovo  impero  medio- 
europeo avrebbe  gravato  sulle  nostre  forze,  sole,  isolate, 
situate  in  una  posizione  strategica  di  gran  lunga  infe- 
riore. Inglesi,  Francesi  e  Russi  avrebbero  lasciato  fare; 
tanto,  che  cosa  avrebbe  importato  ad  essi  delle  sorti  di 
un  popolo  che  non  si   sapeva  battere? 

La  conclusione  della  guerra  combattuta  in  così  di- 
sgraziate condizioni  non  poteva  essere  dubbia:  l'Italia 
sarebbe  diventato  un  paese  di  protettorato  reale,  se  non 
formale,  germanico.  Venezia  e  Genova  e  Spezia  avreb- 
bero cessato  di  essere  porti  italiani.  Sarebbero  dive- 
nuti per  il  commercio  e  per  la  dominazione  marittima 
del  Mediterraneo  a  prò  della  Germania,  quello  che  è 
ora  Amburgo  e  quello  che  i  tedeschi  vorrebbero  fare 
di   Anversa  e  di   Rotterdam. 

Gli  italiani  avrebbero  dovuto  ricominciare  la  lunga 
e  dolorosa  fatica  delle  cospirazioni,  delle  rivolte,  dei 
martiri  per  riacquistare  la  perduta  indipendenza. 
L'Austria,  memore  sempre  della  gloria  acquistata  con 
le   forche   di    Belfiore,     avrebbe     tornato     ad     applicare 


—  287  — 

i  metodi  che  in  passato  le  furono  tanto  cari  e  che  nel 
Belgio,  nella  Serbia,  nella  Dalmazia,  in  Boemia  oggi 
sono  freddamente  usati  dagli  austro-tedeschi  contro  gii 
uomini  più  invitti  delle  razze  che  essi  vogliono  domi- 
nare o  fare  scomparire. 

E,  forse,  lottare  contro  gii  adescamenti  di  vantaggi 
materiali  ai  più  torpidi  ed  il  terrore  della  forca  ai  più 
generosi,  sarebbe  diventato  impossibile.  A  chi  chie- 
dere aiuto,  quando  la  Francia  fosse  scomparsa  dal  no- 
vero delle  grandi  nazioni,  l'Inghilterra  avesse  perduto 
il  dominio  dei  mari  e  la  Russia  fosse  stata  risospinta  in 
Oriente? 

La  disperata  situazione  dell'Italia  sarebbe  stata  così 
evidente,  che  non  avrebbe  neppure  fatto  d'uopo  al- 
l'Austria combattere  una  guerra  per  raggiungere  l'in- 
tento. Isolata  e  sfiduciata,  l'Italia  insensibilmente 
avrebbe  condisceso  a  trasformare  a  poco  a  poco,  sotto 
la  pressione  di  minaccie  militari-diplomatiche  ignorate 
dal  gran  pubblico,  i  vincoli  di  apparente  alleanza  in 
vincoli  di  reale  unione  e  di  ancor  più  reale  sudditanza 
di  noi  più  deboli   agli  altri  più  forti. 

Coloro  che  in  Italia  si  spaventano  e  si  lagnano  delle 
imposte  nuove  che  dovremo  pagare  per  far  fronte  alle 
spese  della  guerra,  dimenticano  che  delle  imposte  ci 
si  può  lamentare  soltanto  quando  ad  esse  non  corri- 
sponda alcun  vantaggio  o  servizio  fornito  dallo  Stato 
ai  nostri  cittadini.  Re  Bomba  faceva  scrivere  dai  suoi 
ministri  opuscoli  per  dimostrare  che  i  napoletani  erano 
il  più  felice  popolo  della  terra,  perchè  pagavano  poche 
imposte;  mentre,  secondo  lui,  i  piemontesi  dovevano 
ritenersi  prossimi  alla  rovina,  perchè  il  conte  di  Cavour 


—  288  — 

ogni  anno  aumentava  le  imposte  per  correre  dietro  alla 
fìsima  della  indipendenza  italiana.  Ma  i  fuorusciti  napo- 
letani a  Torino  vittoriosamente  replicavano  che  i  pie- 
montesi traevano  vantaggio  materiale  e  morale  dalle 
imposte  gravi;  perchè  ottenevano,  in  cambio  di  esse, 
ferrovie,  strade,  istruzione  e  quella  preparazione  mili- 
tare che  doveva  portare  nel  1859  alla  cacciata  dello  stra- 
niero dall'Italia. 

Oggi  noi  paghiamo  imposte,  è  vero;  ma  per  procu- 
rare a  noi  stessi  giustizia,  sicurezza,  scuole,  strade,  fer- 
rovie ed  un  esercito  il  quale  difenda  il  suolo  della  no- 
stra patria.  Forsechè  cessando  di  essere  un  popolo  li- 
bero, cesseremmo  di  pagare  imposte?  Quando  mai  si 
è  veduto  che  i  popoli  vassalli  siano  stati  esenti  da  im- 
poste? La  storia  anzi  ci  ammaestra  che  su  di  essi  gra- 
varono  sempre  imposte   durissime   ed  odiosissime. 

Quand'anche  le  imposte  rimanessero  uguali,  esse  sa- 
rebbero più  pesanti  di  prima  per  i  contribuenti,  perchè 
impiegate  a  mantenere  un  esercito  altrui  ed  a  fare  spese 
fuori  del  paese.  Quando  l'Austria  dominava  nel  Lom- 
bardo-Veneto erano  ogni  anno  centinaia  di  milioni  che 
i  contribuenti  italiani  pagavano  a  Vienna  senza  rice- 
vere nulla  in  cambio  :  vero  tributo  di  vassallaggio  che 
gli  austriaci  esigevano  col  pretesto  di  far  contribuire 
i  lombardo-veneti  ad  una  parte  delle  spese  generali 
dell'impero. 

Il  pagar  tributo  allo  straniero  non  è  solo  odioso  dal 
punto  di  vista  morale,  ma  anche  dal  punto  di  vista  ma- 
teriale. È  ricchezza  che,  invece  di  rimanere  nella  na- 
zione, è  pagata  a  favore  della  nazione  dominatrice.  E 
poiché    l'Austria    ha    molte    Provincie    povere,    ognuno 


—  289  — 

comprende  quanti  pretesti  essa  troverebbe  per  gravare 
di  balzelli  sproporzionati  le  ricche  Provincie  italiane, 
specie   dell'Alta  Italia. 

Balzelli  di  denaro,  e  tributo  di  sangue.  Chi  conosce 
lo  strazio  delle  famiglie  italiane  del  Trentino,  di  Trie- 
ste e  dell'Istria,  i  cui  figli  e  padri  furono  mandati  a 
morire  in  Galizia  ed  in  Serbia  per  una  causa  non  loro? 
E  gloria  morire  per  la  patria;  ma  è  strazio  inenarrabile 
morire  per  la  patria  altrui  e  contro  la  patria  nostra! 


Perciò  noi,  combattendo  sulle  balze  del  Trentino  e 
sulla  fronte  dell' Isonzo,  difendiamo  il  nostro  suolo,  i 
nostri  averi,  le  nostre  case,  le  nostre  famiglie.  Difen- 
diamo ciò  che  a  noi  sovratutto  è  caro,  la  nostra  lingua, 
la  nostra  esistenza  come  popolo  indipendente,  la  no- 
stra volontà  di  vivere  non  come  animali  beatamente 
tenuti  all'ingrasso,  ma  come  uomini  liberi,  uniti  da  vin- 
coli volontari  in  una  nazione  che  ha  dietro  di  sé  alcuni 
millenni  di  storia  e  di  gloriose  tradizioni,  e  che  vuole 
continuare  a  vivere  in  perpetuo. 

(Pubblicazione  (N.  29)  dell'Istituto  Nazionale  per 
ìe  Biblioteche  dei  soldati.    1916). 


19 


ACHILLE  NECCO 

Giovanni  Lorenzoni,  segretario  generale  dell'Istituto 
internazionale  d'agricoltura  —  ora,  per  arruolamento 
volontario,  sottotenente  negli  alpini  —  così  mi  narra  in 
una  lettera  angosciata  la  dolorosa  notizia  appresa  nella 
prima  missione  avuta  sulla  più  avanzata  linea  del  no- 
stro frante  : 

«Arrivo  in  un'alta  valle  circondata  da  picchi  altissimi.  Trovo 
delle  truppe  e  mi  dicono  che  il  giorno  9  era  morto  1)  vicino,  colpito 
da  una  palla  in  fronte,  mentre  perlustrava  un  canalone,  un  ufficiale 
degli  Alpini.  Ne  chiedo  il  nome.  Figurati  il  mio  profondo  dolore 
quando  sentii   ch'era   Achille  Necco  ! 

«  Si  trovava  colà  solo  dal  26  agosto.  Ma  era  già  riuscito  a  con- 
quistarsi la  stimai  e  la  simpatia  dei  suoi  colleghi  e  l'affetto  dei  suoi 
soldati. 

«  Uno  degli  ufficiali  suoi  colleghi  diceva  scultoriamente  di  lui- 
ch'era  un  «valoroso  di  tutti  i  giorni».  Sempre  pronto,  volonteroso, 
andava  avanti  a  tutti,  incoraggiava  i  suoi  uomini  colle  parole  e 
coli 'esempio.  Mori  il  giorno  9  al  mattino.  I  suoi  alpini  lo  calarono 
giù  nella  valle;  poi  un  corteo  di  soldati  lo  accompagnò  nel  paese 
più   vicino. 

«  Or  egli  è  11  sepolto  nel  cimitero  di  Padola,  la  fronte  anche  ora 
rivolta  al  nemico  ;  le  belle  montagne  intorno  gli  fanno  custodia  e 
il  cielo  gli  sorride  come  a  uno  dei  molti  eroi  di  questa  guerra  che 
tanti  nobili  fasti  ha  scritto,  e  che  ha  portato  molto  in  alto  l'anima 
italiana. 

«  Ho  visitato  oggi  la  sua  tomba  segnata  da  una  croce  di  legno 
ed  ornata  da  una  corona.  Sulla  croce  scrissi  nome,  cognome  e  qua- 
lità, ed  aggiunsi  queste  parole  :  «  Era  forte  e  sapiente,  valoroso  e 
buono.    Fu  proposto  per  la   medaglia   al  valore». 

Così  scrive  chi  è  stato  per  parecchi  anni  il  capo  ama- 
to  di    Achille    Necco   all'Istituto   internazionale    di    agri- 


—  292  — 

coltura.  Io,  che  lo  ebbi  studente,  amico,  collaboratore 
amatissimo  in  questa  rivista,  compilatore  del  mio  corso 
di  lezioni  universitarie,  fui  sempre  sicuro  che  egli  avreb- 
be fatto,  senza  sfoggio,  con  semplicità  e  spontaneità, 
grande  onore  al  suo  paese.  Non  lo  avevo  sentito  parlare 
in  favore  della  guerra  con  l'Austria;  ma  non  mi  meravi- 
gliai il  giorno  che  mi  comunicò  di  non  avere  voluto  at- 
tendere venisse  il  turno  della  chiamata  della  3a  cate- 
goria della  sua  classe  e  di  avere  fatto  domanda  di  es- 
sere nominato  sottotenente  della  territoriale.  Del  pro- 
posito attuato  non  menava  vanto,  poiché  aveva  obbe- 
dito soltanto  alla  voce  del  dovere.  E  quando,  dopo  il 
periodo  di  istruzione  in  un  battaglione  di  alpini  nella 
Carnia  era  stato  assegnato  ad  un  reggimento  di  fan- 
teria per  l'istruzione  delle  reclute,  parendogli  il  nuovo 
posto  più  arretrato  in  confronto  alle  prime  file,  aveva 
chiesto  di  essere  nuovamente  assegnato  ai  suoi  alpini. 
Non  per  sfoggio  di  bravura;  ma  perchè,  essendo  stato 
prima  nel  luogo  del  pericolo,  la  coscienza  gli  diceva 
che  doveva  seguitare  ad  essere  là  dove  era  stato  prima- 
mente  mandato  dai  suoi  capi.  Così,  serenamente,  per 
un  senso  altissimo  e  silenzioso  del  dovere,  egli  offriva 
la  sua  vita  alla  patria.  Apparteneva,  egli  di  umile  fa- 
miglia di  lavoratori,  alla  razza  dei  gentiluomini  piemon- 
tesi che  accorrevano,  senza  discutere,  sotto  le  bandie- 
re, ogni  volta  che  il  loro  Re  li  chiamava  a  versare  il 
sangue  per  la  difesa  del  paese. 

All'arnica  suo  dott.  Attilio  Garino-Canina,  il  giorno 
prima  di  un  fatto  d'arme  a  cui  doveva  prendere  parte, 
scriveva  dandogli  alcune  disposizioni  di  ultima  volontà 
rispetto  alla  sua  biblioteca  :  «  Se  questa  mia  ti  giungerà, 
ti  sia  d'annuncio  della  mia  morte  sul  campo  o  in  qual- 


—  293  — 

che  ospedaletto  avanzato.  Te  la  scrivo  ora,  mentre  sto 
per  raggiungere  la  mia  destinazione.  Un  mio  collega, 
partito  con  me  da  Pinerolo,  è  già  morto  :  potevo  be- 
nissimo essere  stato  designato  io  al  suo  posto.  E  ti 
scrivo  per  pregarti  di  salutarmi  tutti  gli  amici  coi  quali 
speravo  di  festeggiare  il  ritorno.  Ti  confesso  che  il  sa- 
crifìcio della  vita  non  mi  è  stato  lieve;  ma  non  lo  rim- 
piango, perchè  sentivo  che  l'esporla  era  un  dovere  mo- 
rale ». 

Come  andò  incontro  serenamente  alla  morte  per  un 
ideale,  così  serenamente  egli  trascorse  gli  anni  troppo 
brevi  della  sua  vita.  Aveva  cominciato  ad  essere  noto 
tra  gli  studiosi  di  cose  statistiche  ed  economiche  alcuni 
anni  più  tardi  dei  suoi  coetanei;  ma  gli  amici,  i  quali 
sapevano  quanto  dura  fosse  stata  la  sua  giovinezza,  stu- 
pivano dei  risultati  del  suo  lavoro.  Fino  a  quando  fu 
chiamato  a  Roma,  redattore  all'Istituto  internazionale 
di  agricoltura,  Achille  Necco  aveva  studiato  e  lavorato 
superando  difficoltà  che  ad  altri  sarebbero  parse  insor- 
montabili. Gran  parte  del  lavoro  preparatorio,  fatico- 
sissimo e  paziente,  per  gli  scritti  sui  prezzi  delle  merci 
e  sui  valori  di  borsa  in  Italia  fu  compiuto  rubando  le 
ore  al  sonno  e  riducendo  a  pochi  minuti  la  colazione 
per  potere,  durante  l'ora  meridiana,  che  il  modesto  uf- 
ficio d'ordine  alla  Cassa  di  risparmio  di  Torino  gli  la- 
sciava libera,  correre  nelle  biblioteche  o  negli  uffici  pub- 
blici dove  trovava  il   materiale  per  i   suoi   lavori. 

Ai  nostri  occhi,  che  sapevano  con  quanto  disagio  egli 
lavorasse,  la  sua  continua  allegria,  la  naturalezza  tran- 
quilla con  cui  egli  compieva  gli  sforzi  maggiori,  tene- 
vano del  miracoloso.  Era  forte,  sobrio,  non  aveva  vizi; 
e  lavorava  per  il  padre,  per  la  madre,  per  il  fratello  e 


—  294  — 

per  le  sorelle.  1  auto  accanita  e  materiale  era  stata  la 
sua  fatica  di  ogni  giorno,  e  tanto  care  ed  afferrate  con 
gioia  le  ore  che  aveva  potuto  dedicare  allo  studio,  che 
la  chiamata  all'istituto  intemazionale  di  agricoltura,  do- 
ve pure  gli  affidarono  subito  compiti  delicati  e  conti- 
nui, parve  a  lui  un  rinascere  alla  vita.  Parlava  con  le- 
tizia dell'agio  che  il  nuovo  ufficio  gli  dava  di  applicarsi 
a  fatti  e  studi  per  lui  interessanti  e  di  trascorrere  alcune 
ore  di  ogni  giorno  nella  disinteressata  fatica  intellettua- 
le. Seguitò  a  studiale  ed  a  scrivere,  perchè  lo  studio 
gli  piaceva.  Ne,  come  tanti  fanno,  studiava  e  scriveva 
colla  mente  intenta  alla  carriera  accademica  da  percor- 
rere. Gli  amici  che  lo  apprezzavano,  gli  studiosi  che  lo 
leggevano  erano  sicuri  che  un  giorno  gli  sarebbe  toc- 
cata una  cattedra,  meritato  guiderdone  dei  suoi  studi 
coscienziosi.  Egli  invece  non  ne  parlava;  non  aveva 
impazienze;  e  niente  in  lui  ricordava  il  tipo  comune  del 
concorrente  universitario.  Mentre  altri  novera  a  mesi  il 
tempo  occorrente  per  condurre  a  termine  l'iniziato  «  ti- 
tolo »  da  concorso,  egli  discorreva  tranquillamente  de- 
gli anni  che  ancora  gli  sarebbe  costata  la  compilazione 
del  suo  lavoro  sui  valori  di  borsa  in  Italia.  Lavorava 
non  per  ottenere  un  fine  pratico  col  suo  lavoro,  ma  per- 
chè riteneva  che  il  lavoro  dovesse  riuscire  compiuto  en- 
tro i  limiti  in  cui  lo  aveva  concepito. 

Perciò  i  suoi  scritti  resteranno  nella  nostra  lettera- 
tura statistico-economica.  Dovranno  essere  continuati; 
ma  il  suo  punto  di  partenza  rimarrà  fermo. 

Anche  il  suo  scritto  minore,  su  alcuni  meno  avver- 
titi aspetti  del  movimento  della  popolazione  in  Italia, 
che  fu  quasi  un  lavoro  d'occasione  e  doveva  essere  rie- 
laborato  da   lui,    affrontava   un   problema    meritevole    di 


—  295  — 

essere  approfondito.  Mosso  forse  dalle  sue  vive  condi- 
zioni religiose,  gittò,  tra  i  primissimi,  un  grido  d'allar- 
me quando  i  dati  dell'ultimo  censimento  gli  additarono 
la  diminuzione  preoccupante  della  natalità  nel  na- 
tivo Piemonte,  inquinato  dalla  mala  vicinanza  e  dal- 
1* importato'  esempio  della  sterilità  francese,  e  segnalò 
le  ragioni  morali  del  morbo  che  da  lontano  minaccia 
l'avvenire   demografico  del  nostro  paese. 

Ma,  sovratutto,  egli  tracciò  un  solco  fecondo  nel 
terreno,  in  Italia  ancora  male  dissodato,  delle  indagini 
sui   prezzi   delle  merci   e   dei   valori. 

Mancava  per  l'Italia  un  numero  indice  dei  prezzi 
delle  merci,  che  corrispondesse  a  quelli  del  De  Foville 
per  la  Francia,  dell' Economist  e  del  Sauerbeck  per  l'In- 
ghilterra e  di  altri  insigni  maestri  per  i  principali  paesi 
del  mondo.  Alcuni  l'avevano  iniziato;  ma  poi,  impa- 
zientitisi, avevano  abbandonato  a  mezzo  l'opera.  Achil- 
le Necco*,  che  era  un  lavoratore  perseverante,  acuto, 
preciso,  volle  compiere  il  lavoro  necessario  e  desidera- 
to; e  sarà  sempre  vanto  di  questa  rivista  di  averlo  in- 
coraggiato nel  pubblicare  il  suo  saggio  sulla  curva  dei 
prezzi  delle  merci  in  Italia  negli  anni  1881-1909.  La 
materia  prima  esistente  da  noi  per  calcoli  di  questo  ge- 
nere era  imperfetta  e  grossolana;  ma  il  Necco  ne  trasse 
fuori  tutto  quanto  essa  poteva  dare.  Egli  espose  il  me- 
todo tenuto,  gli  artifizi  adoperati,  le  cautele  osservate, 
le  restrizioni  che  devono  essere  presenti  alla  mente  di 
coloro  che  vogliono  adoperare  i  suoi  indici.  Dopo  ave- 
re compiuta  la  ricerca  retrospettiva,  volle  di  anno  in 
anno  continuarla,  con  grande  comodità  degli  studiosi  e 
vantaggio  della  scienza.  Oramai  i  numeri  indici  dei 
prezzi    «  Necco  »    avevano    acquistato    diritto   di    cittadi- 


—  296  — 

nanza  nella  scienza  internazionale;  studiosi  italiani  e 
stranieri  li  usavano  come  un  ferro  corrente  del  mestiere, 
così  come  si  usano  altri  famosi  numeri  indici.  Era  per 
lui  cagione  di  letizia  vedere  riconosciuta  universalmen- 
te la  utilità  del  suo  lavoro;  non  di  superbia,  come  ac- 
cade spesso  in  altri,  pure  meno  benemeriti  di  lui.  Pa- 
reva quasi  si  compiacesse  di  essere  un  semplice  anello 
di  una  catena  mondiale  di  studiosi,  intenti,  coi  mede- 
simi metodi  precisi  ed  esatti,  a  raggiungere  un  fine 
comune. 

Appena  ebbe  compiuto  il  lavoro  sui  prezzi,  volse 
l'animo  ad  un'altra  impresa  di  lunga  lena.  Parve  a  lui, 
traendo  lo  spunto  da  una  osservazione  di  Maffeo  Pan- 
taloni in  un  assai  favorevole  riassunto  dei  suoi  numeri 
indici  pubblicato  sul  Giornale  degli  Economisti,  che  la 
conoscenza  dei  prezzi  delle  merci  doves.se  essere  inte- 
grata dalla  conoscenza  dei  prezzi  dei  valori.  Se  fosse 
stato  possibile,  avrebbe  vagheggiato  altre  integrazioni; 
mercè  le  quali  soltanto  si  potrà  col  tempo  riuscire  ad 
avere  una  pallida  idea  di  quelle  variazioni  del  potere 
d'acquisto  della  moneta,  che  sono  il  tormento  di  tanti 
indagatori  e  la  cui  notizia  è  così  essenziale  per  la  ri- 
soluzione di  tante  questioni  teoriche  e  pratiche. 

11  suo  ultimo  scritto,  finito  di  pubblicare  in  questo 
stesso  anno  da  lui,  come  supplemento  alla  Riforma  So- 
ciale ed  insieme  al  Giornale  degli  Economisti,  poco 
prima  di  vestire  la  divisa  di  ufficiale  degli  alpini,  è  un 
contributo  prezioso,  definitivo  allo  studio  delle  varia- 
zioni dei  prezzi  dei  valori  mobiliari.  Il  lavoro  è  purtrop- 
po incompiuto;  poiché  riflette  solo  i  valori  a  reddito 
fisso  emessi  dallo  Stato  o  colla  sua  garanzia.  Ma  anche 
così   incompiuto,    quale   somma   di    calcoli    dovette   egli 


—  297  — 

compiere,  quante  difficoltà  minute  e  sottili  dovette  su- 
perare! Egli  si  compiaceva  in  questi  lavori,  i  quali  pos- 
sono parere  poco  brillanti  solo  a  chi  non  ha  il  vero 
temperamento  scientifico.  Necco  non  era  un  grande 
teorico;  ma  poiché  i  grandi  teorici  sono  rarissimi,  egli 
poteva  vantarsi  di  essere  un  vero  studioso  :  aveva  cioè 
la  passione  delle  verità  sicure;  voleva  applicare  i  prirv 
cipii  generali  ai  fatti  specifici  e  ne  sapeva  saggiare  così 
la  vera  importanza,  Poco  amava  discorrere  di  metodo 
in  generale  ed  insegnare  altrui  come  le  cose  dovrebbero 
essere  fatte;  ma,  quelle  imprese  a  cui  si  accingeva,  ese- 
guiva con  metodo  rigorosamente  scientifico.  Ai  suoi  due 
scritti  si  ricorre  oggi  e  si  ricorrerà  fra  venti  e  cinquanta 
anni  come  ad  una  fonte  sicura.  Chi  vorrà  sapere  quale 
sia  stato  il  tasso  di  frutto  dei  capitali  impiegati  a  red- 
dito fisso  nel  primo  cinquantennio  dell'unità  nazionale 
dovrà  ricorrere  all'ultimo  scritto  del  Necco.  Fin  dove 
egli  giunse,  l'opera  sua  non  è  più  da  rifare.  Nessuno 
in  Italia  aveva  tentato  di  manipolare  le  migliaia  e  mi- 
gliaia di  quotazioni  quotidiane,  che  egli  ci  presentò  in 
poche  nitide  tabelle;  pochissimi  lavori  stranieri  possono 
sostenere  il  confronto  col  suo. 

Io  credo  che  il  migliore  omaggio  che  da  noi  si  possa 
rendere  all'indimenticabile  memoria  del  compianto  estin- 
to sia  di  proseguire  l'opera  sua.  La  nostra  rivista  con- 
tinuerà a  pubblicare,  finche  essa  duri,  ogni  anno  i  nu- 
meri indici  dei  prezzi  delle  merci  e  li  intitolerà  al  nome 
del  loro  iniziatore.  Nelle  carte  lasciate  dal  Necco  è  da 
augurare  si  trovino  gli  spogli  in  parte  già  compiuti  delle 
quotazioni  dei  valori  mobiliari  a  reddito  fisso  non  di 
Stato  (obbligazioni  comunali,  fondiarie,  industriali)  ed  a 


—  298  — 

reddito  variabile  (azioni).  Sarebbe  doloroso  che  l'opera 
rimanesse  tronca  a  mezzo  e  non  trovasse  un  seguitatore. 
Achille  Necco  era  un  credente,  un  animo  retto  e 
semplice,  il  quale  nobilitò  la  sua  fede  con  l'olocausto 
della  vita  fatto  alla  patria;  uno  dei  molti  appartenenti 
alle  generazioni  nate  dopo  1*80,  che  oggi  lottano  e  muo- 
iono contenti,  con  di  nuovo  sulle  labbra  le  grandi  pa- 
role «  religione  »,  «  famiglia  »,  «  patria  ».  Il  suo  ricordo 
rimarrà  scolpito  nel  cuore  di  quelli  che  lo  conobbero 
buono,  forte,  sereno,  studioso;  l'opera  sua  sarà  se- 
guitata sicuramente  da  qualcuno  dei  giovani,  il  quale 
non  abbia  l'egoismo  sterile  della  lotta  per  la  carriera 
e  sia  persuaso  che  i  risultati  scientifici  duraturi  si  con- 
seguono soltanto  collegando  le  indagini  nuove  alle  in- 
dagini antiche,  collaborando  fraternamente  con  i  conv 
pagni  e  poco  promettendo  e  farneticando  di  novità. 
Achille  Necco  non  pensò  mai  con  superbia  di  se  stesso; 
prima  di  scrivere,  volle  conoscere  tutto  ciò  che  era  stato 
pubblicato  nel  campo  da  lui  intrapreso  a  studiare;  ne 
si  giovò  dei  suoi  nuovi  studi  per  gittare,  come  spesso 
accade  ai  copiatori  ed  ai  rimaneggiatori,  lo  sprezzo 
sulle  verità  superate  o  sui  metodi  invecchiati  dei  prede- 
cessori. E  poiché  egli  amò  di  seguitare  l'esempio  altrui, 
così  vi  sarà  indubbiamente  chi  seguiterà  l'opera  sua. 

Ora,  due  parole  di  biografìa  e  bibliografia,  brevi,  so- 
brie, com'Egli  era.  Achille  Necco  nacque  a  Torino  il 
15  ottobre  1887  da  Giuseppe  e  da  Emilia  Grazzini,  da 
Pisa.  Iniziò  i  suoi  studi  elementari  presso  i  «  Fratelli 
della  Scuola  cristiana  »  e  compiè  il  ginnasio  inferiore 
nell'Istituto     Salesiano    di    Sampierdarena.     Questo    pe- 


—  299  — 

riodo  della  sua  istruzione  ed  educazione  intellettuale 
ebbe  un'influenza  decisiva  sulla  sua  vita  spirituale  fu- 
tura, preparando  quella  fede  cattolica,  non  solo  reli- 
giosa, ma  politica  e  sociale,  di  cui  fu,  fin  dalla  prima 
gioventù,  milite  austero,  forte,  mai  settario.  Dal  1901 
al  1906  percorse,  sempre  tra  i  primi,  quando  non  era 
il  primo,  a  Torino,  il  ginnasio  superiore  ed  il  liceo  al 
Gioberti,  brillantemente  mostrando  fin  d'allora  le  ma- 
gnifiche qualità  della  sua  mente.  A  pena  finito  il  liceo, 
l'on.  Mauri,  direttore  del  Momento,  lo  inviò  nel  Treiv 
tino  a  studiarvi  le  condizioni  di  tutto  il  movimento  eco- 
nomico-sociale-politico  clericale,  specialmente  il  coope- 
rativismo agricolo.  Il  Necco  girò  allora  tutto  il  Trentino 
e  ne  raccolse  un  ricco  materiale  di  osservazioni,  che  fu 
poi  utilizzato  dal  giornale  torinese. 

Mentre  s'iscriveva  nella  facoltà  di  legge  dell'uni- 
versità di  Torino,  vinceva  (1906)  il  concorso  di  impie- 
gato alla  cassa  di  risparmio  di  questa  città,  dove  ri- 
mase fino  al  1913.  Contemporaneamente  egli  continua- 
va a  collaborare  su  periodici  cattolici,  specie  sul  Mo- 
mento, ed  a  partecipare  al  movimento  cattolico,  specie 
alle   organizzazioni    economico-sociali . 

Benché  occupato  nel  suo  impiego  alla  cassa  di  ri- 
sparmio, compieva,  sempre  con  votazioni  lusinghiere, 
i  suoi  studi  universitari,  coronandoli  colla  laurea  con- 
seguita nel  luglio  1910  a  pieni  voti  e  lode,  colla  presen- 
tazione del  suo  studio  sui  prezzi  italiani,  che  con  pic- 
coli ritocchi  è  diventato  il  più  apprezzato  ed  autorevole 
lavoro   che   in   Italia  si   abbia   sull'argomento. 

Continuava  intanto  a  collaborare  sulla  Riforma  So- 
ciale, sulla  Rivista  delle  Società  commerciali,  sul  Gior- 
nale degli  Economisti.    Nel    1913   passava   all'istituto  in- 


—  300  — 

ternazionale  d'agricoltura,  chiamatovi  dal  Lorenzoni  e 
dal  Ricci,  che  lo  destinavano  alla  ufficio  di  statistica  » 
dell'istituto,  dove  rimase  collaboratore  apprezzatissimo, 
fino  al    1915. 

Venuta  la  guerra,  presentò  volontaria  domanda  da 
ufficiale  :  appassionatissimo  della  montagna,  scelse  l'ar- 
ma degli  alpini.  Mandato  al  fronte  nella  seconda  metà 
di  agosto,  cadeva  il  9  settembre  al  passo  della  Senti- 
nella, con  la  fronte  rivolta  alla  valle  di  Sexten.  Ora 
dorme  sepolto  a  Padola,  frazione  di  Comelico  Su- 
periore. 

I  suoi  principali  scritti  di  carattere  scientifico  sono  i 
seguenti  : 

1910.  «  La    curva    dei    prezzi    delle    merci    in    Italia    negli    anni    1881- 

1909».  (Torino,  supplemento  della  Riforma  Sociale).  L'ar- 
ticolo di  M.  Pantaleoni,  che  lo  segnala  e  riassume,  è  «La 
curva  dei  prezzi  delle  merci  in  Italia  negli  anni  1881-1909, 
del  dott.   A.    Necco  »  (Giornale  degli  Economisti,  die.    1910). 

1911.  «Il  prezzo   delle  merci   nel    1910.    Continua  la   tendenza   all'au- 

mento?».   (Riforma   Sociale,   fase.    1). 
«Le  società  per  azioni  in  Italia».  (Riforma  Sociale,  fase.   5). 
«I    prezzi   delle    merci    in    Italia    nel    1910».    (Riforma    Sociale, 

fase.    8). 

1912.  «Le    società   per    azioni    italiane    nel    1911  ».    (Riforma    Sociale, 

fase.    5). 

1913.  «Attraverso    gli    Annuari    (Rassegne)».     (Riforma    Sociale,    fa- 

scicolo   5). 

«  Il  problema  della  popolazione  in  Italia  :  perchè  la  popola- 
lazione  declina  più  rapida  in  Piemonte  e  Liguria)).  (Ri- 
forma Sociale,   fase.   6-7). 

«I  prezzi  delle  merci  in  Italia  nel  191 1  ».  (Riforma  Sociale, 
fase.    8-9). 

«L'esportazione  dei  capitali  in  Francia  ed  in  Italia».  (Rivista 
delle  Società   commerciali,    fase.   6). 

1914.  «  Il    movimento   delle   società    italiane  per   azioni    nel    20   seme- 

stre  1913  ».   (Rivista   delle   Società   commerciali,   fase.    i°). 
«  Attraverso   gli   Annuari  ».   (Riforma   Sociale,    fase.    4). 


301 


ci  I  prezzi  delle  merci  in  Italia  nel  19 12  ».  (Riforma  Sociale, 
fase.   5). 

«L'industria  del  granito  nel  Canton  Ticino».  (Riforma  So- 
ciale,  fase.   5). 

«-11  movimento  delle  società  italiane  per  azioni  nel  i°  seme- 
stre 1914».    (Rivista  delle  Società   commerciali,   fase.  6). 

«L'ammontare  e  la  composizione  della  ricchezza  delle  nazioni». 
(Rivista  delle   Società    commerciali,   fase.    4). 
191 5.  «  I    prezzi    delle    merci    in    Italia    nel    1913  ».   (Riforma   Sociale, 
fase.    4-5). 

«  La  questione  irlandese  e  il  nostro  problema  meridionale  ». 
(Giornale  degli   Economisti,    marzo). 

«  Il  corso  dei  titoli  di  Borsa  in  Italia  dal  1861  al  1912.  — 
I.  I  titoli  di  Stato».  (Torino,  supplemento  della  Riforma 
Sociale  e  del   Giornale  degli   Economisti). 

(Da  «  La  Riforma  Sociale  »,  settembre    1915). 


CESARE  JARACH 

Dopo  Achille  Necco,  Alberto  Caroncini  e  poi  At- 
tilio Begey  ed  oggi  Cesare  Jarach  :  la  lista  dei  colla- 
boratori della  nostra  rivista  morti  sul  campo  per  la  di- 
fesa della  patria  si  allunga.  Cresce  il  cordoglio  per  la 
perdita  di  tanti  valorosi  ingegni  e  cresce  la  speranza 
che  un  paese,  le  cui  classi  intellettuali  seppero  con  fer- 
mezza e  semplicità  far  seguire  alle  parole  il  sacrificio 
personale,  abbia  nell'avvenire  a  dimostrarsi  degni  di 
superare  più  aspri  cimenti  e  conseguire  una  più  no- 
bile mèta. 

Nato  a  Casale  Monferrato  il  9  marzo  1884,  fu  allievo 
del  R.  Collegio  Carlo  Alberto  per  gli  studenti  delle  an- 
tiche provincie  e  seguì  i  corsi  universitari  nell'ateneo 
torinese,  conseguendovi  la  laurea  in  leggi  nel  luglio 
1904,  con  una  dissertazione  intomo  ai  rapporti  fra  trusts 
e  protezionismo,  che  fu  pubblicata  poi  su  questa  rivista. 
Durante  gli  anni  universitari  ed  in  quelli  seguenti  curò 
la  compilazione  delle  mie  lezioni  e  di  quelle  del  profes- 
sore Alessandro  Garelli.  Nell'anno  scolastico  1904-905 
ebbe  l'incarico'  dell'insegnamento  dell'economia  poli- 
tica e  della  scienza  delle  finanze  nell'istituto  tecnico 
G.   Sommeiller  di  Torino. 

Scelto  dal  senatore  Faina  e  dal  prof.  Coletti  come  uno 
dei  delegati  tecnici  per  l'inchiesta  parlamentare  sulle 
condiziona   dei   contadini   nelle  provincie   meridionali    e 


—  304  — 

nella  Sicilia  scrisse  la  relazione  sugli  Abruzzi;  e  le  sue 
doti  di  studioso  ed  indagatore,  che  in  tale  ufficio  si  ri- 
velarono, lo  fecero  chiamare  nel  1909  all'Istituto  inter- 
nazionale di  agricoltura,  dove  fu  prima  segretario  par- 
ticolare del  senatore  Faina,  allora  presidente  dell'isti- 
tuto ed  attese  poi  a  studi  sulla  organizzazione  della  sta- 
tistica agricola  e  sulla  cooperazione  nell'agricoltura.  Nel 
frattempo  teneva  nel  1911  l'incarico  dell'insegnamento 
dell'economia  politica  nell'istituto  tecnico  di   Roma. 

Nel  1911  passò,  in  qualità  di  ispettore,  al  commissa- 
riato dell' emigrazione  a  Roma,  e  fu  segretario  del  con- 
siglio, incaricato  di  riferire  sulle  questioni  del  controllo 
dei  noli  dei  vettori,  sui  vari  progetti  di  colonizzazione 
interna  ed  estera,  su  provvedimenti  -sanitari,  ecc.  Nel 
1913,  sempre  nella  sua  qualità  di  funzionario  del  com- 
missariato, passò  a  dirigere  l'ufficio  di  emigrazione  per 
gli  uffici  di  terra  in  Milano,  dove  rimase  fino  al  giorno 
della  chiamata  alle  armi.  Nominato  aspirante  ufficiale 
e  mandato  sul  Carso,  cadeva  pochi  giorni  dopo,  alla 
testa  dei  suoi  soldati,  colpito  da  una  granata  austriaca. 
Sopravvisse  alcune  ore  e  morì  serenamente,  col  pen- 
siero rivolto  alla  moglie  ed  ai  tre  figli,  che  egli  lascia  in 
tenerissima  età. 

Le  necessità  della  vita  non  gli  consentirono  di  de- 
dicare tutta  la  propria  attività  alla  scienza  economica, 
sebbene  non  gli  siano  mancate  lusinghiere  attestazioni 
di  eleggibilità  e  di  apprezzamento  in  concorsi  univer 
sitari.  Ma  servì,  forse  ancor  più  utilmente,  il  paese  negli 
uffici  pubblici.  Appartenne  alla  schiera,  la  quale  va 
purtroppo  facendosi  sempre  più  rara  in  Italia,  dei  fun- 
zionari i  quali  onorano  l'ufficio  coperto  con  la  auste- 
rità nell'adempimento  del  proprio  dovere  e  con  la  co- 


—  305  — 

scienza  che  a  questo  non  si  soddisfa  se  non  si  entra  nel- 
l' arringo  con  una  solida  preparazione  scientifica  e  se 
questa  non  si  affina  ognora  più.  La  guerra  odierna  ha 
dato  la  dimostrazione  di  un  vuoto  terrorizzante  nel- 
l'intelligenza e  nella  capacità  tecnica  del  ceto  burocra- 
tico dirigente  italiano,  sicché  non  ho  dubbio  che  se,  in- 
vece di  non  troppo  numerose  decine,  i  funzionari  colti, 
studiosi,  animati  da  devozione  alla  pubblica  cosa,  come 
era  Cesare  Jaraeh,  fossero  qualche  centinaio  e  se  essi 
potessero  essere  messi  a  capo  delle  pubbliche  ammini- 
strazioni, mirabili  risultati  si  potrebbero  ottenere;  e  ces- 
serebbe il  disordine  che  oggi  segue  all'incompetenza 
degli  uomini  politici  ed  all'arrivismo  non  meno  incom- 
petente dei  funzionari,  il  cui  unico  ideale  sembra  es- 
sere quello  di  far1  carriera,  servendosi  e  facendosi  servi 
delle  fantasie  e  degli  interessi  degli  uomini  e  dei  grup- 
pi, i  quali  si  succedono  al  potere. 

Cesare  Jaraeh  diede  il  suo  nome  alla  non  numerosa 
falange  di  nazionalisti,  la  quale  ben  presto  scisse  la 
sua  azione  da  quella  del  partito  nazionalista  e,  duce 
Alberto  Caroncini,  volle  richiamare  il  nazionalismo  alle 
sue  origini  nazionali  e  liberali.  Sull'organo  di  questa  fa- 
lange scelta,  L'Azione  di  Milano,  scrisse  egli  succosi 
articoli,  per  lo  più  collo  pseudonimo  di  Vtridis,  riven- 
dicando, tra  il  blatteramento  incomposto  dei  troppi  na- 
zionalisti analfabeti,  le  ragioni  della  scienza  economica 
nelle   sue   immediate   applicazioni   pratiche. 

Fu  scrittore  di  cose  teoriche,  in  economia  e  finanza, 
sobrio,  acuto,  elegante.  Ai  suoi  saggi  sui  rapporti  fra 
trust  e  protezionismo,  sulla  teoria  della  speculazione, 
sugli  effetti  di  una  imposta  generale  ed  uniforme  sui 
profitti  si  ritoma  volentieri  colla  mente,  come  quelli  chef 


—  306  — 

sono  il  frutto  di  una  meditazione  personale  accurata, 
che  spoglia  la  trattazione  di  ogni  elemento  estraneo  su- 
perfluo e  riduce  il  problema  ai  suoi  dati  essenziali  ed 
alle  sue  conclusioni  logiche  più  semplici.  Nel  che  ai 
riscontra  il  vero  abito   dello  studioso. 

I  suoi  scritti  di  economia  descrittiva  e  di  statistica 
economica  rimarranno.  Altre  relazioni  dei  delegati  tec- 
nici della  inchiesta  sulle  condizioni  dei  contadini  nel 
Mezzogiorno  ed  in  Sicilia  possono  eccellere  sulla  sua 
per  la  vastità  del  tocco,  per  la  complessità  della  visione 
del  problema  (Lorenzoni);  nessuna  supera  quella  del 
Jarach  sugli  Abruzzi  per  la  precisione  dello  studio  del- 
l'aspetto economico  del  problema.  Egli  era  un  econo- 
mista; ne,  giustamente,  conoscendo  sé  stesso,  amava 
fare  incursioni  nei  campi  vicini.  Gli  stadi  sullo  sviluppo 
ed  i  profitti  delle  società  per  azioni  italiane  dal  1882 
al  1903,  ripresi  poi  nello  studio  sui  bilanci  del  1911 
sono  un  monumento  di  indagine  scrupolosa,  condotta 
con  cura  ed  abnegazione  grandissime.  Essi  non  hanno 
bisogno  di  essere  rifatti;  ed  ogni  indagatore,  il  quale 
in  avvenire  voglia  studiare  gli  stessi  fatti,  dovrà  rifarsi 
ancora  alle  fondamenta  poste  dallo  Jarach  ad  un  edi- 
ficio che  prima  di  lui  nessuno  aveva  cominciato  a  co- 
struire. 

Scritti  del  Dott.  Cesare  Jarach. 

Aggio,  circolazione  e  riserva  delle  Banche  di  emissione.  (Estr. 
dalla  Riforma  Sociale,  fase.  i°,  anno  x,  voi.  xn,  seconda  serie, 
pag.   7.   Torino,    1903). 

I  rapporti  fra  trusts  e  protezionismo.  (Estr.  dalla  Riforma  So- 
ciale, anno  xi,  voi.  xiv,  seconda  serie,  pag.  34.  Torino,  1904). 

Lo  sviluppo  ed  i  profitti  delle  Società  per  azioni  italiane  dal 
1882  al  1903  (nella  collezione  degli  «Studi  del  laboratorio  di  economia 


—  307  — 

politica  S.  Cognetti  De  Martiis,  della  R.  Università  e  del  Museo  in- 
dustriale di  Torino»,  n.  i°  della  collezione,  pag.  114.  Torino,  1906, 
Roux   e  Viarengo). 

La  distribuzione  topografica  delle  Società  per  azioni  italiane  e 
l'incremento  relativo  della  grande  e  piccola  industria  (in  Riforma 
Sociale,  anno  xn,   voi.  xv,  pag.  909-915,    1905). 

L'industrializzazione  della  viticultura  francese  (in  Riforma  So- 
ciale, anno  xiv,  voi.   xvu,  pag.   538-545,    1907). 

Come  funziona  la  nostra  imposta  sulla  ricchezza  mobile  (Estr. 
dalla  Riforma  Sociale,  fase.  7,  anno  xiv,  voi.  xvu,  seconda  serie, 
pag.    16.   Torino,    1907). 

Inchiesta  parlamentare  sulle  condizioni  dei  contadini  nelle  Pro- 
vincie meridionali  e  nella  Sicilia  (Abruzzi  e  Molise,  voi.  11,  tomo  1. 
Relazione  del  delegato  tecnico  dott.  Cesare  Jarach,  pag.  xv-300. 
Roma,    1909,   Tipografia   Bertero). 

Institut  International  d'Agriculture.  L'organisation  des  services 
de  statistique  agricole  dans  les  divers  pays.  (Tome  premier,  pag.  446. 
Rome,   1909,   Imprimerie  de  la  Chambre  des  Députés). 

Il  problema  economico  della  disoccupazione.  (Estratto  dal  fasci- 
colo di  febbraio  1910  della  Rivista  d'Italia,  pag.  323-331.  Roma, 
1910,   Tip.    Unione   Editrice). 

Gli  effetti  di  una  imposta  generale  ed  uniforme  sui  profitti.  (Nota 
presentata  nella  adunanza  del  12  febbraio  191 1  alla  Reale  Accademia 
delle  Scienze  di  Torino.  Estratto  dagli  Atti,  voi.  xlvi,  pag.  18.  To- 
rino,   191 1,  Tip.    Bona). 

Appunti  sulla  teoria  dello  speculazione.  (Supplemento  alla  Ri- 
forma Sociale,  gennaio-febbraio  1912,  pag.  36.  Torino,  1912,  So- 
cietà  Tip.-Edit.   Nazionale). 

L'emigrazione  transoceanica  durante  il  1912  (in  Giornale  degli 
Economisti,  anno  xxiv,  voi.   xlvi,  pag.  55-59,    1913). 

Relazioni  varie  presentate  su  progetti  di  colonizzazione  nella  Ba- 
silicata e  nello  Stato  di  Vittoria  (Australia)  in  Rendiconti  sommari 
delle  adunanze  del  Consiglio  dell'emigrazione.  (Bollettino  dell'Emi- 
grazione,  n.    9.    Roma,    1912). 

Le  Società  italiane  per  azioni  attraverso  i  loro  bilanci  chiusi 
entro  l'anno  191 1.  (Estretto  della  Rivista  delle  Società  Commerciali, 
in-40,   pag.    124.    Roma,    1914). 

Compilazione  delle  lezioni  tenute  nella  R.  Università  di  To- 
rino  dai  professori  Luigi   Einaudi   ed   Alessandro   Garelli  : 

Scienza  delle  finanze  e  Diritto  finanziario  ;  lezioni  del  prof.  Luigi 
Einaudi  (un  volume  a  stampa  di  pag.  430.  Casale,  1907,  Tipografia 
Operaia). 

Finanze    locali.    Appunti    sulle    lezioni    del    prof.    Alessandro    Ga- 


308  — 


relli  (un  volume  a  stampa  di  pag.  433-551,  con  indice  ai  due  volumi, 
Pag-   553"558-   Casale,    1908,   Tipografia   Operaia). 

Articoli   pubblicati    sulla    Rassegna   settimanale    L'Azione    di   Mi- 
lano : 

Firmati  Cesare  Jarach  : 

L'Imposta  sul  reddito  (anno  1,  n.    11,   19  luglio   1914). 

Firmati   col   pseudonimo    I.    Viridis  : 
'    Il  programma   del   protezionismo   nazionalista  :    Esportazione  sen- 
za  importazione.    Contro   il   dazio   sul   grano?    (anno   1,    n.    12,    26   lu- 
glio   1914). 

Ancora  sull'imposta  globale.   L'esperienza  tedesca  (anno  1,  n.    13, 
2   agosto   1914). 

Provvedimenti    commerciali   e    finanziari    (anno   1,    n.    21,    27    set- 
tembre  1914). 

La    scadenza    della    moratoria.    Cautele    (anno    1,    n.    29,    22    no- 
vembre  1914). 

Recensioni  varie  in  Riforma  Sociale,  fra  cui  si  ricordano  quelle  su  : 

—  W.    Stanley   Jevons,    The    principles    of    economics    (anno    xn, 
voi.    xv,    pag.    970-1,    1909). 

—  Viscount    Goschen,   Essays    and    addresses    on    economie    ques- 
tions  (anno  xm,  voi.  xiv,  pag.   90-1,   1906). 

—  Zorli,    L'elemento  giuridico   e   morale  della   convenienza   econo- 
mica (id.,  pag.  815-16,   1906). 

—  Effertz,  Lcs  antagonismes  économiques  (id.,  pag.  992-94,  1906). 

(Da  «  La  Riforma  Sociale  »,   gennaio-febbraio   1917). 


AMMONIMENTI 

Adesso  che  è  giunta  l'ora  della  prova,  bisogna  che 
ciascuno  interroghi  la  sua  coscienza  e  cerchi  una  rispo- 
sta alla  domanda  :  ho  io  fatto  tutto  il  mio  dovere?  Uf- 
ficiale, ho  cercato  di  inspirare  fede,  disciplina,  corag- 
gio nei  miei  soldati?  Cittadino  privato,  ho  intensificato 
il  mio  lavoro  affinchè  la  vita  del  paese  non  venisse  tur- 
bata ed  i  soldati  alla  fronte  e  le  popolazioni  dell* in- 
terno potessero  avere,  per  quanto  stava  in  me,  tutto  il 
bisognevole?  Amministratore  della  cosa  pubblica,  rap- 
presentante di  italiani  in  consessi  alti  o  modesti,  ho  da- 
to opera  affinchè  la  compagine  morale  del  paese  ri- 
manesse salda?  Ho  recriminato,  ho  mormorato,  ho  fatto 
passare  l'ambizione  personale  dinanzi  all'interesse  pub- 
blico? 

(4  novembre    1917). 

Non  dobbiamo  addolorarci  e  deprimerci  troppo  se 
in  un  punto  della  nostra  fronte  sono  avvenuti  fatti  do- 
lorosi nell'esercito.  Fatti  simili  sono  successi  in  tutti  gli 
eserciti.  Ma  dobbiamo  chiedere  a  noi  stessi  :  come  ab- 
biamo contribuito  noi  ad  elevare  il  morale  dei  nostri 
soldati?  Li  abbiamo  incoraggiati  quando  parlavano  con 
compiacenza  delle  gloriose  gesta  compiute,  abbiamo 
fatto  comprendere  loro  che  noi  eravamo  profondamente 


—  310  — 

riconoscenti  per  la  grandezza  dei  sacrifici  che  essi  com- 
pievano per  noi;  ovvero  ci  siamo  compiaciuti  principal- 
mente nel  fare  eco  ad  espressioni  di  stanchezza,  natu- 
rali in  chi  soffre,  ma  che  noi  non  dovevamo  acuire  con 
la  nostra  importuna  commiserazione? 

(5  novembre    1917). 

Perchè  i  soldati  siano  tenaci,  pazienti  e  risoluti  oc- 
corre che  essi  sentano  di  avere  dietro  di  sé  un  popolo 
fiero,  paziente  ed  esemplare.  Quale  spettacolo  abbia- 
mo dato  noi  ai  soldati,  i  quali  tornavano  in  licenza? 
Ci  siamo  lamentati  che  i  viveri  erano  cari,  che  la  vita 
era  dura?  Abbiamo  detto  che  così  non  si  poteva  du- 
rare innanzi  e  frattanto  abbiamo  riempito  le  sale  dei 
teatri,  dei  cinematografi,  dei  ristoranti,  abbiamo  scia- 
lacquato danari  che  si  potevano  risparmiare  in  consumi 
non  assolutamente  necessari?  Ovvero,  ai  figli  nostri,  agli 
amici  che  tornavano  dai  luoghi  dove  si  difendeva  la 
patria  abbiamo  mostrato  che  anche  noi  si  era  frugali, 
che  anche  noi  si  sopportavano  volentieri  e  con  animo 
sereno  privazioni  materiali  allo  scopo  di  contribuire, 
ciascuno  nella  misura  dei  propri  mezzi,  alla  causa  co- 
mune? 

(6  novembre    1917). 

Oggi  si  vede  anche  dai  ciechi  che  la  guerra  si  fa 
per  difendere  le  nostre  case,  i  nostri  focolari,  le  nostre 
famiglie.  E  perciò  tutto  il  popolo  è  balzato  in  piedi,  ri- 
soluto a  guardare  negli  occhi  il  nemico.  Ma,  anche 
prima,  lo  scopo  della  guerra  era  sempre  stato  di  difesa. 
Avevamo    noi   adempiuto   al   dovere    di   spiegare    a   chi 


—  311  — 

non  sapeva,  a  chi  per  le  sue  condizioni  sociali  non  po- 
teva sapere  che  noi  avevamo  preso  le  armi  per  difen- 
dere l'Italia  contro  il  pericolo  di  una  dominazione  uni- 
versale? Quale  paese  poteva  sentirsi  sicuro  contro  le 
mire  di  chi  assaliva  la  Serbia,  si  impadroniva  del  Bel- 
gio, voleva  schiacciare  la  Francia?  Eravamo  insorti  per 
non  diventare  servi  senza  combattere.  Oggi  si  deve  con- 
tinuare a  combattere  per  serbare  la  libertà  e  l'onore  no- 
stro,  delle  nostre  famiglie   e  del  nostro  paese. 

(8  novembre    1917). 

Il  suono  di  certe  parole  che  pareva  fioco,  di  frasi 
che  parevano  retoriche  per  la  lunga  ripetizione  diventa 
oggi  nuovamente  vibrante.  Si  ripercote  nell'animo  nostro 
e  ci  fa  balzare  il  cuore  nel  petto.  Libertà,  indipenden- 
za, onore  sembrano  ricordi  di  scuola  quando  i  confini 
sono  sicuri.  Ma  quando  il  nemico  calca  col  suo  piede 
le  nostre  terre,  quelle  parole  vogliono  dire  la  possibilità 
di  vivere  senza  vergogna,  di  pensare  e  parlare  nella 
lingua  dei  nostri  padri,  di  crearci  un  mondo  ed  una  vita 
quale  piace  a  noi  e  non  quale  piace  ai  dominatori  no- 
stri. Vogliono  dire  la  possibilità  di  lasciare  ai  nostri  fi- 
gli intatta  l'eredità  ricevuta  dai  padri,  non  macchiato  il 
retaggio  tramandatoci  a  prezzo  di  tanti  sacrifici. 

(10  novembre    1917). 

Nell'autunno  del  1792  l'esercito  sabaudo  abbando- 
nava la  Savoja  dinnanzi  all'invasione  delle  truppe  rivo- 
luzionarie francesi.  I  soldati  del  reggimento  di  Moriana, 
in  seguito  ad  un  ordine  equivoco,   s'erano  sbandati,   ri- 


—  312  — 

tornando  ognuno  alle  sue  case,  dopo  essersi  tuttavia  dati 
appuntamento  a  Susa  per  il    1°  gennaio   del    1793. 

Pochi  credevano  che  la  parola  sarebbe  stata  man- 
tenuta. La  guerra  si  annunciava  lunga  e  durò  infatti  an- 
cora quattro  anni.  I  soldati  vivevano  in  paese  occupato 
dal  nemico;  e  questi  prometteva  ricompense  ai  deboli 
e  minacciava  dure  rappresaglie  contro  i  fedeli  alla  ban- 
diera sabauda. 

«  Tuttavia  il  colonnello  del  reggimento  il  1°  gennaio 
del  1 793  era  a  Susa,  e  faceva  tracciare  sulla  neve  i  con- 
fini d'un  posto  di  bivacco,  disporre  i  fuòchi  e  costruire 
alcuni  baraccamenti.  Dopo  ciò,  il  colonnello,  malgrado 
il  freddo  atroce,  si  diede  a  passeggiare  avanti  ed  indie- 
tro sulla  piazza  di  Susa,  come  fosse  un  padrone  di  casa 
che  attende  gli  invitati  passeggiando  nel  salone.  Non 
attese  a  lungo.  Alle  dieci  del  mattino  un  soldato  giun- 
geva per  il  primo;  era  un  certo  Grillet  e  veniva  da 
Lanslevillard,  uno  dei  villaggi  più  vicini  al  Moncenisio. 
Il  bravo  ragazzo  era  partito  da  casa  la  vigilia  ed  aveva 
tutta  la  notte  camminato  per  sentieri,  buoni  per  rom- 
persi il  collo.  Dopo  di  lui,  due  caporali,  che,  per  sfug- 
gire al  nemico,  avevano  rivoltato  le  uniformi;  e  dopo 
ancora  a  gruppi  di  tre  o  quattro,  continuarono  a  giun- 
gere soldati  dalle  strade  più  rimote.  Come  i  ruscelli  fi- 
niscono per  formare  il  fiume,  così  era  meraviglioso  ve- 
dere ìe  compagnie  a  poco  a  poco  ricostituirsi.  In  cin- 
que giorni,  il  reggimento  aveva  ritrovato  i  due  terzi  dei 
suoi  effettivi  ». 

Così  il  marchese  Costa  de  Beauregard,  in  un  libro 
dove  è  tutta  l'anima  del  fedele  servitore  detto  Stato  pie- 
montese d'un  tempo,  narra  uno  dei  pia  meravigliosi  epi- 
sodi di  quella  storia  sabauda,  che  è  il  tronco  vivo  della 


—  313  — 

storia  italiana  moderna.  Il  sentimento  del  dovere,  cht 
spingeva  i  poveri  montanari  del  1793  ad  abbandonare 
volontariamente,  per  obbedienza  alla  parola  data,  le  fa- 
miglie e  le  case  in  balìa  del  nemico,  non  è  spento  nel 
soldato  italiano  d'oggi.  , 

(12  novembre    1917). 


((  Ben  ciechi  sono  coloro  i  quali  pretendono  di  averci 
distrutti  perchè  essi  hanno  spezzato  i  nostri  blasoni  e 
disperso  i  nostri  archivi.  Finche  però  non  ci  avranno 
strappato  il  cuore  essi  non  potranno  impedirgli  di  lot- 
tare per  tutto  ciò  che  è  virtuoso  e  grande,  non  potran- 
no impedirgli  di  preferire  la  verità  alla  menzogna  e 
l'onore  a  tutto;  finché  non  ci  avranno  strappato  il  cuore, 
essi  non  potranno  impedirgli  di  essere  riscaldato  da  un 
sangue  che  giammai  tremò;  finché  non  ci  avranno  strap- 
pato la  lingua,  non  potranno  impedirci  di  insegnare  ai 
nostri  figli  che  la  nobiltà  consiste  soltanto  nel  senti- 
mento raffinato  del  dovere,  nel  coraggio  posto  nell'a- 
dempierìo  e  nella  fedeltà  alle  tradizioni  di  famiglia  ». 

Così  scriveva  nelV inverno  del  1793  da  un  ricovero 
del  Piccolo  San  Bernardo  un  nobile  ufficiale  savoiardo, 
mentre  difendeva  il  Piemonte  contro  le  soldatesche  ne- 
miche, le  quali  gli  avevano  devastato  il  castello  avito  e 
costretto  ali* esilio  la  moglie  ed  i  figli. 

Gli  italiani  d*oggi  sono  una  razza  antica  e  fine,  ed 
ctncKessi  dicono  fieramente  al  nemico  :  finché  non  ci 
avrete  tolta  la  vita  e  strappata  la  lingua,  noi  preferire- 
mo Vonore  a  tutto;  perchè  noi  sappiamo  che  la  vera 
vita  consiste  nelV adempimento  del  dovere  e  nel  conse- 


—  314  — 

gnarc   intatto   ai  figli   il   retaggio  di   tradizioni  nazionali, 
di   libertà    e   di   indipendenza    tramandatoci   dagli   avi   a 
prezzo  di  tanti  sacrifici. 
(12  novembre    1917). 


Dicono  i  nemici  agli  italiani,  sperando  di  trovare 
un'eco  in  cuori  deboli  :  «  Noi  veniamo  a  salvarvi  dalla 
tirannide  inglese.  Noi  non  combattiamo  contro  di  voi, 
ma  contro  chi  vuole  asservirvi  ad  un  impero  di  egoisti 
e  di  mercanti,  il  quale  copertamente  mira  al  dominio 
universale  ». 

//  discorso  pronunciato  da  chi  dovette  essere  caccia- 
to a  viva  forza  dalla  mala  signoria  del  Lombardo-Ve- 
neto, da  chi  opprime  polacchi  e  francesi,  danesi  e  ro- 
meni, czechi  e  ruteni,  da  chi  ha  steso  le  unghie  grifa- 
gne sul  Belgio  e  sulla  Serbia  ha  un  suono  falso.  Ma  sup- 
pone anche  che  gli  italiani  siano  degli  smemorati,  i 
quali  non  ricordino  che  da  pia  di  quattrocento  anni  l'In- 
ghilterra  si  è  ritirata  dal  continente  d'Europa  e  com- 
batte solo  per  impedire  all'Europa  di  cadere  sotto  il 
dominio  e  la  tirannia  di  uno  Stato  solo  prepotente.  Ha 
combattuto  contro  la  Spagna  di  Filippo  II,  contro  la 
Francia  di  Luigi  XIV  e  di  Napoleone,  e  combatte  oggi 
contro  i  sogni  di  monarchia  universale  di  Guglielmo  II. 
E  così  combattendo  salva  sé  stessa  e  la  civiltà  del  mon- 
do. L'Inghilterra,  con  la  sua  flotta,  ha  serbato  la  Sarde- 
gna alla  Casa  di  Savoja,  la  Sicilia  ai  Borboni,  quando 
i  Borboni  rappresentavano  un'idea  nazionale,  ha  resa 
possibile  la  vittoriosa  riscossa  della  Spagna  contro  Na- 
poleone. Occupò  le  Isole  Ionie,  per  restituirle  volonta- 
riamente alla  Grecia.  L'Inghilterra  vuole  avere  le  mani 


—  315  — 

nette  in  Europa,  perchè  essa  non  è  un  impero.  Essa  è 
una  società  di  molte  nazioni,  libere  ed  indipendenti, 
unite  da  legami  morali,  sciolte  da  qualsiasi  obbligo  di 
tributi  e  di  servizio  militare  verso  la  madrepatria.  Ed 
una  nazione  siffatta,  la  quale  pone  ogni  studio  nel  non 
imporre  alcun  obbligo  alle  consorelle  le  quali  vivono 
sotto  la  protezione  della  sua  bandiera,  dovrebbe  desi- 
derare di  asservire  noi,  italiani  e  francesi,  al  suo  gfogo? 

(12  novembre    1917). 

*** 

«  Guardatevi  dall'Inghilterra  e  dagli  Stati  Uniti  »  — 
dicono  i  tedeschi  ed  i  loro  amici  — ;  «  guardatevi  da 
alleati,  i  quali  mirano  ad  arricchire  colla  guerra,  a  di- 
ventare padroni  di  tutta  la  flotta  mercantile  del  mondo, 
creditori  vostri,  vostri  fornitori  e  padroni  ».  E  trovano 
ascolto  in  tutti  coloro  i  quali  disprezzano  gli  ideali  e  ri- 
tengono che  le  lire,  i  soldi  ed  i  denari  Steno  le  sole 
cose  reali  esistenti  nel  mondo,  e  che  la  guerra  presente 
sia  in  fondo  una  cosa  che  non  ci  riguarda,  poiché  si 
tratta  di  una  lotta  fra  Inghilterra  e  Germania  per  il  do- 
minio economico  del  mondo. 

Se  la  guerra  fosse  stata  voluta  per  arricchire  uno  dei 
contendenti  sarebbe  una  cosa  infame.  Ma  abbietto  è 
invece  il  pensiero  di  chi  ad  un  fatto  così  solenne  dà  una 
causa  così  bassa.  Forse  la  Germania  assalitrice  sperava 
di  fare  un  buon  affare  con  la  rapidità  della  vittoria  e 
la  enormità  delle  taglie  sperate  dal  vinto.  Ma  gli  assa- 
liti, ma  coloro  che  mossero  in  loro  aiuto,  quale  speran- 
za di  arricchimento  potevano  mai  avere?  Sapeva  l'In- 
ghilterra che  avrebbe  profuso  tesori,  che  si  sarebbe  im- 
poverita,  che  avrebbe  dovuto  alienare  le  sue  ricchezze 


—  316  — 

investite  all'estero;  sanno  gli  Stati  Uniti  che  la  guerra 
costerà  loro  centinaia  di  miliardi,  di  gran  lunga  più  dei 
più  grandi  profitti  sperabili  con  le  forniture  di  guerra. 
Potevano  contemplare  indifferenti  lo  schiacciamento  del 
Belgio  e  della  Francia.  Non  vollero,  a  prezzo  di  gravi 
danni  economici,  perchè  i  popoli  sani  sanno  che  la  ric- 
chezza è  nulla  quando  Vonore  è  perduto. 

(12  novembre    1917). 

Italiani!  Le  generazioni  che  nei  secoli  ci  precedet- 
tero, che  a  poco  a  poco  fecero  riemergere  dalla  inon- 
dazione barbarica  del  primo  medio  evo  le  antiche  pro- 
fonde masse  italiche,  guardano  a  noi  e  ci  scongiurano 
di  non  perdere  in  un  istante  di  debolézza  il  frutto  di 
tanti  sforzi,  di  così  lunghe  aspirazioni,  di  martirii  così 
atroci.  Guardano  a  noi  i  lombardi  che  sconfissero  l'im- 
peratore tedesco  che  aveva  cosparso  di  sale  il  suolo 
della  fiera  Milano.  Guardano  a  noi  i  piemontesi  di  Pie- 
tro Micca  che  resistettero  ai  tentativi  di  dominazione 
universale  di  Luigi  XIV  e  di  Napoleone.  Guardano  a 
noi  i  martiri  delle  galere  borboniche,  gli  impiccati  di 
Belfiore.  Di  sotto  alla  terra  recentissima  guardano  a  noi 
i  giovani  che  sulle  Alpi  Trentine,  sul  Carso  petroso,  nei 
tanti  luoghi  santi  oramai  nelle  nostre  memorie,  hanno 
dato  il  loro  sangue  per  compiere  il  risorgimento  nazio- 
nale. E  tutte  queste  voci,  vecchie  di  secoli  e  fresche  di 
ieri  dicono  :  Italiani,  tenete  fermo,  che  l'Italia  vivrà 
solo  se  i  suoi  figli  oggi  avranno  un  cuore  di  bronzo! 

(17  novembre    1917). 


—  317  — 

Sempre,  ma  in  special  modo  in  tempo  di  guerra,  lo 
Stato  deve  rendere  giustizia  a  tutti;  e  procurare  che  le 
derrate  necessarie  alla  vita  siano  distribuite  imparzial- 
mente ed  a  chi  ne   ha  più   bisogno. 

Ma  abbiamo  noi  sempre  riflettuto  abbastanza  che 
la  giusta  distribuzione  non  si  fa  da  se;  e  che  è  inutile 
ed  ingiusto  accusare  il  governo,  seminare  il  malconten- 
to, scrivere  lettere  scoraggianti  ai  figli,  ai  parenti,  agli 
amici  i  quali  combattono  per  noi  in  campo,  se  non  si  è 
fatto  tutto  il  possibile  per  ridurre  al  minimo  le  nostre 
pretese  e  per  prestare  la  più  fervida  collaborazione  af- 
finchè i  pochi  bisogni  possano  essere  soddisfatti?  Lo 
Stato  siamo  noi;  il  governo  è  una  nostra  creatura;  e  la- 
mentarsi del  governo  senza  far  nulla  per  renderlo  mi- 
gliore, è  segno  di  animo  fiacco. 

(18  novembre   1917). 


/  contadini  i  quali  scrivevano  ai  figli  sotto  le  ban- 
diere lamentandosi  del  governo  che  loro  requisiva  il 
grano,  le  bestie  ed  il  fieno;  i  cittadini  che  si  lagnavano 
con  gli  stessi  soldati  per  la  insufficienza  dei  250  o  dei 
500  grammi  di  pane  al  giorno,  pensino  al  triste  effetto 
che  le  loro  lettere  e  i  loro  discorsi  facevano  sull'animo 
dei  combattenti,  disanimandoli  e  facendo  loro  credere 
quasi  che  nell'interno  nessuno  si  curasse  dei  loro  figli, 
delle  loro  mogli,  dei  loro  genitori.  Si  doveva  e  si  deve 
invece  ringraziare  i  soldati  perchè  il  loro  braccio  ha 
consentito  al  contadino  di  seminare  e  di  mietere,  al  ma- 
rinaio  e   al  ferroviere   di   trasportare    i   milioni  di   quin- 


—  318  — 

tali  di  frumento  necessari  per  far  vivere  la  popolazione. 
Dove  il  nemico  giunge,  il  contadino  deve  lavorare  per 
mantenere  l'aggressore  ed  a  lui  la  razione  assegnata  è 
di  fame   vera. 

Nei  territori  occupati  dai  nemico  più  non  giungono 
derrate  dall'estero.  Quale  spaventosa  decimazione  di 
donne,  di  fanciulli,  di  vecchi  non  è  avvenuta  in  Serbia! 

(18  novembre   1917). 

Maestro  di  scuola  elementare,  insegnante  nei  ginna- 
si, nei  licei,  nelle  scuole  tecniche  e  commerciali,  nelle 
università,  ho  fatto  ogni  sforzo  per  fare  intendere  alle 
nuove  generazioni  la  missione  dell'Italia?  Ho  fatto  com- 
prendere ai  ragazzi  ed  ai  giovani  quanto  sforzo  sia  co- 
stato questa  nostra  augusto  patria,  quanto  sangue  sia 
stato  sparso  per  essa,  e  quali  doveri  noi  abbiamo  verso 
il  retaggio  tramandatoci  dai  nostri  genitori?  Abbiamo 
noi  detto  ai  figli  dei  ricchi,  dei  borghesi,  degli  agiati 
che  essi  non  vivrebbero  sicuri  negli  agi  se  i  loro  avi 
non  avessero  condotto  una  vita  dura,  e,  senza  fiatare, 
non  avessero  sacrificato  la  vita  per  il  loro  paese? 

(19  novembre    1917). 

/  profughi  delle  Provincie  friulane  e  venete,  che  oggi 
vediamo  dintorno  a  noi,  in  cerca  di  asilo  nelle  nostre 
città,  desiderosi  di  lavoro  nelle  campagne  ci  dicono  in 
modo  parlante  che  cosa  significhi  l'invasione  del  terri- 
torio nazionale  da  parte  dello  straniero.  Non  più  sol- 
tanto dal  Belgio  e  dalla  Serbia  ci  vengono  le  notizie  dei 
giornali  sulle  sofferenze  dei  popoli  soggetti  al  dominio 
straniero.  Sono  i  nostri  fratelli,   sono  italiani  fieri  e  pa- 


—  319  — 

triotti  i  quali  ci  parlano  di  famiglie  disciolte,  di  vecchi 
e  malati  rimasti  per  l'impossibilità  di  fuggire,  di  madri 
che  cercano  affannosamente  i  loro  bambini.  Volere,  alta 
fronte  ed  all'interno,  che  si  resista  significa  volere  che 
queste  sciagure  abbiano  fine  e  che  ai  nostri  fratelli  siano 
ridate  case  e  famiglie. 

(22  novembre    1917). 

//  nemico  fa  dire  sui  suoi  giornali  e  tenta  di  dire  a 
noi  in  libelli  e  fogli  gittati  nelle  nostre  trincee  e  diffusi 
di  nascosto  :  «  Voi  italiani  combattete  per  gli  altri.  Che 
deve  importare  a  voi  dell'  indipendenza  del  Belgio,  del- 
la questione  dell' Alsazia-Lorena,  delle  colonie  inglesi, 
del  dominio  del  mare,  della  lotta  fra  Serbi  e  Bulgari?  ». 

Ma  gli  italiani  non  combattono  per  gli  altri.  Unendo 
la  loro  causa  a  quella  dei  popoli  alleati,  essi  hanno  ve- 
duto il  pericolo  di  una  dominazione  universale  ed  han- 
no voluto  difendere  la  loro  indipendenza  e  la  loro  na- 
zionalità. Come  i  loro  avi  l'hanno  difesa  contro  Carlo 
Vili,  contro  Luigi  XIV,  contro  Napoleone,  così  oggi  la 
difendono  contro  chi  si  proclama  erede  di  Roma  e  va- 
gheggia di  averci  servi  umili  e  soddisfatti.  Che  cosa 
vale  essere  grandi,  quando  si  è  imbelli?  Meglio  liberi 
e  poveri  che  ricchi  e  vassalli. 

(24  novembre  1917). 

Alcuni  territori  intorno  al  Piave  furono  inondati  di 
acque  per  difendersi  meglio  contro  la  pressione  nemica. 
Così  gli  italiani  ripetono  quanto  gli  inglesi  ed  i  belgi 
hanno  compiuto  attorno  alVYser,  quanto  i  piemontesi 
nel   1859  fecero  nelle  risaie  del  Vercellese  e  del  Nova- 


—  320  — 

rese,  quanto  gli  olandesi  su  vasta  scala  seppero  fare 
per  difendersi  contro  le  soldatesche  del  Duca  d'Alba  e 
di  Filippo  II  :  sommergere  il  proprio  paese  pur  di  non 
vederlo  soggetto  allo  straniero.  Segno  di  animo  forte. 
Ma  difendendo  a  passo  a  passo  il  territorio  nazionale, 
che  i  nostri  padri  con  lavoro  di  migliaia  d'anni  fecero 
emergere  dalla  grande  palude  che  copriva  tutta  la  valle 
padana,  limitando  al  minimo  la  sommersione  delle  terre 
d'Italia,  i  nostri  valorosi  soldati  sanno  di  impedire  la 
distruzione  di  una  delle  più  meravigliose  opere  della 
mano  dell'uomo  :  la  terra  nostra,  che  dopo  di  essere 
stata  creata  dai  nostri  antenati  ci  è  ora  madre  benigna. 

(  25  novembre   1917). 

«  Per  il  lavoratore,  l'impiegato,  il  commerciante,  par 
cifico  ed  inoffensivo,  è  indifferente  vivere  sotto  un  go- 
verno che  si  dica  «  italiano  »  ovvero  porti  un  altro  no- 
me ».  Contro  questo  ragionamento,  che  ci  viene  da 
fonte  nemica  e  che  pretende  di  essere  pratico,  bisogna 
ribattere  :  No,  questa  non  è  soltanto  un'offesa  atroce  al 
sentimento  patrio,  alle  idealità  per  cui  gli  uomini  si  di- 
stinguono dalle  bestie;  ma  è  anche  una  pessima  pra- 
tica. Se  i  nostri  avi  avessero  ragionato  così,  se  non  aves- 
sero combattuto  contro  i  tiranni  interni  e  stranieri,  se 
non  avessero  sostenuto  sforzi  indicibili  per  costituire  l'I- 
talia unita,  il  nostro  paese  sarebbe  ancora  diviso  in 
tanti  staterelli  piccoli,  invidi  e  poveri,  sarebbe  ancora 
immiserito  dalle  dominazioni  straniere;  e  la  nostra  vita 
sarebbe  assai  più  miserabile  di  quella  che  oggi  condu- 
ciamo. La  miseria  è  il  retaggio  di  coloro  che  hanno  l'a- 
nima del  servo,  ha  prosperità  tocca  solo  a  quei  popoli 


—  321  — 

che   se    ne   sono   dimostrati   degni,    offrendo    il   sacrificio 
della  vita  e  degli  averi  per  una  causa  ideale. 

(27  novembre    1917). 

((  L' erede  del  più  grande  impero  del  mondo  »  è  ac- 
corso alla  fronte  italiana,  insieme  con  i  valorosi  soldati 
inglesi,  i  quali,  fronteggiando  il  medesimo  nemico,  dan- 
no pegno  della  solidarietà  che  insieme  stringe  tutte  le 
nazioni  dell'Intesa. 

Ma  chi  è  venuto  fra  noi  è  qualche  cosa  di  più  del- 
l'erede di  un  grande  «  impero  ».  Se  fosse  soltanto  que- 
sto, male  potrebbe  distinguersi  dai  principi  imperiali, 
i  quali  da  anni  minacciano  ai  confini  francesi  ed  italiani 
di  sostituire  il  diritto  brutale  della  forza  alla  legge  della 
giustizia.  Il  principe  di  Galles  è  invece  il  figlio  di  chi 
rappresenta  la  più  grande  confederazione  di  nazioni  li- 
bere che  vi  sia  al  mondo.  Mentre  i  boemi,  gli  slavi  me- 
ridionali, gli  italiani,  i  romeni,  i  polacchi,  i  francesi 
soggetti  al  dominio  austro-tedesco  furono  costretti  dalla 
forza  a  brandire  le  armi  in  difesa  di  una  causa  odiata, 
i  francesi  del  Canada,  i  boeri  dell'  Africa  del  Sud,  gli 
indiani,  i  muori  della  Nuova  Zelanda  accorsero  volonta- 
riamente sotto  le  bandiere  britanniche.  Nelle  cosidette 
colonie  inglesi,  che  sono  in  realtà  nazioni  indipendenti, 
non  vi  è  coscrizione,  né  si  pagano  imposte  per  ordine 
della  madrepatria.  I  soldati  vennero  volontari  a  difen- 
dere l'Inghilterra  minacciata;  l'India  votò  spontanea- 
mente contributi  di  uomini  e  di  sangue.  Questi  sono  i 
nostri  alleati  :  uomini  liberi,  i  quali  insieme  con  noi  vo- 
gliono impedire  V asservimento  del  mondo  ad  un  impero 
militare. 

(30  novembre    1917). 


I  DISFATTISTI  DELLA  VITTORIA 

Non  ci  sono  più  disfattisti  in  Italia.  Od  almeno  sem- 
brano scomparsi.  Dopo  che  già  si  era  delineato  il  ri- 
volgimento delle  sorti  della  guerra,  dopo  la  battaglia 
della  Piave  e  la  seconda  vittoria  della  Marna,  ma  prima 
del  24  ottobre,  i  loro  discorsi  avevano  preso  l'aria  di 
gemiti  sull'immensità  dell'opera  di  ricostituzione  eco- 
nomica, sulla  difficoltà  di  sopperire  al  servizio  dei  de- 
biti di  guerra,  sulla  situazione  favorevole  della  Spagna 
nel  provvedere  all' attuazione  di  grandiosi  programmi 
sociali  col  mezzo  dei  lucri  della  neutralità.  Dopo  la  di- 
struzione militare  dell'Austria  compiuta  dal  nostro  eser- 
cito, le  querimonie  sono  cessate.  Hanno  visto  che  la 
fiducia  della  nuova  Italia  in  sé  stessa  basterà  a  realiz- 
zare qualunque  programma  serio  di  elevazione  intellet- 
tuale ed  economico.  Un  popolo  che  ha  durato  tanta 
fatica  in  quattro  anni  di  guerra,  che  si  è  risollevato  dopo 
Caporetto,  non  può  venir  meno  ai  nuovi  compiti  civili 
che  lo  attendono.  Perciò  i  disfattisti  intervengono  alle 
manifestazioni  nazionali   e  si   sbracciano   a  plaudire. 

Bisogna  stare  in  guardia  contro  i  loro  plausi.  È  la 
nuovissima  tattica  che  essi  adottano  per  rendere  vani 
i  sacrifici  compiuti,  per  distruggere  la  vittoria  conqui- 
stata a  prezzo  di  tanto'  sangue.  Essi  gridano  alle  enormi 
cose  che  l'Italia  nuova  potrà  fare  nel  dopo-guerra  per- 
chè sanno  che  le  cose  enormi  —  non  le  cose  ideali  che 


324 


paiono  assurde  a  chi  fa  i  conti  della  lira,  soldo  e  de- 
naro —  sono  impossibili  e  che  alle  promesse  sconfinate 
seguirà  la  disillusione  ed  il  malcontento.  Non  sperano 
più  di  venir  su  per  il  malcontento  dei  contribuenti  chia- 
mati a  pagare  gli  interessi  dei  debiti  di  guerra;  e  cer- 
cano di  aprirsi  una  nuova  via  al  potere  ed  alla  vendetta 
sfruttando  il  malcontento  di  coloro  che  non  avranno 
saggiato  l'intravveduto  frutto  del  paradiso  terrestre. 
Promettendo  la  felicità  a  tutti  gli  uomini,  la  terra  ai  con- 
tadini, gli  alti  salari  agli  operai,  i  prezzi  bassi  ai  consu- 
matori; e  tutto  ciò  in  breve  tempo;  ed  accusando  i  «  con- 
servatori )),  i  «  capitalisti  »  di  resistere  all'attuazione  dei 
grandiosi  piani  che  la  loro  immaginazione  si  compiace 
di  dipingere  ai  lettori  dei  loro  fogli,  essi  seminano  il 
germe  dell'odio  invece  che  della  cooperazione,  essi  pre- 
parano l'esplosione  del  malcontento  per  il  giorno  in  cui 
si  vedrà  che  nemmeno  1* Italia  unita  può  compiere  in 
breve  ora  i  miracoli  che  sono  soltanto  il  frutto  della  per- 
severanza, della  perizia,  della  buona  volontà  di  tutti, 
della  attuazione  graduale  di  piani  bene  studiati  e  tra- 
dotti in  atto  da  tecnici  esperti. 

Ci  sono  alcuni  strumenti  infallibili  per  scoprire  il 
disfattista,  per  lo  più  consapevole,  almeno  dello  scopo 
suo  finale,  nell'atto  di  esporre  i  suoi  piani  di  palingenesi 
sociale.  Egli  dice  così  :  «  si  è  stampata  una  dozzina  di 
miliardi  di  biglietti  a  corzo  forzoso  per  fare  la  guerra; 
perche  non  si  stamperebbero  uno  o  due  altri  miliardi 
per  compiere  lavori  pubblici  a  favore  degli  operai  di- 
soccupati dopo  la  licenza  dall' esercito  e  dagli  stabili- 
menti ausiliari  e  per  dare  buoi  e  strumenti  di  lavoro, 
insieme  colla  terra  dei  latifondi  e  delle  opere  pie,  ai 
contadini?  ».    Chi   parla   così,    semina   malcontento   e   ri- 


—  325  — 

votazione.  Perchè  invece  di  invocare  i  soli  mezzi  onesti 
per  compiere  il  suo  programma,  che  sono  le  imposte 
ed  i  prestiti,  le  prime  assai  meglio,  oggi,  dei  secondi, 
invoca  un  mezzo  disonesto:  la  stampa  di  biglietti. 
Questa  fu  una  delle  caratteristiche  finanziarie  non  belle 
della  guerra  presente.  Tutti  i  governi  vi  indulsero,  salvo 
in  parte  gli  Stati  Uniti,  più  o  meno  in  proporzioni  supe- 
riori a  quanto  fosse  consigliato  dalla  necessità.  Tutti  i 
governi  furono  deboli  nella  condotta  finanziaria  della 
guerra,  valutando  troppo  timidamente  la  capacità  di 
sacrificio  dei  loro  popoli.  Temettero  di  parlar  franco;  e 
non  chiesero  imposte  a  sufficienza,  neppure  l'Inghil- 
terra :  la  quale  tuttavia,  tra  i  paesi  europei,  seppe  far 
meglio  degli  altri.  Credettero  opportuno  di  non  irritare 
i  popoli  già  chiamati  a  duro  sacrificio  di  sangue,  crean- 
do l'illusione  di  una  ricchezza  monetaria  crescente, 
sgorgante  senza  posa  dai  torchi  delle  officine  carte- 
valori.  Ed  acuirono  il  caro- vi  veri,  ingigantendo,  senza 
necessità,  un  problema  che  la  guerra  sottomarina  e  le 
deficienze  del  tonnellaggio  navale  e  dei  carri  ferroviari 
e  la  mancanza  di  mano  d'opera  agricola  rendevano  già 
abbastanza  grave.  Molta  parte  del  malcontento  popo- 
lare a  cagione  del  caro- vi  veri,  dell' irritazione  dei  red- 
ditieri fissi  contro  i  beneficati  dalla  fortuna  i  quali  pos- 
sono accaparrare  per  sé  la  miglior  parte  delle  derrate 
disponibili  è  dovuta  alla  timidezza  dei  governi  nel  non 
aver  osato  ordinare  imposte  a  sufficienza.  Coloro  che 
oggi  invocano  la  stampa  di  qualche  miliardo  di  più  di 
carta-moneta,  in  sostanza  vogliono  che  i  prezzi  conti- 
nuino a  salire.  Non  paghi  di  vederli  già  così  alti,  vo- 
gliono che  essi  diventino  ancor  più  alti;  cosicché  la 
gente   minuta   dica  :    a  che   cosa  ha  servito   la  pace,    se 


—  326  — 

non  è  nemmeno  stata  buona  a  far  ribassare  i  prezzi? 
E  questo  è  puro  disfattismo.  Perciò  quando  si  ode  ta- 
luno chiedere  a  gran  voce  l'attuazione  di  un  programma 
grandioso  bisogna  replicare:    con  quali  mezzi? 

£  con  quali  uomini?  fa  d'uopo  soggiungere.  Di  pro- 
grammi grandiosi  non  fu  mai  difetto  in  Italia.  Ne  eb- 
bimo  a  sacchi  ed  a  sporte.  Ogni  candidato  al  Parla- 
mento, ogni  pubblicista  ha  avuto  in  tasca,  dall'avvento 
della  Sinistra  al  potere  in  poi,  il  piano  beli* e  pronto 
per  rigenerare  l'Italia.  Giornali,  riviste,  libri  ne  sono 
pieni.  Se  poco  si  è  operato  in  confronto  del  molto  pro- 
gettato, la  colpa  è  in  gran  parte  la  mancanza  di  uomini 
atti  a  concepire  piani  sensati  ed  a  tradurli  in  realtà. 
Questo  è  il  vero  limite  infrangibile  alla  rinnovazione  ci- 
vile ed  economica  della  nuova  nuova  Italia.  Per  rinno- 
varsi e  progredire  bisogna  prima  sapere.  È  vero  che 
le  cose  si  imparano  facendole.  In  parte  fu  così  per  la 
guerra.  Si  imparò  a  farla  bene,  a  durarla  ed  a  vincerla, 
facendola,  ricevendo  dei  colpi,  ritirandosi  ed  avanzando 
a  vicenda.  Anche  nella  vita  civile  certe  cose  si  impa- 
rano facendole.  Molte  no.  Non  si  può  lasciar  fabbri- 
care un  ponte,  costruire  una  ferrovia,  risanare  una  pa- 
lude, imbrigliare  le  acque  delle  montagne  a  qualunque 
uomo  di  buona  volontà,  pensando  :  imparerà  facendo. 
Probabilmente  non  imparerà  nulla  e  intanto  sprecherà 
milioni.  Sarebbe  assurdo/  ricominciare  ogni  volta  da 
Adamo  ed  Eva,  quando  ci  sono  libri,  ci  son  scuole, 
ci  sono  esperienze  vecchie,  ci  sono  principi  noti,  i 
quali  ci  possono  trarre  d'impaccio.  Il  che  vuol  dire  che 
la  via  più  corta  per  rialzare  le  condizioni  economiche 
del  nostro  paese,  quella  che  può  dare,  dopo  un  pe- 
riodo    di      aspettazione,    i   frutti     più     grandi,   è    ancora 


—  327  — 

quella  della  diffusione  dell'istruzione.  Istruzione  di  ogni 
sorta  :  scientifica  pura,  tecnica,  professionale.  Non  è 
un'impresa  direttamente  ed  immediatamente  produttiva, 
l'impiegare  centinaia  di  milioni  in  scuole;  ma  è  forse 
quella  più  sicuramente  redditizia  in  un  non  lungo  vol- 
gere d'anni.  Ed  il  reddito  cresce  in  modo  cumulativo. 
Una  nuova  generazione  più  colta  non  si  contenta  per 
i  suoi  figli  del  livello  raggiunto;  ma  vuole  attingere  a 
vette  più  elevate.  Né  per  scuole  si  intenda  la  sola  aula 
scolastica.  Non  ci  sarebbero  oggi  abbastanza  inse- 
gnanti per  attuare  d'un  colpo  un  vasto  programma  sco- 
lastico. Non  si  ripeta  l'errore  del  ministero  dell'istru- 
zione pubblica,  il  quale  invitò  le  facoltà  di  belle  lettere 
a  fargli  proposte  per  la  istituzione  di  cattedre  di  lette- 
ratura inglese,  in  segno  di  simpatia  ai  nostri  alleati 
anglo-  sassoni.  Dimenticava  quel  ministero  che,  per  co- 
prire una  cattedra,  ci  vuole  un  insegnante  che  sappia; 
e  che  se  si  trovano  molti  camerieri  di  albergo  che  sanno 
parlare  inglese,  non  esistono  oggi  cultori  di  letteratura 
inglese  in  Italia,  salvo  pochissimi,  quasi  tutti  già  prov- 
veduti di  cattedra;  e  che  quindi  bisogna,  prima  di  co- 
prire le  auspicate  nuove  cattedre,  formare  gli  inse- 
gnanti. Impresa  non  facile  e  non  rapida.  Fortunata- 
mente non  si  impara  solo  nelle  aule  scolastiche.  Ma- 
gnifica scuola  di  disciplina  morale,  che  è  il  fondamento 
di  ogni  seria  cultura,  fu  la  trincea.  Magnifiche  scuole 
tecniche  saranno  le  fabbriche.  Io  non  troverei  strano 
che,  invece  di  pagare  sussidi  di  disoccupazione  agli 
operai  licenziati  dalle  fabbriche  di  munizioni  ed  ai  sol- 
dati che  non  trovassero  immediatamente  occupazione, 
il  governo  pagasse  un  sussidio  di  tirocinio  nelle  fabbri- 
che  medesime,    i   cui   dirigenti   volessero  tentare  la  tra- 


—  328  — 

sf  orinazione  in  industrie  di  pace.  Per  qualche  mese  la 
mano  d'opera  sarebbe  in  parte  a  carico  dell'erario,  in 
guisa  da  rendere  meno  costoso  e  rischioso  il  periodo 
di  trasformazione  agli  industriali.  Il  governo  dovrebbe 
garantirsi  che  quei  mesi  siano  effettivamente  utilizzati 
per  la  rieducazione  tecnica  degli  operai  e  dei  soldati. 
In  certi  rami  dell'ingegneria,  per  cui  in  Italia  mancano 
scuole  specializzate,  converrebbe  moltiplicare  le  borse 
di  studio  a  favore  dei  giovani  ufficiali,  aventi  certi  re- 
quisiti di  studio,  i  quali  desiderassero  passare  qualche 
semestre  all'estero.  E  frattanto  apparecchiare  le  scuole 
in  cui  essi  dovrebbero,  al  ritomo,  essere  utilizzati  co- 
me insegnanti  ed  i  piani  dei  lavori,  a  cui  potrebbero 
essere  addetti.  Un  gruppo  di  industriali  .si  è  già  impe- 
gnato a  trovar  lavoro  nei  propri  stabilimenti  a  quegli 
ufficiali  mutilati  che  avessero  seguito  certi  corsi  di  istru- 
zione professionale.  Vi  è  in  Italia  e  fuori  una  vera  fame 
di  uomini  capaci  a  fare  le  cose  umili,  modeste  e  mag- 
giori. Lo  spettro  della  disoccupazione  è  una  chimera, 
quando  non  la  si  provochi  con  una  condotta  dissennata 
e  precipitosa.  Non  vi  è  un  limite  fisso  al  lavoro  che  vi 
è  da  fare  in  un  dato  paese  in  un  dato  momento.  Prima 
viene  il  saper  fare.  Poi  quel  che  si  è  saputo  fare  si 
vende  sicuramente.  In  un  dato  momento  un  contadino 
pigro  ed  ignorante  fa  produrre  poco  il  campo,  perchè 
adopera  un  aratro  di  legno,  disprezza  i  concimi  chimici 
ed  utilizza  malamente  il  letame.  Costui  va  scalzo.  Egli 
ed  il  calzolaio  del  villaggio,  che  ha  una  clientela  com- 
posta di  contadini  scalzi,  conducono  una  vita  misera- 
bile. Se  quel  contadino  profitta  delle  lezioni  del  catte- 
dratico ambulante  di  agricoltura  e  dell'esempio  del  vi- 
cino più  intelligente   e   lavora  più   e   meglio   il  terreno, 


—  329  — 

con  un  aratro  di  ferro,  voltorecchio,  usando  concimi 
chimici  e  utilizzando  convenientemente  il  suo  letame, 
forsechè  il  suo'  lavoro  più  intenso  ed  intelligente  non 
ha  creato  da  se  il  suo  sbocco?  Egli  sentirà  il  bisogno 
di  scarpe  ed  il  calzolaio  gliele  produrrà  in  cambio  del 
suo  frumento,  delle  sue  ortaglie,  del  suo  vino,  delle  sue 
uova.  Contadino  e  calzolaio  staranno  meglio.  La  ca- 
pacità crea  lavoro  ed  il  lavoro  crea  il  suo  sbocco.  I  di- 
sfattisti sperano  di  creare  malcontento,  spargendo  l'idea 
che  lavoro,  ricchezza,  benessere  possono  essere  un 
frutto  diretto  della  vittoria,  ostacolato  solo  dall'ingor- 
digia e  dall'egoismo  delle  classi  dominanti.  Ma  la  gente 
vittoriosa  d'Italia,  che  sa  di  essersi  meritata  la  vittoria 
con  le  sue  fatiche,  colle  sue  rinuncie,  col  suo  sangue, 
non  bada  ai  falsi  profeti  e  sa  che  nessuna  meta  le  è 
irraggiungibile,  purché  essa  la  voglia  e  si  disponga  a 
fare  lo  sforzo  necessario  per  giungere  alla  meta.  Essa 
è  pronta  a  fare  lo  sforzo.  Spetta  al  governo  di  appre- 
stare le  condizioni,  di  creare  l'ambiente  in  cui  lo  sforzo 
potrà    essere    fatto. 

(Dalla  Rivista  di  Milano,   20  dicembre   1918). 


CONTRO  LA   SVALUTAZIONE 
DELLA  VITTORIA 

Si  è  andata  purtroppo  determinando  nella  opinione 
pubblica  italiana  una  tendenza  a  svalutare  i  risultati  rag- 
giunti colla  guerra  ed  a  trasformare  una  grande  vit- 
toria in  una  sconfitta.  Peggio  :  si  diffonde,  anche  per 
opera  di  giornali  interventisti,  l'impressione  che  l'Italia 
esca  male  dalla  guerra,  rimpicciolita  in  un  mondo  di 
giganti,  senza  alleati,  senza  colonie,  senza  possibilità 
di  sviluppo  economico.  Coloro  che  non  riuscirono  a 
far  sconfiggere  l'Italia  in  campo  dal  nemico,  oggi  fanno 
ogni  sforzo  per  persuadere  gli  Italiani  che  la  vittoria 
degli  alleati  fu  una  grande  sventura  per  noi.  Si  vuole 
ad  ogni  costo  creare  l'atmosfera  della  sconfitta,  affinchè 
da  essa  nascano  il  dissolvimento,  la  occasione  di  ven- 
dette personali  e,  per  taluni,   la  palingenesi  sociale. 

Sovratutto  la  sconfitta  della  Germania  e  la  vittoria 
del  mondo  anglosassone  sembrano  disastrose  per  gli 
antichi  neutralisti  e  per  i  socialisti. 

Come  potrà  —  osserva  taluno  —  essere  ricostruito 
l'equilibrio  europeo,  il  quale  solo  ci  consentiva  di  fare 
una  politica  estera?  Erano  due  imperialismi,  quello  te- 
desco e  quello  inglese,  «  per  il  conquisto  dei  mari  e 
delle  materie  prime,  gli  è  a  dire  per  l'egemonia  del 
mondo  »;  e  noi  commettemmo  insanamente  Terrore  fu- 
nesto di  aiutare  l'uno  a  soprrimere  l'altro,  ed  oggi  noi 


—  332  — 

siamo  inermi  di  fronte  a  quell'uno  che  davvero,  per  la 
prima  volta  nella  storia  dei  mondo,  domina  il  mondo. 
Altri,  il  quale  pretende  alle  grandi  visioni  storiche,  in- 
tona il  finis  Europae,  la  fine  della  civiltà  dell'Europa 
moderna,  quale  era  stata  foggiata  da  Atene  e  da  Roma, 
da  Cristo  e  dai  Germani.  Ma  neppure  l"«  alleanza  atlan- 
tica »,  conquistatrice  oggi  della  signoria  sul  mondo,  è  si- 
cura di  se.  Che  le  infinite  moltitudini  oppresse,  dall'Ir- 
landa, dall' Egitto,  'dall'India,  domani  dalla  Cina  e  dalle 
terre  musulmane,  tendono  l'orecchio-  alle  voci  di  rinno- 
vaménto le  quali  vengono  dalla  Russia.  Leviathano 
e  Spartaco,  barbarie  dai  denti  d'oro  e  barbarie  lacera, 
si  appprestano,  con  i  nervi  tesi,  all'ultimo  conflitto,  da 
cui  nascerà  il  secondo  medioevo  dejl' Europa.  Ne  i 
nostri  occhi  hanno  speranza  di  potere,  uscendo  dalla 
notte  buia,  contemplare  l'alba  di  un  nuovo  rinasci- 
mento. 

*** 

Ben  a  ragione  avremmo  dovuto  gemere  sotto  l'in- 
cubo di  somiglianti  visioni  apocalittiche  se  vittoria  piena 
avesse  arriso  ad  una  Germania  favorita  dal  nostro  in- 
tervento ai  suoi  fianchi  o  dalla  nostra  neutralità;  poiché 
avrebbe  vinto  un  tipo  di  governo,  al  quale  noi  repu- 
gniamo e  che  i  più  veggenti  tra  i  tedeschi  considera- 
vano, fin  da  prima  della  sconfitta,  cagione  della  bassa 
educazione  politica  del  loro  popolo,  della  sua  assoluta 
abdicazione  in  mano  di  una  casta  burocratica,  della 
sua  incapacità  a  creare  in  se  stesso  valori  spirituali  degni 
di  reggere  il  mondo.  Ahimè!  perchè  dimentichiamo  così 
presto  le  lezioni  della  esperienza  e,  appena  usciti  dal 
pericolo  tremendo   di  diventare   i   vassalli   di  un   impero 


—  333  — 

fondato    sulla    esaltazione    di    una    casta    eletta,    sul    di- 
ritto divino  di.  essa   a  guidare  e  ad  organizzare  le  plebi 
del  suo   paese   e   quelle  componenti   i   popoli   forestieri, 
ci  spaventiamo  dei  risultati  necessari  e  sommamente  be- 
nefìci della  vittoria?  Di  ciò  han  colpa,   insieme   ai   fogli 
della    borghesia    neutralista,    quelli    della    borghesia    pa- 
triottica;   i   quali,    perchè    a  noi   viene   negato   un   nostro 
diritto,    non   si    attardano    ad    indagare    le    cagioni    parti- 
colari  del   rifiuto,    e   proclamano   l'ignominia   della  pace 
di   Versaglia   e   gridano   alla   nuova   tirannia   dei   mari   e 
delle  materie  prime,  la  quale  sarà  esercitata  dalla  santa 
alleanza   dei   popoli   anglo-sassoni.    Fanno    il    gioco,    co- 
desti  fogli   patriottici,   della   stampa   neutralista   e   comu- 
nista,   la  quale   ha   interesse   a  persuadere    i   popoli   che 
la  guerra  fu   iniziata   per  turpi   motivi   di   dominio   eco- 
nomico e  si  chiude  con   la  appropriazione   di  beni  ma- 
teriali a  prò  del  vincitore;  e  vuole  convincere  altresì  gli 
italiani  che  per  essi  non  vi  ha  salvezza  fuorché  nell'al- 
talena  tra  Francia     e     Germania,     tra     alleanze     anglo- 
russe e  tedesco-magiare,   fuorché  nella  contrapposizione 
a  mano  armata  fra   Inghilterra  marinara  ed   Europa  mi- 
litare   guidata   dalla    Germania.    La    parentela    spirituale 
tra  Bismarck.   Marx   e   Lenin   è   più   profonda   assai   che 
non  si   creda  :    credenti   tutti   tre   nella   pura   forza   bruta 
del    braccio,    nella    conquista    del    potere    politico    colla 
forza  delle  armi,  nell'irrisione  ai  motivi  spirituali  d'azio- 
ne,    nell'ossequio     al    ventre.     La   guerra  ci   aveva  fatti 
uscire,     con     la     vittoria     di  parte  inglese   e   nostra,   da 
questa   età   buia,    che    ancor   s'attarda    sulla   Russia,    ed 
ora  codesti  laudatori  dei  tempi  andati  ci  voglion  far  cre- 
dere che  noi  abbiamo  combattuto  per  una  illusione,   ed 


—  334  ~ 

abbiamo   invece   ribadito  su   di  noi  le  catene  della  ser- 
vitù dei  mari  e  delle  materie  prime. 


No.  La  servitù  delle  materie  prime  è  una  chimera 
la  quale  rende  affannoso  il  sonno  degli  uomini  nell'alba 
della  pace,  quando  i  vincoli  creati  della  guerra  ancor 
tardano  ad  essere  infranti.  Se  il  comunismo  vincesse 
nel  mondo,  ferro  e  carbone,  frumento  e  cotone,  lana 
e  pelli  diventerebbero  davvero  oggetto  di  negoziati  di- 
plomatici; ed  i  Bismarck  dell'avvenire  potrebbero  illu- 
dersi di  costringere  con  quei  mezzo  le  nazioni  recalci- 
tranti alla  resa.  Ma,  sino  a  quando  il  trionfo  della  domi- 
nazione comunistica  non  accada,  fino  a  quando  di 
giorno  in  giorno  la  bardatura  di  guerra  negli  Stati  Uniti 
rumorosamente  cade  a  terra  e  gli  Hoover  annunciano 
il  lor  ritomo  a  vita  privata,  la  paura  di  rimanere  privi 
di  materie  prime  resterà  un  fatto  transitorio  ed  una  chi- 
mera storica,  della  quale  fra  qualche  anno  noi  ride- 
remo. Per  secoli,  per  millenni,  popoli  forniti  solo  delle 
loro  braccia  e  della  loro  intelligenza,  dimoranti  in 
luoghi  sterili,  sprovveduti  di  miniere  e  di  ampie  pra- 
terie, ateniesi,  cartaginesi,  romani,  veneziani,  fioren- 
tini, olandesi,  seppero  arricchire  con  le  materie  prime 
altrui.  Sempre,  in  passato  fin  dove  rimontano  i  ricordi 
storici,  le  materie  corsero  volontieri  verso  i  popoli  che 
dalla  loro  intelligenza  e  dalla  loro  perizia  eran  fatti  abili 
ad  acquistarle  a  più  alto  prezzo  dai  vicini  incapaci  e 
pigri  :  e  vorremmo  che  d'un  tratto,  solo  per  far  comodo 
a  chi  gioisce  di  proclamare  la  sconfitta  di  noi  vittoriosi, 
il    processo    logico    e    ferreo    dell'economia    si    capovol- 


—  335  — 

gesse?  Ben  fanno  i  nostri  negoziatori,  finche  dura  an- 
cora il  comunismo  di  guerra,  ad  assicurare  al  paese  con 
trattati  precisi  la  fornitura  di  alimenti,  di  carboni,  di  co- 
tone, di  lana.  Ma  assai  più  efficacemente  opereranno 
ad  assicurare  agli  italiani  la  libertà  di  poter  contrattare 
liberamente  con  gli  inglesi,  con  gli  americani  e  con  le 
genti  di  qualsiasi  contrada,  la  facoltà  di  comprare, 
senza  divieti  di  governi,  senza  disparità  di  trattamento, 
ciò  di  cui  avremo  bisogno.  Basta  questa  sicurezza,  per 
guardare  fidenti  all'avvenire.  Poiché  la  vittoria,  che  fu 
nostra  sui  campi  di  battaglia  per  virtù  di  uomini,  sarà 
nostra  nelle  gare  della  pace  per  la  perizia  dei  nostri 
artefici.  Facciasi  valente  il  popolo  nelle  arti  della  pace; 
e  le  materie  prime  spontaneamente  verranno  a  noi,  in- 
vece che  ai  lidi  di  Francia,  d'Inghilterra  o  di  Germania, 
e  le  nostre  navi  correrranno  i  mari,  fatti  sicuri  dalla  po- 
lizia esercitata  dalle  potenze  marinare. 


Sempre  fu  necessario  che  la  polizia  dei  mari  fosse 
esercitata  da  una  sola  potenza  o  da  un  gruppo  di  po- 
tenze alleate.  Il  mediterraneo  fu  libero  ai  naviganti, 
quando  Roma  ebbe  distrutto  i  nidi  di  pirati,  ed  il  suo 
naviglio  dominò  indisturbato  dall'Ellesponto  alle  colon- 
ne d'Ercole.  Di  nuovo,  ofopo  il  primo  tumulto  delle  in- 
vasioni barbariche,  dal  VI  all'xi  secolo,  il  mediterraneo 
fu  sede  di  traffici  perchè  ridivenuto  un  lago  bizantino. 
Quando  Bisanzio,  dopo  lotte  secolari  e  grandiose,  ar- 
retrò dinnanzi  all'invasione  araba  e  turca,  Venezia  e 
Genova  discordi  furono  impotenti  a  mantenere  la  sicu- 
rezza dei     mari;     ne      meglio    vi    riuscirono   Francia  e 


—  336  — 

Spagna,  perennemente  in  lotta  tra  loro.  Sol  dopo  la 
vittoria  di  Trafalgar,  ed  il  dominio  del  mare  conqui- 
stato dall'Inghilterra,  ridivennero  veramente  liberi  i 
mari  ai  naviganti;  e  ad  uno  ad  uno  i  nidi  barbareschi  di 
pirati  e  quelli  di  corsari  del  Mar  delle  Antille  furono 
schiacciati  per  sempre.  Negare  che  il  dominio  dei  mari 
da  una  sola  o  da  un  gruppo  di  potenze  sia  necessario 
per  creare  la  vera  libertà  dei  mari  è  ipocrisia  stolida 
e  vana.  Che  cosa  sarebbe  accaduto  di  noi,  quando  an- 
cora eravamo  neutrali,  se  davvero  le  flotte  germaniche 
e  franco-inglesi  si  fossero  tenute  in  rispetto,  e  nessuna 
avesse  osato  solcare  tranquillamente  i  mari  a  spazzarli 
dalla  bandiera  nemica?  I  mari  sarebbero  stati  aperti  solo 
a  corsari  ed  a  sottomarini;  e  le  navi  mercantili  sareb- 
bero rimaste  alla  lor  mercè  senza  difesa.  Neppure  una 
tonnellata  di  carbone  avrebbe  potuto  salpare  dai  lidi 
d'Inghilterra  per  Genova  e  per  Napoli;  ed  i  noli  altis- 
simi del  tempo  della  guerra  che  fu,  sarebbero  parsi 
un'inezia  in  confronto  a  quelli  che  per  aver  frumento 
dall'America  avremmo  dovuto  pagare  nella  guerra  da 
corsari,  che  non  fu  per  merito  della  flotta  britannica  la 
quale  rinchiuse  le  navi,  tedesche  nei  loro  porti,  e  della 
flotta  italo -franlcia  che  costrinse  le  navi  austriache  ali  ri- 
poso di  Pola.  Pura  ipocrisia  è  questo  vociferare  delle 
gazzette  contro  il  dominio  dei  mari  delle  potenze  mari- 
nare; poiché  in  tempo  di  pace  è  urgente  che  a  qual- 
cuno sia  affidata  la  polizia  delle  acque  contro  i  mal- 
viventi, ed  in  tempo  di  guerra  è  infantile  supporre  che 
la  potenza  provveduta  di  naviglio  più  forte  dell' avver- 
sario non  si  giovi  della  sua  potenza  per  distruggere 
questo  ed  esercitare  incontrastato  il  dominio  dei  mari. 
Dunque  è  cosa  certa  che   gli  odierni  piagnoni  sul  con- 


—  337  — 

quisto  dei  mari  operato  dall'  «  alleanza  atlantica  » 
versan  lagrime  di  coccodrillo  ed  avrebbero  voluto  il  con- 
quisto dei  mari  a  prò  della  Germania.  In  tempo  di  pace 
il  dominio  britannico'  dei  mari,  come  prima  quello  bi- 
zantino e  romano,  non  ha  mai  impedito  alle  navi  nostre 
di  portar  lungi  la  bandiera  italiana,  quando  noi  era- 
vamo capaci  di  darle  alimento  di  traffici  lucrosi.  In 
tempo  di  guerra,  la  scelta  non  è  fra  dominio  e  libertà 
dei   mari,    ma   fra  questo   o   quel   dominio. 


Sicché  si  torna  al  medesimo  punto  :  la  pace  di  Ver- 
saglia,  la  quale  non  toglierà  a  nessuno,  che  se  le  sappia 
meritare,  le  materie  prime  utili  alla  sua  operosità  e  darà 
il  dominio  dei  mari  alla  bandiera  anglo-sassone,  è  mi- 
gliore o  peggiore  della  pace  di  Berlino,  la  quale  avrebbe 
dato  i  mari  e  le  materie  prime  ad  un'Europa  organiz- 
zata dalla  classe  governante  tedesca?  Qui  è  il  vero,  il 
grande  problema.  La  guerra  non  fu  combattuta  per  la 
vittoria  di  una  o  di  un'altra  avidità  di  ricchezze  e  di 
dominio.  Avremmo  potuto  dinanzi  ad  essa  rimanere  in- 
differenti. Fu  combattuta  invece  tra  due  principi,  tra 
due  metodi  di  usare  le  ricchezze  del  mondo  e  di  con- 
vertirle a  beneficio  economico  e  a  vantaggio  spirituale 
dei   popoli. 

L*un  metodo,  che  nacque  modernamente  in  Inghil- 
terra ed  a  faticai  si  estese  nella  parte  del  mondo  gover- 
nata dalla  razza  anglo-sassone  —  ne  dappertutto  ha  po- 
tuto ancora  affermarsi,  —  dice  che  le  ricchezze  della 
terra  sono  dei  popoli  che  l'abitano,  di  quelli  che  vi 
possono     giungere    e   dimostrino     maggior     capacità     di 


—  338  — 

utilizzarle,  e  di  quanti  altri  sul  mondo  ne  facciano,  pa- 
gandone il  valsente,  seria  richiesta.  Sono  i  popoli  stessi, 
che,  attraverso  alla  dura  scuola  della  esperienza  e  dei 
liberi  dibattiti,  ubbidendo  alla  legge  che  essi  medesimi 
si  sono  creata,  esaltando  ai  sommi  fastigi  ed  a  volta 
a  volta  buttando  nella  polvere  gli  uomini  che  ne  incar- 
nano le  passioni  e  le  aspirazioni,  si  rendono  via  via  ca- 
paci a  governar  sé  stessi,  a  lavorare,  ad  arricchirsi,  a 
grandeggiar  nel  pensiero. 

L'altro  metodo,  che  non  è  tedesco  per  indole  sua 
connaturata,  ma  era  diventato  tedesco  nella  Germania 
militare-comunista  forgiata  da  Bismarck  e  da  Marx,  pro- 
clama la  incapacità  dei  popoli  a  governare  liberamente 
se  stessi,  sbagliando  ed  inciampando,  rizzandosi  e  cor- 
reggendosi; ed  affida  il  compito  ad  alcuni  eletti,  unti 
del  Signore,  come  l'imperatore,  il  cancelliere  e  la 
schiera  dotta  e  perita  dei  funzionari,  dei  professori,  dei 
capi  dello  stato  maggiore,  dei  grandi  proprietari  della 
Pomerania  e  della  Prussia  orientale  e  degli  imprendi- 
tori dell'industria  pesante;  ovvero  dittatori  in  nome  del 
proletariato,  nella  repubblica  che  Marx  auspicava  per 
la  Germania  e  Lenin  creò  nella  Russia.  Terribile  sa- 
rebbe invero  stata  la  sorte  dei  popoli  «  inferiori  »,  come 
era  riguardato  l'italiano,  se  codesto  tipo  di  governo 
fosse  rimasto  vittorioso;  perchè  essi  avrebbero  avuto 
non  i  beni  materiali  ed  i  cibi  spirituali,  molti  o  pochi, 
che  avessero  saputo  procurarsi  coi  loro  meriti,  ma  quelli 
soltanto  che  la  classe  governante,  i  saggi  dell'areopago 
mondiale  avrebbero  ritenuto  giusto  concedere  loro.  Non 
un  libero  acquisto  sarebbe  stato,  ma  una  largizione  a 
norma  di  meriti  valutati  da  altri. 


—  339  — 

Perciò  io  dico  che  nor  invano  combatter  l' no  la  guer- 
ra, e  che  il  principio  della  ripartizione  comunistica  dei 
beni  della  terra,  comunistica  perchè  deliberata  in  se- 
guito a  consigli  di  sapienti,  giustamente  fu  sconfitto. 
Non  la  Germania  giacque  vinta  in  questa  guerra,  ma  i 
falsi  principi  in  cui  essa  s'era  irretita,  per  esaltazione 
satanica  d'orgoglio,  contro  le  grandi  tradizioni  del  suo 
pensiero.  Non  l'Inghilterra  vinse,  ma  il  principio  da  essa 
bandito  dell' auto-educazione  degli  uomini,  di  tutti  gli 
uomini,  a  governare  se  stessi,  a  creare  lo  Stato  entro  di 
sé,  entro  il  proprio  spirito,  e  ad  ubbidire  alla  propria 
creazione,  invece  che  al  verbo  della  sapienza  esterna.. 

Or  questa  è  vittoria  non  dell'Inghilterra,  ma  del 
mondo  intiero  e  della  vera  Germania  medesima.  Ben 
può  darsi  che  nella  febbre  della  lotta,  nei  torbidi  sogni 
di  paventate  rivincite,  nella  collera  del  sangue  inno- 
cente sparso,  talvolta  si  passi  il  segno,  ed  il  vincitore 
per  un  istante  faccia  suo  il  pensiero  del  vinto.  Ma  son 
parvenze  fuggitive.  Il  morto  principio  non  ritorna.  In- 
vano i  corifei  della  dittatura  proletaria  piangono  sulla 
vittoria  conseguita.  Questa  rimane.  I  nostri  figli,  noi 
stessi  ne  assaporeremo  i  frutti  divini. 

(Dalla  Minerva  del   16  luglio- 1    agosto    1919). 


VERSO  LA  CITTA'  DIVINA 

L'articolo  che  Giuseppe  Rensi  (1)  intitola  alla  «  bel- 
va bionda  »  è  lo  sfogo  appassionato,  ansioso  di  chi  si 
sente  sperduto  nel  disordine,  nell'anarchia,  in  mezzo 
all'odierno  ammattimento  convulsionario  di  tutto  e  di 
tutti.  Si  vuole  un  po'  di  ordine;  si  desidera  l'unifor- 
mità, il  comando,  l'idea  unica  a  cui  tutti  obbediscano, 
il  Napoleone.  La  borghesia  sembra  incapace  a  ricreare 
la  disciplina;  i  borghesi  hanno  il  temperamento  critico 
e  corrosivo.  Lasciamo  dunque  il  passo  al  proletariato 
ignorante,  crudele,  ma  risoluto  e  deciso  a  far  trionfare 
il  proprio  ideale,  ad  ammazzare  quanta  gente  basta, 
perchè  tutti  gli  ideali  scompaiano  e  soltanto  il  suo  ri- 
manga e  domini  e  dia  agli  uomini  ciò  di  cui  essi  hanno 
sovratutto  bisogno  :  una  autorità,  una  disciplina,  una 
religione,   dia  alla  società  un'unità  viva  e  vera. 

Giuseppe  Rensi  ha  scritto,  in  una  pagina  di  prosa 
irruente  e  magnifica,  un  vero  inno  alla  forza  che  uni- 
fica, che  uccide  il  dubbio  e  segna  la  strada.  Il  suo  inno 
risponde  ad  un  bisogno  dell* animo  umano  il  quale  ri- 
fugge dai  contrasti,  dalle  lotte  di  uomini,  di  partiti,  di 
idee,  e  desidera  la  tranquillità,  la  concordia,  la  unità 
degli  spiriti,   anche  se  ottenuta  coi  ferro  e  col  sangue. 

Se  ne  fossi  capace,  vorrei  scrivere  un  inno,  irruente 
ed  avvincente  come  il  suo,  alla  discordia,  alla  lotta,  alla 


(i)  Vedi  Rivista  di  Milano,  n.  33,  del  5  marzo  1920 


—  342  — 

disunione  degli  spiriti.  Perchè  dovrebbe  essere  un  idea- 
le pensare  ed  agire  nello  stesso  modo?  Perchè  dobbia- 
mo esaltare  il  proletariato  ignorante  e  crudele,  il  quale 
non  critica,  ma  vuole;  vuole  ciò  che  non  sa  e  vuole 
tanto  più  fortemente  quanto  meno  conosce  la  mèta  ver- 
so cui  tende?  Qual  mai  ragione  sostanziale  vi  è  perchè 
lo  Stato  debba  avere  uni  proprio  ideale  di  vita,  a  cui 
debba  napoleonicamente  costringere  gli  uomini  ad  uni- 
formarsi? Perchè  una  sola  religione  e  non  molte,  perchè 
una  sola  opinione  politica  o  sociale  o  spirituale  e  non 
infinite  opinioni? 

Il  bello,  il  perfetto  non  è  l'uniformità,  non  è  l'unità, 
ma   la  varietà   ed   il   contrasto. 

Coloro  i  quali  si  lamentano  del  disordine  odierno 
degli  spiriti  ed  anelano  ad  un  ordine  nuovo,  non  sanno 
interpretare  se  stessi,  si  lagnano  di  ciò  che  amano,  sof- 
frono di  ciò  che  li  fa  vivere.  L'aspirazione  all'unità,  al- 
l'impero di  uno  solo  è  una  vana  chimera,  è  l'aspirazione 
di  chi  ha  un'idea,  di  chi  persegue  un  ideale  di  vita  e 
vorrebbe  che  gli  altri,  che  tutti  avessero  la  stessa  idea 
ed  anelassero  verso  il  medesimo  ideale.  Egli  una  sola 
cosa  non  vede  :  che  la  bellezza  del  suo  ideale  deriva  dal 
contrasto  in  cui  esso  si  trova  con  altri  ideali,  che  a  lui 
sembrano  più  brutti,  dalla  pertinacia  con  cui  gli  altri 
difendono  il  proprio  ideale  e  dalla  noncuranza  con  cui 
molti  guardano  tutti  gli  ideali.  Se  tutti  lo  accettassero, 
il  suo  ideale  sarebbe  morto.  Un'idea,  un  modo  di  vita, 
che  tutti  accolgono,  non  vai  più  nulla.  Noi  economisti 
applichiamo  questo  concetto  ai  beni  economici,  dicendo 
che  un  bene,  per  acquistare  il  quale  non  fa  d'uopo  fare 
alcun  sforzo,  non  è  più  un  bene  economico,  vale  zero. 
Così  è  anche  dei  beni  morali.  Se  un  Napoleone  proleta- 


—  343  — 

rio  riuscisse  ad  imporre  il  suo  impero  all'Europa,  se 
distruggendo  tutti  gli  avversari  e  tagliando  la  testa  a 
tutti  coloro  che  pensassero  diversamente,  imprimesse 
le  idee  del  proletariato  a  tutti  gli  europei,  in  quel  gior- 
no vi  sarebbe  forse  l'unità,  ma  l'unità  del  nulla.  L'idea 
nasce  dal  contrasto.  Se  nessuno  vi  dice  che  avete  torto, 
voi  non  sapete  più  di  possedere  la  verità.  Il  giorno 
della  vittoria  dell'unico  ideale  di  vita,  la  lotta  ricomin- 
cerebbe, perchè  è  assurdo  che  gli  uomini  si  contentino 
del  nulla. 

No.  Gridiamolo  alto.  La  vita  disordinata,  affannosa, 
antiunitaria,  antidisciplinata  che  noi  conduciamo  pare 
insopportabile  a  noi  che  ne  soffriamo  i  duri  contraccolpi 
individuali,  economici  e  morali.  Parrà  bellissima  alle 
venture  generazioni,  le  quali  godranno  i  frutti  delle  ve- 
rità  politiche,  economiche  e  morali  che  i  contrasti  odier- 
ni avranno'  fatto  trionfare. 

O  non  è  forse  una  concezione  dello  Stato  che  vuole 
trionfare  contro  un'altra?  Trionfo  non  definitivo,  pre- 
cario, ognora  combattuto  e  contrastato  da  tendenze  av- 
verse? Ma  la  volontà  di  trionfare  esiste;  ed  il  tragico 
del  momento  sta  in  questo  che  molti,  che  troppi  uomini 
non  vedono  che  una  lotta  grandiosa  si  combatte  tra 
due  opposti  principii  e  in  che  cosa  stia  la  lotta. 

C*era  un  tipo  di  Stato,  il  quale  aveva  un  ideale  re- 
ligioso, e  voleva  imporlo  agli  uomini  tutti  viventi  in 
Europa.  La  riforma  protestante  spazzò  via  quel  tipo 
di  Stato;  e  la  vita  religiosa  divenne  un  problema  indi- 
viduale, intimo,  sottratto  al  controllo  altrui.  Fu,  pen- 
sano   molti,    un   riamn amento    della   religiosità. 

Ci  furono,  dopo,  Stati  i  quali  vollero  imporre  agli 
uomini  un  ideale  unico  di  vita  politica.  A  volta  a  volta 


—  344  — 

Spagna,  Francia,  Germania  credettero  di  avere  la  mis- 
sione di  governare  il  mondo;  di  plasmare  1* umanità  se- 
condo un  proprio  schema  ideale  politico,  economico, 
spirituale  :  il  mondo  divenuto  spagnuolo,  francese,  te- 
desco. Senza  dubbio  l'ideale  era  grandioso.  Terribil- 
mente bello.  Ho  scritto  tante  volte  prima,  durante  e 
dopo  la  guerra,  che  la  vittoria  dei  tedeschi  sarebbe 
stata  una  fortuna,  economicamente  e  politicamente,  per 
l'Europa  e  per  l'Italia.  E  torno  a  scriverlo.  Governo  di 
dotti,  poveri  ed  onesto;  economia  ben  diretta;  progressi 
tecnici  meravigliosi;  incrementi  del  sapere  e  del  be- 
nessere straordinari,  mai  più  visti  ed  a  breve  scadenza; 
una  classe  governante  consapevole  di  se,  dura  coi  ri- 
voltosi, ma  benefica  alla  gente  tranquilla  :  ecco  quali 
sarebbero  state  le  conseguenze  di  una  vittoria  dell'idea 
contenuta   nello    Stato  tedesco. 

Non  ho  altrettanta  fede,  anzi  non  ho  alcuna  fede  che 
risultati  consimili  si  possano  mai  ottenere  in  seguito 
alla  vittoria  dell'ideale  comunista  russo.  Dall'ignoranza 
e  dalle  barbarie,  da  una  classe  priva  di  dirigenti  non 
può  nascere  l'ordine  e  la  disciplina.  Ma  dalla  Germa- 
nia vittoriosa  questo  poteva  sperarsi,  questo  era  certo 
si  sarebbe  ottenuto  :  che  per  un  secolo  l'Europa  e  forse 
rumanità  avrebbero  parlato,  pensato  ed  operato  in  te- 
desco, secondo  modi  di  pensare  e  di  vivere  tedeschi, 
secondo  una  disciplina  ed  una  volontà  unica.  L'uma- 
nità per  un  secolo  sarebbe  stata  contenta.  Così  come 
sarebbe  accaduto  se  avesse  vinto  Napoleone.  Epperciò 
quell'uomo  di  genio  non  riuscì  mai  a  comprendere  per- 
chè mai  i  popoli  d'Europa  repugnassero  alla  felicità 
che  egli  voleva  ad  essi  procurare. 


—  345  — 

La  rifiutarono  anche  stavolta.  Milioni  di  uomini  mo- 
rirono per  allontanare  dall'Europa  l'amaro  calice  della 
felicità  e  dell'unità  spirituale.  Morirono  per  far  trion- 
fare un  altro  ideale.  L'ideale  dello  stato,  il  quale  si 
astiene  dall'imporre  agli  uomini  una  foggia  di  vita. 
Con  le  guerre  di  religione,  gli  uomini  vollero  che  non 
ci  fosse  una  unità  religiosa  imposta  dallo  Stato.  Con 
le  guerre  di  Luigi  XIV,  di  Napoleone,  e  con  quella  ora 
terminata  gli  uomini  combatterono  contro  l'idea  dello 
Stato  il  quale  impone  una  forma  di  vita  politica,  di 
vita  economica,  di  vita  intellettuale.  Vinse,  e  non  a 
caso,  quella  aggregazione  di  forze  militari,  presso  cui 
lo  Stato  è  concepito  come  l'ente  il  quale  assicura  agli 
uomini  l'impero  della  legge,  ossia  di  una  norma  este- 
riore, puramente  formale,  all'ombra  della  quale  gli 
uomini  possono  sviluppare  le  loro  qualità  più  diverse, 
possono  lottare  fra  di  loro,  per  il  trionfo  degli  ideali 
più  diversi.  Lo  stato  limite;  lo  Stato  il  quale  impone  li- 
miti alla  violenza  fisica,  al  predominio  di  un  uomo 
sugli  altri,  di  una  classe  sulle  altre,  il  quale  cerca  di 
dare  agli  uomini  le  opportunità  più  uniformemente  di- 
stribuite per  partire  verso  mete  diversissime  o  lonta- 
nissime le  une  dalle  altre.  L'impero  della  legge  come 
condizione  per  l'anarchia  degli  spiriti;  la  forza  limitata 
alla  vita  estrinseca;  l'unità  ristretta  alle  forme  ed  alle 
condizioni  di  vita.  Ma  dentro,  ma  nella  sostanza,  nello 
spirito,  nel  modo  di  agire,  lotta  continua,  pertinace, 
ognora  risorgente.  Questo  è  ciò  che  vollero  gli  uomini, 
i  quali  si  trovarono  da  una  parte  della  trincea. 

La  creazione  del  nuovo  tipo  di  Stato  è,  tuttavia, 
lenta  e  difficile  e  dolorosa.  È  più  semplice  comandare 
ed   ubbidire;    è   meno  doloroso  —  nonostante   il   taglio 


—  346  — 

delle  teste  discordi  —  creare  un'unità  spirituale  colla 
forza  del  braccio.  Ma  gli  uomini  sono  nati  per  creare 
soffrendo.  L'unità,  auspicata  da  Rensi,  la  disciplina  nel 
lavoro,  la  società  vera  di  uomini  noi  la  raggiungeremo 
quando  gli  uomini,  lottando  e  scagliando  gli  uni  con- 
tro gli  altri  i  propri  ideali,  avranno  compiuta  la  propria 
educazione;  quando  si  saranno  persuasi,  con  l'amara 
esperienza  propria,  con  il  dolore  degli  insuccessi,  quale 
via  debba  tenersi  per  ascendere.  L'unità  imposta  dai 
comunisti  sarebbe  la  morte  spirituale-  Noi  vogliamo 
l'unità,  ma  conquistata  vivendo  e  soffrendo,  elevandoci 
al  di  sopra  della  materia,  del  godimento  bruto.  Quando 
avremo  compiuto  lo  sforzo  di  veder  chiaro  dentro  ai 
nostri  dissensi,  quando  li  avremo  superati  col  pensiero, 
avremo  raggiunto  l'unità  spirituale,  avremo  creata  la 
città  divina,  quella  in  cui  vivono  gli  spiriti  liberi  che 
sanno  le  passioni  ed  avendo  sacrificato  all'idolo  falso, 
hanno  trovato  la  via  della  verità. 

(Dalla  Rivista  di  Milano  del  20  aprile   1920). 


IV. 
REGOLE   DI  GALATEO 


TORNIAMO  AL    "  SIGNOR  „  ! 

Il  giorno  4  febbraio  era  diramato  da  Versailles  il 
seguente    comunicato  : 

((  Dal  30  gennaio  al  2  febbraio  il  Consiglio  supe- 
riore di  guerra,  sotto  la  presidenza  del  signor  Clemen- 
ceau,  ha  tenuto  sette  sedute  plenarie  a  Versailles.  Era- 
no presenti  :  per  la  Francia  :  il  sig.  Clemenceau,  il  sig. 
Pichon,  il  gen.  Foch,  il  gen.  Pétain,  il  gen.  Weygand; 
per  la  Gran  Bretagna  :  il  sig.  Lloyd  George,  Lord  Milner, 
il  gen.  Sir  W .  Robertson,  il  feldmaresciallo  Sir  D.  Haig, 
il  gen.  Sir  H.  Wilson;  per  l'Italia  :  il  sig.  Orlando,  il 
barone  Sonnino,  il  gen.  Alfieri,  il  gen.  Cadorna;  per  gli 
Stati  Uniti:   il  gen.  Bliss,  il  gen.  Pershing  ». 

Se  quel  comunicato,  invece  che  daWHavas  e  da 
Versailles,  fosse  stato  diramato  dalla  Sefani  e  da  Ro- 
ma, innanzi  al  nome  di  ogni  ministro  sarebbero  state 
messe  le  sacramentali  S.  E.  (Sua  Eccellenza)  ed  a  quello 
di  ogni  generale  i  titoli  cavallereschi  di  cui  essi  sono 
forniti.  Accadde  non  di  rado  leggere,  nei  rendiconti 
dei  pranzi  ufficiali  offerti  dal  governo  italiano  ai  mi- 
nistri alleati,  che  i  ministri  italiani  cominciavano  i  loro 
brindisi  con  le  parole  che  da  noi,  per  la  oramai  lunga 
abitudine,  suonano  naturali  :  Eccellenza! ,  come  se  que- 
sto titolo  competesse  ai  ministri  in  Francia  &  in  Inghil- 
terra. E  nei  giornali  italiani,  quando  si  parla  del  signor 


—  350  — 

Clemenceau  e  del  signor  Lloyd  George,  per  lo  più  si 
prefigge  al  nome  la  sillaba  on.,  quando  addirittura  non 
si  qualifica  di  lord  qualsiasi  ministro  inglese,  anche  se 
si  chiama  Lloyd  George  o  Asquith  e  come  se  non  fosse 
per  un  premier  liberale  inglese  un  punto  d'onore  il 
non   accettare  di  far  parte   della  Camera  dei   Lordi. 

Ho  voluto  fare  queste  osservazioni,  che  solo  in  ap- 
parenza paiono  formalistiche,  perchè  mi  sembra  che  i 
maggiori  contatti  con  Testerò  provocati  dalla  guerra 
presente  dovrebbero  almeno,  fra  gli  altri,  produrre  que- 
sto utile  risultato  :  di  ricordare  agli  Italiani  come  essi 
inavvertitamente  nei  sessantanni  di  vita  nazionale  siano 
scivolati  in  uno  spagnolismo  di  linguaggio  e  di  titola- 
ture, quale  non  si  usa  forse  in  nessun  paese  d'Europa 
e  quale  non  si  usava  un  tempo  negli  antichi  Stati  ita- 
liani; e  di  persuaderli  come  questo  linguaggio  altiso- 
nante, da  basso  impero,  contrasti  vivamente  e  non  pos- 
sa non  produrre  un'impressione  direi  quasi  di  grotte- 
sco negli  amici  nostri  appartenenti  alle  nazioni  di  ci- 
viltà occidentale. 

Soltanto  in  Italia  —  confronto,  s'intende,  le  nostre 
abitudini  con  quelle  francesi,  inglesi  e  nord-americane 
—  si  usa  nel  discorso  e  nello  scritto  indirizzare  la  pa- 
rola, la  lettera,  la  relazione  stampata  ai  ministri  con  la 
formula  :  Eccellenza!  In  Francia  si  dice  o  si  scrive  sem- 
plicemente Monsieur  le  ministre,  in  Inghilterra  sempre 
Sir  nel  parlare,  e  Sir  o  Mr.  (Mister)  a  seconda  della 
qualità  della  persona  nello  scrivere;  negli  Stati  Uniti 
sempre  Sir  nel  parlare  e  Mr.  nello  scrivere.  Negli  Stati 
Uniti  il  signor  Wilson  medesimo  è  semplicemente  il 
signor  Wilson  o,  nelle  relazioni  ufficiali,  Mr.  President, 
signor  Presidente. 


—  351  — 

Tutt'al  più  coloro  che  vogliono  dare  un  titolo,  ne/7o 
scrivere,  al  loro  Presidente  lo  chiamano  Dr.  Wilson,  il 
dottor  Wilson,  dal  suo  titolo  accademico.  Dire  Sua  Ec- 
cellenza Wilson  o  Sua  Eccellenza  Lloyd  George  o  Sua 
Eccellenza  Clemenceau   sarebbe   una  stravaganza. 

Soltanto  in  Italia  si  usa  prefiggere  al  nome  dei  de- 
putati alla  Camera  il  titolo  di  on.  I  deputati  alle  Ca- 
mere alleate  sono  dei  signori  senz' altra  aggiunta.  Sol- 
tanto alla  Camera  dei  Comuni,  i  deputati  o  members, 
ai  quali  la  consuetudine  vieta  di  pronunciare  il  nome 
e  cognome  dei  colleghi,  adoperano  parlando  dei  —  e 
non  ai  —  loro  colleghi  le  qualifiche  il  mio  onorevole 
amico  o,  se  si  tratta  di  deputati  che  sono  anche  membri 
del  Consiglio  privato  della  Corona,  il  mio  molto  onore- 
vole amico,  facendolo  seguirei  o  no  dall'indicazione  del 
collegio  di  cui  il  collega  è  rappresentante,  a  seconda 
che  tale  indicazione  è  necessaria  o  no  a  identificare  la 
persona  di  cui  ci  si  occupa.  Gli  italiani  hanno  imitata 
dall'Inghilterra  la  qualifica  di  onorevole;  ma,  mentre 
lassù,  nella  patria  delle  istituzioni  rappresentative,  quel- 
la è  una  cortesia  di  discorso,  un  modo  distinto  di  espri- 
mere la  propria  stima  personale  verso  il  collega,  forse 
verso  l'avversario  politico,  in  Italia  quella  qualifica  si 
è  trasformata  in  un  titolo,  che  si  usa  nel  discorso  con 
cui  si  interpellano  i  deputati  e  che  si  attacca  alla  loro 
persona  persino  quando  essi  non  fanno  parte  del  Par- 
lamento . 

Soltanto  in  Italia  si  usa,  nel  parlare  e  nello  scrivere 
e  persino  nel  semplice  saluto,  indirizzare  il  discorso  o 
le  lettere  agli  insigniti  di  onorificenze  cavalleresche  con 
le  parole  cavaliere!  commendatore!  Se  da  noi  non  si  è 
ancora   giunti    a  salutare   taluno    col   titolo    di    cavaliere 


—  352  — 

ufficiale,  o  di  grand' uj fidale,  o  di  cavaliere  di  gran  cro- 
ce, ciò  è  accaduto  soltanto  perchè  la  pronuncia  di  que- 
sti titoli  è  un  po'  lunga  e  fastidiosa.  Non  manca  però 
la  buona  volontà  di  fare  qualche  progresso  su  questa 
via.  Tant'è  vero  che,  nello  scrivere,  i  puristi  delle  ti- 
tolature già  usano  notare  sugli  indirizzi  un  cav.  per  i 
cavalieri  semplici,  e  invece  un  cavaliere  per  disteso  per 
i  cavalieri  di  gran  croce. 

Alla  brava  gente  che  si  compiace  nel  sentirsi  salu- 
tare per  via  coi  titoli  di  cavaliere  e  di  commendatore 
può  far  dispiacere;  ma  sta  di  fatto  che  questa  abitudine 
spagnolesca  —  e  forse  io  calunnio  la  Spagna!  —  dei 
saluti  in  termini  cavallereschi  è  una  peculiarità  tutta 
nostra.  Non  parlo  degli  Stati  Uniti,  a  cui  si  potrebbero 
aggiungere  la  Svizzera  e  la  Norvegia,,  dove  per  somma 
fortuna  non  esistono  ordini  cavallereschi  ed  è  vietato 
ai  cittadini  ricevere  decorazioni  da  potenze  straniere; 
ma  neanche  in  Francia  e  in  Inghilterra  non  si  usa  nulla 
di  simile  a  ciò  che  è  finito  con  diventare  abitudinario 
da  noi.  Non  che  quei  popoli  non  siano  ghiottissimi  di 
titoli  cavallereschi;  anzi,  per  la  maggior  difficoltà  di 
conseguire  croci  e  commende  nell'ordine  della  Legion 
d'onore  o  in  quello  del  Bagno,  quei  titoli  sono  ambitis- 
simi e  invidiati,  più  che  le  corrispondenti  decorazioni 
dell'ordine  della  Corona  d'Italia.  Ma  coloro  che  ne  so- 
no insigniti  hanno  avuto  il  buon  gusto  di  non  deprezzare 
l'onorificenza  ricevuta  facendosela  ricordare  ad  ogni 
passo,  per  via,  negli  uffici,  nei  negozi,  nel  parlar  fa- 
migliare, sugli  indirizzi  delle  lettere  e  delle  cartoline. 
Il  cavaliere  della  francese  Legion  d'onore  tiene  assais- 
simo alla  sua  croce  e  ama  fregiarsi  l'occhiello  della 
giacca  con  il  relativo  nastrino;  ma  nello   scrivere  e  nel 


—  353  — 

parlare  egli  rimane  sempre  Monsieur  X.  Sarebbe  di  cat- 
tivo tono,  anzi  di  pessimo  gusto,  chiamarlo  Chevalier  X. 
Tutta  questa  schiera  risuscitante  di  cavalieri  borghesi 
e  a  piedi  basterebbe  per  affogare  nel  ridicolo  l'istitu- 
zione della  Legion  d'onore  presso  i  nostri  amici  di 
oltr'Alpe.  Gli  inglesi  sono  anche  assai  affezionati  ai 
loro  ordini;  e  nelle  sopracarte  delle  lettere  si  ha  somma 
cura,  quando  un  Mr.  Smith  è  stato  insignito  della  qua- 
lità di  Knight  (cavaliere)  in  un  ordine  cavalleresco,  di 
scrivere  d'or  innanzi  il  nome  sotto  la  forma  di  Sir  Her- 
bert Smith.  Ma  a  nessuno  viene  in  mente  di  salutare  un 
Knight  o  un  Knigth  Commander  inglese  col  titolo  che 
gli  spetta.  Ad  essi  il  discorso  continua  a  essere  indi- 
rizzato col  sir,  come  si  faceva  prima  quando  egli  era 
un  semplice  mister.  Dico  continua,  perchè  è  ben  risa- 
puto che,  nel  discorso,  il  sir  o  signore  si  dà  a  tutti,  sem- 
plici mortali,  decorati  o  baronetti,  salvochè  a  coloro  che 
hanno  diritto,  per  ragion  di  nobiltà,   al  titolo  di  lord. 

Soltanto  in  Italia  è  caduto  in  dissuetudine  V  antico, 
bello,  fine  appellativo  di  signore.  Tanto  bello  e  tanto 
fine  che  gli  inglesi  nessun  maggior  onore  credono  di 
poter  render  a  un  italiano  quando  ne  pronunciano  il 
cognome  fuor  di  premettervi  1" appellativo  signore.  Essi 
dicono  e  scrivono  :  signor  Orlando,  signor  Salandra,  si- 
gnor Giolitti,  ed  a  ragione  credono  di  rendere  onore  ai 
nominati.  Così  si  faceva  anche  da  noi  quando  si  scri- 
veva :  messer  Niccolò  Machiavelli.  Invece,  tanta  è  la 
degenerazione  nostra  a  questo  riguardo,  tanta  la  mania 
dei  titoli  e  del  parlare  metaforico,  enfatico  e  grosso- 
lano, che  quasi  si  considera  come  una  persona  da  nulla 
colui  al  quale  non  si  possa  parlare  come  ad  eccellenza, 
onorevole,   commendatore,   cavaliere. 


25 


—  354  — 

Il  buon  gusto  è  siffattamente  scomparso  che  vi  sono 
dei  miei  colleghi,  a  cui  pure  nessun  titolo  dovrebbe 
esser  più  gradito  di  quello  di  professore  —  gradito  co- 
me quello  che  ricorda  la  missione,  lo  scopo  della  vita 
loro,  così  come,  negli  altri  campi,  il  titoli  di  avvocato, 
di  medico,  di  ingegnere,  di  mercante,  di  industriale, 
di  artigiano,  —  i  quali  preferiscono  di  essere  apostrofati 
in  qualità  di  cavalieri  e  commendatori.  Il  brutto  andaz- 
zo si  è  così  diffuso  che  oggi  i  giornalisti  usano  la  pa- 
rola signor  soltanto  per  prefiggerla  ai  nomi  di  coloro 
con  cui  essi  capitano  a  polemizzare;  quasi  che  quel 
prefisso   fosse   un   segno    di    disprezzo. 

Non  credo  die  neppure  i  tedeschi,  pur  così  ado*- 
ratori  di  ogni  forma  di  autorità,  così  formalisti  osser- 
vanti di  ogni  ragione  di  gerarchie  sociali  e  cavallere- 
sche, siano  giunti  all'estremo  abuso  che  dei  titoli  e 
degli  atti  di  adulazione  verbale  si  è  venuto  a  commet- 
tere in  Italia.  I  primi  ufficiali  dei  ministeri  piemontesi 
indirizzavano  al  conte  di  Cavour  i  loro  rapporti  con  la 
formula  :  signor  ministro!  Sarebbe  tempo  che  si  tornas- 
se, dappertutto,  nelle  costumanze  ufficiali  e  sociali,  nel 
parlare  e  nello  scrivere,  all'antica  semplicità,  e  abban- 
donassimo le  recenti  non  lodevoli  abitudini  di  linguag- 
gio arlecchinesco,  che  devono  essere  cagione  di  stupore 
non  piccolo  ai  nostri  alleati,  usi  a  vivere  in  paesi  dove 
la  democrazia  nuova  non  ha  fatto  dimenticare  le  anti- 
che forme  del  vivere  aristocratico,  che  vuol  dire  fine  e 
semplice. 

(Dalla  (<  Minerva  »  del    1°  marzo    1918). 


FINITO  DI   STAMPARE 

IL  GIORNO   15   MARZO   1921 

A  CURA  DI 

RICCARDO  GARRONI 

TIPOGRAFO 
IN   ROMA,   PIAZZA  MIGNANELLl,   23 


o 


113  Einaudi,    Luigi 

177         Gli  ideali  di  un 

E55       economista 


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